Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il concetto di spirito

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Wilhelm DiltheyNon vi è forse nessun concetto che distingua più nettamente la filosofia moderna da quella antica come lo fa il concetto di Spirito. Tuttavia ciò avviene in negativo.

Ricordo ancora la passione con la quale affrontai molto anni fa il testo di Wilhelm Dilthey dedicato a questo tema, per poi restare spaventosamente deluso dopo solo una decina di pagine dall’inizio della lettura.1

Lo Spirito come lo intendeva il pensatore tedesco non era affatto quello come lo avevo sempre inteso io (spontaneamente ed inoltre per formazione cristiana).

Ebbene, in quella fase di letture filosofiche avide ma disordinate e ingenue, ciò iniziò a farmi comprendere molto presto quanto la disciplina che avevo sempre amato (la filosofia) era ormai molto diversa da quella che veniva praticata ormai da almeno due secoli.

Non a caso la nostra preparazione liceale in filosofia, dopo essersi soffermata prevalentemente sul pensiero antico, aveva avuto il suo culmine in Kant e poi aveva sorvolato piuttosto rapidamente su tutti i filosofi successivi arrestandosi più o meno proprio nei paraggi di Dilthey (una lettura che proprio per questo da allora in poi avevo sempre sognato di fare).

 

Ma poi ancora dopo, riprendendo in tarda età a studiare filosofia per mezzo del mio dottorato, ho vissuto una delusione non minore nell’approfondire il pensiero di Husserl (a margine dei miei studi su Edith Stein).

Il concetto husserliano di Spirito non era infatti molto diverso da quello di Dilthey. A questo punto manca soltanto di menzionare Hegel.

Ma confesso senza alcuna vergogna che proprio per questo motivo mi sono sempre rifiutato di leggere i suoi testi, limitandomi così a sapere di lui appena quanto si apprende nei manuali liceali ed in alcuni saggi che ne ricordano il pensiero.

Insomma ciò che da sempre l’uomo comune ha inteso come «spirito» non è affatto ciò che con questo termine (e concetto) è stato e viene inteso dalla filosofia moderna. E tale intendimento distingue quest’ultima non solo dalla filosofia antica ma soprattutto appunto dall’uso linguistico e concettuale dell’uomo comune.

Il più spontaneo, usuale e tradizionale intendimento del termine è infatti quello di un’entità che l’esatto opposto della Materia.

Non a caso, dopo lunghi anni di riflessione primariamente fenomenologico-husserliana, la Stein stessa approdò alla fine proprio a questo così tradizionale ed antiquato concetto di Spirito.2

Concetto che è poi quello più esplicitamente religioso e quindi anche cristiano.
Di fatto, insomma, la filosofia moderna ha iniziato a identificare lo Spirito sia con la Ragione che con l’Io auto-cosciente e conoscente stesso; ed infine anche con il mondo di prodotti della Ragione umana, ossia l’edificio della Cultura.

E non vi è dubbio che anche la responsabilità di questo fenomeno vada attribuita a Cartesio.

Ma, come abbiamo visto nelle lezioni precedenti, tale intendimento moderno del termine si è prolungato ben oltre la visione del pensatore francese pervenendo così fino ad alcuni filosofi dei quali ho parlato molto spesso, e cioè appunto Husserl e Edith Stein.

Forse solo in Kant non si trova traccia del termine, ma si tratta di un’eccezione. E del resto Kant risente in un indebolimento progressivo del concetto di Spirito che si era già manifestato perfino in pensatori molto pronunciatamente metafisici come Leibniz.

Quest’ultimo infatti fu uno degli esponenti di spicco di quella metafisica che giustamente Scheler avrebbe poi definito come assolutamente inconciliabile con la religione.3

Sta di fatto però che, dopo Kant, il concetto di Spirito assunse con Hegel un ruolo di assoluto primo piano, e proprio in quanto Ragione ed Io.

Intanto due pensatori e studiosi del nostro tempo hanno tracciato una storia del pensiero post-hegeliano, mostrandoci il proseguire di tale percorso fin nel pieno del XX secolo nella forma dello “spiritualismo” sviluppatosi in Francia nel contesto della rivista “Esprít” – che vide attivi pensatori come Blondel ed altri.4

E non dev’essere un caso che proprio in tale contesto iniziò a svilupparsi quel personalismo francese (rappresentato da Mounier, Peguy ed altri) che poi recentemente ha avuto il suo culmine in filosofi come Ricoeur e Guardini, e che intanto aveva messo l’accento sul concetto di unicità irripetibile dell’individuo umano.

Il pensiero di Edith Stein si era intanto mosso in una sfera filosofica per certi versi molto prossima a quella qui descritta (sviluppando il concetto di unicità personale, accanto ad un intendimento fortemente spirituale dell’Io ed anche del mondo con il quale l’Io sta in relazione).

Si veda per questo la sedicesima lezione dedicata all’uomo. In ogni caso la pensatrice tedesca (in continuità con Husserl) può venire considerata uno dei protagonisti della visione che riconosce l’intima relazione esistente tra Spirito trascendente (Io umano) e Spirito immanente (mondo).

La pensatrice distinse al proposito uno Spirito soggettivo ed uno Spirito oggettivo (in intima relazione tra di loro specie per mezzo del vissuto delle cose in quanto valori), ed infine identificò poco a poco quest’ultimo come il Logos cristico obiettivato nel mondo, ossia come una sorta di ”ontologia cristocentrica”.5

Di questo però parleremo più avanti.

Sta di fatto però che − anticipato dai corrosivi aforismi di Nietzsche – il percorso successivo della filosofia moderna ha decisamente sorpassato, surclassato ed eclissato il concetto di Spirito. Ed in tal modo oggi assolutamente impensabile che un filosofo parli di «spirito».

Infatti risulta addirittura ridicolo il considerarlo come il polo opposto della Materia (spiritualismo metafisico) e lo stesso considerarlo come l’equivalente della Ragione e dell’Io auto-cosciente e conoscente (spiritualismo filosofico).

Ma soprattutto risulta ridicolo tematizzare la sua esistenza in quanto entità ontologica. Ecco che lo Spirito viene oggi considerato come una mera invenzione della religione e della metafisica, e quindi come un concetto da usare in maniera al massimo metafisica e comunque di interesse unicamente storico e non più invece affatto filosofico.

In parole molto semplici, insomma, oggi per il filosofo parlare di «spirito» non significa più assolutamente nulla e non ha più alcun senso.

Dunque è del tutto vano rivolgersi ai pensatori più o meno attuali per trovare una discussione del concetto e termine «spirito».

Vano è allo stesso modo rivolgersi al pensiero moderno antecedente, e cioè quello che prese le mosse da Cartesio. Infatti ancora oggi quando noi uomini comuni (da non filosofi militanti) rivolgiamo la nostra attenzione allo Spirito, lo facciamo attendendoci di ritrovare qualcosa di diverso dalla Ragione e dall’Io.

Ci aspettiamo insomma di ritrovare qualcosa di molto simile a quanto è presente nel pensiero autenticamente metafisico (in gran parte antico) ed ancor più negli scritti di un po’ tutte le religioni del mondo, incluse quelle non monoteistiche e perfino animiste.

Anzi forse proprio in queste ultime il concetto di Spirito ha il suo significato più forte (ed anche provocatorio), ossia quello della sottilissima e misteriosa sostanza quintessenziale che impregna di sé tutto l’universo.

Mi riferisco ad esempio al concetto di “Great Spirit” che era comune presso gli indiani del Nord America – e che uno studioso canadese ha recentemente considerato come possibile termine di paragone dell’ontologia cristocentrica sviluppata dalla Stein.

Pertanto anche rispetto a questo tema filosofico, noi non abbiamo alcuna scelta e dobbiamo quindi rivolgerci a sfere di pensiero radicalmente diverse dalla filosofia moderna. Sostanzialmente di tratta dei seguenti ambiti:

1) quello dell’antica filosofia metafisica;

2) quello religioso (corrispondente a vari generi di Sacre Scritture planetarie);

3) quello «esoterico-sapienziale» nel senso più lato del termine.

E quest’ultima sfera di conoscenza unisce in sé molti testi religiosi (unitamente ai commentari filosofico-metafisici sviluppatisi nel tempo su di essi) ed inoltre anche quel vasto campo di recenti studi su questo materiale che vengono usualmente definiti come “tradizionali” (vedi lezione diciannovesima).

I testi religiosi (e relativi commentari) ai quali qui mi riferisco includono una vasta ed eterogenea gamma di tradizioni religiose e metafisico-religiose sia occidentali che orientali – testi mitico-misterici orfico-pitagorici, testi mitico-misterici caldaici ed egizi (Corpus Hermeticum), scritti mazdeico-avestici, scritti cabbalistici, Veda, Upanishad, Bhagavādgīta, Zohar etc.

E bisogna dire che, a parte una certa differenza esistente tra Occidente e Oriente, in tutti questi scritti il concetto di Spirito è praticamente sempre quello che abbiamo indicato, e cioè quello di significato specificamente religioso.

In quanto entità ontologicamente opposta rispetto alla Materia, lo Spirito sta dunque a designare l’entità divina stessa nella sua abissale distanza rispetto a tutto ciò che è mondano.

Ma in questo intero contesto l’uomo è stato sempre inteso come una sorta di intermedio tra le due opposte dimensioni, e cioè tra divino-spirituale e mondano-materiale. Per questo l’uomo è stato sempre inteso come uno Spirito immerso nella realtà mondano-materiale (e quindi corporale).

Tale intendimento sostanzialmente esoterico è stato poi fatto proprio un po’ da tutti i testi religiosi designati come Sacre Scritture rivelate ai quali si riferiscono i grandi Monoteismi.

Il che significa, quindi, che la filosofia moderna stessa (a partire da Cartesio in poi) ha raccolto esattamente tale eredità metafisico-religiosa (e per certi versi perfino esoterico-sapienziale ed animistica) del concetto di «spirito».

Lo ha fatto però fin dall’inizio con un intento fortemente riduzionistico che era incentrato su due fondamentali istanze:

1) elidere le valenze più ontologiche dello Spirito per conservare solo quelle gnoseologiche;

2) cancellare sempre più la presenza divina (prima costantemente intravista tra le maglie dell’uomo inteso come Spirito) per identificare infine lo Spirito con il solo essere umano.

Ed esattamente in quest’ultimo assetto noi troviamo l’intendimento filosofico di Spirito da Hegel in poi (inclusi anche gli antecedenti leibniziani).

In Cartesio invece le cose non stavano ancora affatto così, data l’evidente persistenza presso di lui di una metafisica religiosa (vedi quinta lezione).

Ebbene in tal modo si delinea un elemento chiave per la trattazione dello Spirito che intendo fare in questa lezione, e cioè l’elemento ontologico, che d’ora in poi possiamo definire come «onto-spirituale».

E tale elemento a sua volta corrisponde ad una «esserità» (o più precisamente «onticità») dello Spirito che per molti versi sconfina addirittura in una sua tendenziale materialità e corporalità. Riprenderemo questo tema parlando della «corporalità spirituale».

In ogni caso l’isolamento dell’elemento onto-spirituale ci permette di selezionare meglio ciò di cui possiamo trattare e ciò di cui non possiamo trattare nel corso di questa lezione.

Già da tutto ciò che ho detto finora appare infatti evidente che il tema «spirito» offre materiale per una trattazione che sicuramente equivarrebbe ad un trattato di storia della filosofia. E non è certo questo che possiamo fare qui.

Abbiamo intanto visto che possiamo piuttosto agevolmente escludere l’intera filosofia moderna. Ma che fare con quella antica, che di certo non è meno ponderosa di quella moderna? È evidente che nemmeno di quest’ultima possiamo qui trattare in maniera sistematica. Potrò quindi limitarmi solo ad alcuni accenni in tal senso.

Tuttavia abbiamo a disposizione almeno alcune direttrici tematiche sulle quali lavorare.

E proverò qui ad anticiparle prima di poterle sviluppare.

La prima direttrice è quella della relazione tra dimensione onto-spirituale («esserità» dello Spirito) e dimensione onto-intellettuale («esserità» dell’Intelletto). E la seconda direttrice è quella della relazione tra Spirito trascendente e Spirito immanente.

Innanzitutto la dimensione onto-spirituale esclude quella gnoseologica ed epistemologica ma intanto anche le richiama.

Per cui, accanto alla Spirito come Essere si delinea senz’altro anche lo Spirito come Conoscenza, e quindi nuovamente ci ritroviamo di fronte alla realtà dell’Intelletto (vedi ventesima lezione).

Sta di fatto però che, proprio a causa della prevalenza della dimensione onto-spirituale (entro l’antica metafisica filosofica, entro le varie religioni ed anche entro gli scritti esoterico-sapienziali), in questa sfera di pensiero l’Intelletto è stato sempre concepito nella sua valenza ontica.

Ed ecco che allora noi ci ritroviamo di fronte a quella dimensione «onto-intellettuale» dello Spirito che appare essere inseparabile dalla dimensione onto-spirituale.

Ciò significa, quindi, che (almeno secondo questo genere di antica metafisica) lo Spirito è intanto Conoscenza in quanto è nello stesso tempo anche Essere. E per comprendere meglio cosa va inteso con questo dobbiamo rifarci a quanto abbiamo visto in diverse delle lezioni precedenti, ossia all’equivalenza tendenziale tra Idea e cosa.

Ma di questo parleremo più avanti.

In secondo luogo il concetto tradizionale di Spirito evidenzia immediatamente due dimensioni, e cioè quella trascendente e quella immanente.

La prima corrisponde alla dimensione divina mentre la seconda corrisponde alla dimensione mondano-materiale. Infine la prima corrisponde genericamente alla dimensione soggettuale mentre la seconda corrisponde genericamente alla dimensione oggettuale.

Laddove poi quest’ultima equivale più o meno al mondo in quanto realtà spirituale, ovvero ciò che spesso viene definito come «spirito oggettivo».

Prima di entrare però nel merito di questa trattazione, vorrei fare un breve percorso a volo d’uccello sulla filosofia antica che ha trattato per davvero dello Spirito.

Il che è di per sé estremamente controverso, dato che il concetto e termine era di fatto assente nel pensiero pre-cristiano occidentale.

Il problema diviene infatti delicato già con Platone, dato che non pochi critici si sono chiesti se nel suo pensiero vi sia stata o meno la nozione di spirito.

Secondo alcuni sì, secondo altri invece no.6

Anzi per questi ultimi sarebbe iniziata proprio con Platone la tradizione filosofica di identificare lo Spirito con la Ragione. Il che poi significa anche dover considerare il pensatore ateniese come il protagonista di una visione incentrata sul più rigoroso razionalismo, e quindi lontanissima dalla metafisica ed ancor più dalla metafisica religiosa.

Ma a questo punto entrano in gioco di nuovo i critici che ammettono la presenza del concetto di Spirito nel pensiero di Platone.

La maggior parte di costoro infatti ammette senza alcuna difficoltà che egli sia stato un pensatore metafisico-religioso; e qualcuno lo ha ritenuto addirittura estremamente affine al Cristianesimo, mantenendosi così sulla scia di un’idea agostiniana.7

Dunque proprio quest’ultimo deve essere un elemento chiave per l’attribuzione a Platone di un concetto di Spirito. Infatti il non considerarlo un pensatore metafisico-religioso ci costringe di fatto o a negare che tale concetto sia stato presente nel suo pensiero, oppure che esso abbia avuto appena lo stesso significato di Ragione che esso ha avuto da Cartesio in poi.

In ogni caso sono molteplici i punti di abbordaggio per delineare in Platone un concetto di Spirito che abbia i triplice significato da me prima illustrato.

Si potrebbe ben dire che è Spirito quell’Eros il quale venne da lui concepito come una forza di spinta ascensionale che trascinava con sé tanto la Conoscenza quanto l’Essere (vedi prima Montoneri); muovendo così quest’ultimo in una direzione che poi il neoplatonismo avrebbe concepito chiaramente come “ritorno” dell’intero essere al Principio.

Si potrebbe dire che Spirito è quel livello ontologico dei Principi che il Prof. Reale ha supposto come prossimo all’Uno divino e ha considerato di natura onto-intellettuale proprio a causa della sua superiorità rispetto al mondo delle Idee. E di questo passo si potrebbe investire l’intero pensiero di Platone.8

Tuttavia a mio avviso è meglio selezionare uno solo dei tanti possibili elementi di abbordaggio.

E quest’ultimo consiste per me ancora una volta nella già menzionata valenza ontica della dimensione intellettuale, ossia consiste nell’equivalenza tra Idea e cosa. Su questo non c’è qui da spendere molte parole, visto che ne abbiamo parlato già nelle scorse lezioni (specie equiparando il supremo livello dell’idea-essenza a quello dei Trascendentali indagati nella Scolastica).

In ogni caso si tratta comunque di un supremo livello di essere entro il quale l’Idea si presenta nella forma di un supremo e paradigmatico Individuo che è caratterizzato dalla massima pienezza di essere possibile.

A questa conclusione si può infatti pervenire leggendo ciò che dice il Prof. Reale nel sostenere che Platone è un pensatore dell’essere.9

Tale supremo Individuo ideale è per la precisione la «possibilità di essere» stessa in quanto essenza e forma di tutte le cose, ossia il modello ideale al quale è chiamato a conformarsi ogni possibile Essente.

Ma intanto si tratta comunque di un’idea, e quindi di una sostanza intellettuale. E proprio questo abbiamo designato prima come dimensione «onto-intellettuale».

Ora però quest’ultima dimensione tende a venire considerata la pienezza di essere stessa, cioè la più integrale e totale «realtà», nel contesto di una determinata visione metafisica che può bene venire definita come «onto-intellettualismo».

Essa consiste sic et simpliciter nel considerare l’essere pieno come caratterizzato unicamente dalla natura intellettuale, o anche ideale – insomma, secondo questa visione l’essere non è altro che Intelligenza e nello stesso tempo è supremo Io.

In Occidente il culmine di tale visione è stato raggiunto con Meister Eckhart e con il suo amico Dietrich von Freiberg.10

In Oriente tale visione corrisponde abbastanza bene all’idealismo vedantico, a sua volta in stretta correlazione con la visione di Śankara – il quale riteneva l’essere come qualcosa che in via di principio resta da sempre avviluppato nell’Io divino sommamente unitario, ovvero il supremo Sé.11

Ebbene, per gli scopi specifici di questa lezione, si può ben dire che affermare l’onticità dell’Intelletto implica affermare anche la stessa onticità che si addice allo Spirito, e quindi implica farsi sostenitori di una sostanza onto-spirituale. Infatti Intelletto e Spirito condividono la stessa straordinaria sottigliezza di essere – per cui entrambi possono apparire l’esatto contrario del così pesante essere concreto (materia, mondo, corpo) nel mentre però intanto hanno ottime probabilità di costituirne la più estrema pienezza.

Il che significherebbe che (contrariamente alle apparenze) l’essere è tanto più pieno quanto più è sottile e rarefatto, cioè quanto più è lontano dalla pensantezza e soldidità dei corpi materiali.

Nel contesto dell’onto-metafisica questa visione è stata comunque sempre minoritaria per due sostanziali motivi:

1) perché di impronta sostanzialmente platonica;

2) perché di impronta sostanzialmente gnostica.

E per comprendere quest’ultimo aspetto basti leggere il libro di Vallin poc’anzi citato, nel quale si sostiene che l’unica vera e possibile relazione con l’Uno divino si basa sulla totale affinità onto-intellettuale che esiste tra esso e l’uomo.

In altre parole, secondo questa visione, l’uomo è di per sè già un dio, e lo è in quanto è di natura onto-intellettuale.

È per tale motivo, dunque, che non è data alcuna ascesa a Dio che non avvenga per via puramente intellettuale (e non invece agapico-erotica) e che quindi non giunga alla totale assimilazione a Lui da parte dell’uomo.

Questa complessiva visione ricalca le linee generali di quella visione gnostica secondo la quale l’uomo non è altro che una particella dell’Uno divino (“Eone”) – ossia è un Ente ed insieme Idea da sempre presente nella mente divina −, che è stata attirata fuori da tale unione a causa di un inganno perpetrato dal finto Dio creatore o Demiurgo.12

L’uomo quindi non deve fare altro che riconquistare la sua perduta dignità e natura integralmente divina, cosa che avviene proprio per la via di un’ascesa unicamente intellettuale.13

Ora è ovvio che Platone non ha mai detto cose di questo genere, ma comunque nel suo pensiero ci sono non pochi appigli per extrapolazioni in questa direzione. Non per nulla entro il medioplatonismo ed il neoplatonismo (successi nel tempo al pensatore ateniese) sono fiorite visioni di tipo esplicitamente gnostico.

Si pensi all’eresia valentiniana ed a quella ariana.
E con ciò abbiamo detto cosa è accaduto dopo Platone. Intanto di Aristotele non è nemmeno il caso di parlare, dato che per lui lo Spirito non può che essere quella “sostanza seconda” la quale di onticità non è ha assolutamente nessuna.

Né comunque mette conto di parlare di Spirito a proposito di altre scuole filosofiche greche e greco-romane, dato che in esse il concetto di Spirito è stato sempre molto sfumato.

Fanno eccezione a questo forse solo i concetti di Intelligenza cosmica di Anassimene e dello Stoicismo, ed infine il concetto ancora stoico di Anima Mundi.

In ogni caso dal neoplatonismo in poi si diparte un filone di pensiero cristiano nel quale i concetti che ho appena illustrato si sono manifestati costantemente anche se non sempre con la forza ed esplicitezza che avrebbero potuto avere.

Infatti il timore di sconfinare nell’eresia gnostica è sempre stato sempre molto forte e condizionante.

Tra i pensatori di questo filone mi limito a segnalare i seguenti: − Gregorio di Nissa, Agostino, Scoto Eriugena, Bonaventura, Bernardo di Clairvaux, Eckhart, Cusano, Giordano Bruno.

Intanto però il brusco mutamento di indirizzo filosofico-metafisico della dogmatica cristiana (in direzione dell’aristotelismo) faceva sì che il concetto più propriamente religioso di Spirito subisse una certa dissociazione da quello più propriamente metafisico.

Infatti fu ben presente ai pensatori di questa nuova linea (in primis Alberto Magno e Tommaso d’Aquino) il rischio di sconfinare facilmente dal concetto sostanza onto-spirituale a quella di sostanza onto-intellettuale.

E ciò comportava il grave rischio (in quest’epoca dogmatica temuto più che mai) di indebolire l’intendimento di Dio come Essere; finendo (come accadde in Eckhart) per intenderlo come puro Intelletto.

Accadde quindi che il concetto metafisico stesso di Spirito cominciò a venire temuto, con la conseguenza che esso venne lasciato così com’era entro le Sacre Scritture (Rivelazione) senza più includerlo nel logos filosofico.

Laddove esso rischiava fortemente di essere imbarazzante se non pericoloso. Non a caso Eckhart per poco non andò al rogo a causa della sua visione.

Mentre a Giordano Bruno ciò accadde per davvero.

E non certo (come si sostiene oggi) perché sarebbe stato (come si usa dire) una sorta di libero pensatore ante litteram. La verità è che ciò accadde perché egli fu un fervente platonico.

Non a caso entro la filosofia cristiana da quest’epoca in poi si iniziò a parlare molto più di anima che non di spirito. L’anima è infatti molto più prossima dello spirito ad una dimensione ontologica in sintonia con il sostanzialismo aristotelico.

Probabilmente, insomma, già a quest’epoca la strada era ormai aperta per l’intendimento riduttivo di Spirito che si sviluppò poi in Cartesio. E quindi con ciò possiamo considerare chiusa qui la nostra breve carrellata lungo la filosofia antica in relazione al concetto di spirito.

Resta solo da menzionare qualche elemento dello scenario che ricollega la Scolastica cristiana al XVII secolo. In questo periodo vi fu infatti la filosofia della Natura di maggiore impronta spiritualistico-platonica (Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Giordano Bruno), vi fu lo spiritualismo sostanzialista-immanentista di Spinoza e vi fu infine lo spiritualismo fortemente razionalista di Leibniz.

Ma veniamo ora alla trattazione degli elementi prevalenti dello Spirito che ho già anticipato prima.

Della dimensione onto-intellettuale ho di fatto già parlato a proposito di Platone. Qui vanno quindi solo aggiunte alcune considerazioni.

Come ho già accennato, l’onticità attribuibile all’Intelletto è più o meno equivalente a quella attribuibile allo Spirito.

Lo Spirito infatti corrisponde di per sé a quella straordinaria sottigliezza di essere che è propria anche dell’Intelletto.

E proprio in forza di questo esso possiede quelle straordinarie caratteristiche di indipendenza dal vincolo spaziale-locale che ne fanno qualcosa di non solo dinamico ma anche alitante per definizione – Spirito come Vento, insomma, e quindi Pneuma.

Nella metafisica religiosa ebraica ciò corrisponde al concetto di “Ruah” ed in quella vedico-vedantica a quello di “prāna”.

Ed a tali valenze simboliche corrisponde poi anche quella di Fuoco, ossia elemento che dissolve la solidità compatta trasformandola in elemento aereo ed ascendente (e proprio per questo poi purifica).

Per tale motivo, quindi, lo Spirito può venire considerato «essere» solo nella misura in cui ne si ammette il dinamismo, la forza di penetrazione dei corpi e della materia (ossia di tutto ciò che è compattamente solido) ed infine anche la capacità onto-formante nel senso della spinta alla concretizzazione di ciò che è (di per sé) igneo ed aereo.

In altre parole lo Spirito può venire considerato «essere» solo nella misura in cui si è disposti ad ammettere che esso viola totalmente le leggi della Natura.

Intanto comunque lo Spirito in quanto Essere (sostanza onto-spirituale ed onto-intellettuale) è la suprema «Idea in quanto cosa», e quindi è in qualche modo la completezza stessa dell’essere in quanto suprema Individualità (supremo Essente, corrispondente poi all’ente per eccellenza), che costituisce poi anche la stessa Totalità di Realtà (ossia tutto ciò che possibilmente esiste).

Pertanto ciò ci suggerisce molto da vicino la completezza di una realtà corporale in quanto nettamente delineata. Ciò avviene però al supremo livello dell’essere, e quindi ci suggerisce non solo la dimensione della pienezza ma anche quella della Totalità di Essere.

Ecco allora che la sostanza onto-spirituale si presenta a noi con le caratteristiche di una suprema Corporalità, che nello stesso tempo è il modello costitutivo di ogni corpo (in quanto idea-possibilità-forma-progetto), è anche la Corporalità in quanto Totalità esaustiva ed è infine la Corporalità in quanto perfezione originaria dell’essere.

Eccoci insomma davanti al quel concetto di “corporalità spirituale” che fu sviluppato specialmente dalla Patristica cristiana, in relazione a sua volta alla dottrina di una Prima Creazione caratterizzata dall’assoluta perfezione incorruttibile (vedi lezione quindicesima).

Intorno a questo concetto si è sviluppato nel XIX e XX un movimento di idee metafisiche definito come “materialismo spirituale”, che ha ruotato specialmente intorno ad Aurobindo.14

Ma sinceramente questo mi sembra un pensiero troppo ambiguo e denso di rischi per poter venire davvero seguito.

In ogni caso la dottrina greco-ortodossa della corporalità spirituale è stata capace di ridurre notevolmente l’opposizione tra Spirito e Corpo, suggerendo così sul piano teologica una teoria della resurrezione dei corpi ben più esplicita e forte.15

Infatti presso i Padri latini quest’ultima teoria è stata invece sempre un po’ più annacquata per paura di istituire pericolose assimilazioni tra realtà spirituale (divina) e corporale (mondana).

In ogni caso l’integrale dottrina della corporalità spirituale implica che lo Spirito, nel corso della sua azione onto-formante, informa di sé stesso così tanto la Materia da trasfigurarla definitivamente secondo la propria natura.

E questo risale poi alla natura puramente onto-spirituale (nell’esatto senso della corporalità spirituale) che il mondo possedeva originariamente entro la Prima Creazione (essendo totalmente interiore all’Uno divino).

Le conseguenze di tutto ciò sono due sul piano teologico:

1) la Resurrezione di Cristo comporta la realizzazione massima della corporalità spirituale (dato che la sua nascita e morte avevano già trasfigurato per sempre la dimensione corporale mondana, la quale invece prima era stata corrotta senza rimedio dalla Caduta);

2) la Resurrezione dei morti comporta il raggiungimento di una corporalità ancora più piena di quella ante-mortale e mondana.

Non a caso Gregorio di Nissa parla della morte fisica come di una “seconda morte” susseguente alla “prima morte” − rappresentata dalla nascita (in quanto imprigiona l’anima spirituale nel corpo) −, che è in verità una rinascita, ossia è liberatrice.16

Ebbene, questa è una delle più rilevanti conseguenze etico-religiose della postulazione di una sostanza onto-spirituale.

Ma essa ha delle precise conseguenze anche nel contesto dell’altro elemento che vorrei esaminare, e cioè la differenza tra Spirito trascendente ed immanente. Infatti la corporalità spirituale non sussisterebbe mai se non vi fosse intanto una continuità tra queste due dimensioni dello Spirito.

E tale continuità si manifesta proprio nel corso dell’azione onto-formante.

Il fatto interessante è però che tale azione viene attribuita allo Spirito non solo entro le visioni religiose ed entro il grande schema metafisico di sempre (che vede lo Spirito come opposto della Materia), ma anche entro la stessa filosofia moderna.

La stessa visione di Husserl era infatti ancora imperniata proprio su questo, anche se poi il pensiero successivo si è decisamente allontanato da tale idea.

In ogni caso, prescindendo dai vincoli dell’attualità storica, si può presumere che religione, metafisica e filosofia convergano nel concepire uno Spirito trascendente – inteso come Dio-Persona (religione), o come supremo Soggetto egoico divino intelligente-creante-ordinante (metafisica), o come semplice soggetto egoico auto-cosciente e conoscente (filosofia) – che sta in costante ed intima relazione con lo Spirito immanente costituito a sua volta dal mondo materiale già formato.

Tale già compiuto atto di formazione implica poi la riduzione del caos materiale molteplice ad un ordine costituito dalla differenziazione in enti esistenti (o oggetti) ben separati tra loro ed inoltre interamente intelligibili.

Un siffatto Spirito corrisponde poi a vari aspetti della stessa realtà immanente: in termini religiosi corrisponde al mondo creato, in termini metafisici corrisponde all’universo perfettamente ordinato ed intelligibile (grazie all’azione di un Intelligenza cosmica), ed in termini filosofici corrisponde al mondo degli enti conoscibili (a sua volta poi equivalente a quel mondo che viene umanizzato a Cultura invece che sola Natura).

Rispetto a quest’ultimo intendimento va però tenuto presente anche quello di pensatori come Max Scheler e Edith Stein, secondo i quali lo Spirito oggettivo consiste in primo luogo negli enti che si presentano a noi come “valori” – costituendo in tal modo un cosmo dal significato primariamente etico. E rispetto a queste cose-valori il soggetto è costantemente chiamato a prendere posizione tenendo presente l’obbligo di scelta tra bene e male e quindi esercitando in tal senso la sua volontà libera.

In ogni caso al fondo di tutto ciò vi è l’aspetto più importante. E quest’ultimo corrisponde ad un generale atto di obiettivazione dello Spirito trascendente (colto con accenti e con intensità molto diversi dalle varie discipline impegnate in questo campo), in forza del quale esso si trasfonde completamente nella dimensione immanente finendo per impregnarla completamente.

La conseguenza di ciò è quindi l’insorgere di un «mondo spirituale» che però non c’era affatto prima dell’atto compiuto dallo Spirito trascendente. E rieccoci quindi al grande schema metafisico-religioso dell’opposizione radicale tra Spirito e Materia – opposizione che però evidentemente (come ottimamente sostenuto da Edith Stein) è soprattutto interazione.

Ciò significa che, in via di principio, lo Spirito è in realtà sempre solo trascendente, per cui un qualcosa come lo Spirito immanente può essere solo un suo prodotto, ossia qualcosa che appunto prima non c’era.

Tuttavia, una volta che è nato ciò che prima non esisteva, ossia lo Spirito immanente, esso non è affatto meno «spirito» di quello trascendente, e pertanto la trasformazione è definitiva.

Anzi si può dire che il tal modo lo Spirito stesso conquista una pienezza che esso prima non aveva, allorquando era unilateralmente trascendente.

Ciò che è avvenuto è dunque una compenetrazione tra elementi opposti che ha davvero dello stupefacente nella sua pienezza di essere. Per cui ciò che ne nasce è una sorta di vero e proprio nuovo elemento ontologico.

Eccoci quindi di nuovo al cospetto di ciò che prima abbiamo discusso come “corporalità spirituale”.

Nel complesso si tratta pertanto di una serie di caratteristiche ontologiche che vengono aggiunte dallo Spirito alla realtà mondano-materiale (e quindi anche corporale), nel mentre intanto però anche lo Spirito stesso si arricchisce di caratteristiche immanenti che esso prima non possedeva.

Esso insomma diventa «corpo», nel mentre intanto il corpo stesso diventa «spirito».

Ma questo implica anche una certa reciprocità ontologica tra i due elementi – implica cioè che il corpo diviene «spirituale» mentre lo spirito diviene «corporeo».

La dimensione della corporalità spirituale corrisponde quindi ad una sorta di misteriosa e sorprendente coincidentia oppositorum, entro la quale appaiono fusi perfettamente in un binomio ontico del tutto nuovo dei caratteri ontologici che prima erano non solo radicalmente diversi ma erano anche irrecuperabilmente tra loro separati (e quindi erano riduttivamente unilaterali).

In altre parole, così come prima non vi era alcuno Spirito immanente, non vi era intanto nemmeno alcunché di simile ad una corporalità spirituale.

Quest’ultima insorge infatti soltanto allorquando lo Spirito trascendente ha già impregnato di sé il mondo immanente.

Tutto questo significa infine, però, che l’intera realtà mondano-materiale-corporale ha acquisito con lo Spirito una sottigliezza di essere che prima non aveva affatto. E che pertanto, se costituisce un «essere» (perfino nella sua pienezza), lo è innanzitutto perché non ha più nulla della compattezza solida, impenetrabile e statica che è tipica della realtà materiale. In questo senso l’intervento dello Spirito inverte totalmente le caratteristiche dell’essere da esso impregnato.

E, come ho detto prima, nasce insomma qualcosa che la Natura non conosce affatto.

Ossia, come dice Eckhart, la realtà Sovrannaturale si pone in continuità con la Natura trasfigurandone totalmente le caratteristiche.17

Bisogna dire comunque che − se è vero che la Patristica greca ha sviluppato questa serie di concetti in concorrenza con una metafisica occidentale che fu ben più radicale nell’opporre Spirito e Materia, e se inoltre è vero che in Occidente è stata comunque concepita una relazione tra Spirito trascendente e immanente (in religione, metafisica e filosofia), la pienezza dello Spirito immanente è stata in verità concepita solo presso alcune dottrine metafisiche e metafisico-religiose.

Mi riferisco in particolare a quel concetto di “mondo divino” (o anche “mondo animato” da presenze divine) che fu analizzato in maniera molto precisa da María Zambrano in un suo affascinante libro  e che esisté soltanto nella cultura mitologica greco-romana (oltre che ovviamente nell’animismo di sempre), nel pensiero neoplatonico, ed infine nella metafisica religiosa orientale vedica e vedantica.18

A mio avviso solo presso quest’ultima il concetto si trova nella sua forma più esplicita e forte.

Il che avviene per mezzo dell’immagine di un ineffabile e profondissimo centro di ogni cosa che è nello stesso tempo anche il centro dei centri, ossia il centro assoluto dell’essere.

Si tratta del cosiddetto jīvātma, che poi altro non è se non l’espressione più piena della totale impregnazione spirituale dell’essere immanente-mondano.19

Infatti il concetto qui è così forte che lo Spirito impregnante di sé tutte le cose finisce per far svanire lo stesso Spirito trascendente nella sua attualità, ossia quello Spirito che resta sospeso verticalmente sul mondo perfino dopo il suo atto di obiettivazione immanente.

Ebbene, a mio modesto parere, si può parlare di una visione filosofico-metafisica spiritualistica («spiritualismo») solo quando viene concepito qualcosa di così esplicito e forte come ciò che ho appena descritto.

Sta di fatto però che intanto il termine «spiritualismo» è stato impiegato per descrivere correnti di idee filosofiche moderne come quelle che ho menzionato all’inizio sulla base di Sciacca e Caturelli.

In altre parole l’intero post-hegelismo (almeno da un certo momento in poi) sarebbe stato uno spiritualismo filosofico molto intenso. Dopo ciò che abbiamo appena visto, è però evidente che si tratta appena di un’approssimazione retorico-filosofica a quella che può venire considerata una vera visione spiritualistica.

Quest’ultima è pertanto sostanzialmente extra-filosofica e forse anche (secondo l’intendimento di Scheler) extra-metafisica.

Ecco allora che per poter concepire i due elementi fondamentali della dimensione spirituale (quello dell’onticità intellettuale e quello della relazione tra trascendente ed immanente) noi dobbiamo ritornare a quella sfera esoterico-sapienziale di conoscenza della quale abbiamo parlato all’inizio.

Ad essa va aggiunta naturalmente anche la religione. Ma sta di fatto che quest’ultima non sempre ha il coraggio di professare idee metafisiche estreme, come invece dovrebbe senz’altro fare.

Mi riferisco in particolare al concetto cristiano di Eucaristia.

Ebbene nulla manifesta più pienamente tale concetto meglio di quella corporalità spirituale una volta che essa venga concepita nei termini radicali che ho illustrato prima. In essa insomma lo spirito è carne e la carne è spirito senza più alcuna differenza tra i due elementi, e ciò esattamente secondo l’intendimento paolino e giovanneo. Eppure non è così che l’Eucaristia viene spesso intesa.

Dato che oggi più che mai sta prevalendo in teologia una forte relativizzazione razionalistica della molto forte dimensione onto-spirituale ad essa connessa. In parole povere si stenta a credere che l’Eucaristia rappresenti il toccarsi e fondersi effettivo della realtà spirituale e corporea – si stenta a credere insomma che lì ci sono per davvero il Corpo e il Sangue di Cristo.

È ovvio che qui siamo al cospetto di una delicatissima e complessissima questione di relazione tra Fede e Ragione.

Ed è inoltre altrettanto evidente che non tutti possono essere interessati a cose come queste.

Il problema di fondo è però, per noi uomini moderni, la nostra disponibilità e capacità di vivere effettivamente ancora una concezione intensamente spiritualistica dell’essere.

Ed abbiamo visto finora che il farlo non implica affatto abbandonarsi ad una rigida e sterile opposizione tra Spirito e Materia. Implica invece l’esatto opposto.

Ecco allora che (com’è finora avvenuto più volte nel corso di queste lezioni), nell’affrontare il tema dello Spirito, noi ci ritroviamo su un piano in cui la filosofia religiosa (specie se intensamente metafisica) offre a noi uomini comuni la possibilità di vivere in maniera estremamente concreta una visione che invece resterebbe totalmente astratta (e quindi esistenzialmente sterile) sul piano della filosofia più ortodossa e laica.

E, come abbiamo potuto ben vedere, la chiave di tutto sembra risiedere proprio nel concetto di corporalità spirituale.

Esso sembra infatti equivalere esattamente al suo opposto concettuale, ossia la «spiritualità corporea».

In altre parole il prendere filosoficamente in esame lo Spirito non ci obbliga affatto ad allontanarci dal corpo, dalla carne e da mondo. Anzi!

Ebbene, tutto ciò offre a noi uomini comuni almeno la possibilità di guardare in un’altra prospettiva quelle circostanze in cui la dimensione corporea è per noi più un peso che non una risorsa.

Si tratta insomma di quelle circostanze in cui esso è stato abbandonato dalla forza vitale che usualmente lo anima (come avviene nella malattia, nella vecchiaia o negli stati di esaurimento psico-fisico), oppure quelle circostanze in cui la corporalità mondana è esattamente il terreno sul quale le leggi della Natura esigono implacabilmente che noi paghiamo il fio dei nostri passati errori.

La visione spiritualistica dell’essere (relativizzando tutte le caratteristiche della corporeità mondana in quanto Natura) ci permette in questo caso la stessa libertà (almeno interiore) che abbiamo visto possibile quando riusciamo a superare il concetto di spazio in direzione di quello di infinito ed il concetto di tempo in direzione di quello di eternità.

Inoltre proprio in tali estreme circostanze qualcosa di misterioso (spesso proprio la sorprendente resilienza che constatiamo in noi senza sapere da dove venga) ci informa del fatto che noi, in quanto enti spirituali, viviamo molto più nella dimensione ontologica interiore che non in quella esteriore.

E quindi godiamo di una libertà e di una capacità di non venire pesantemente condizionati dall’ambiente, che non possiederemmo mai se invece fossimo degli enti non spirituali, ossia se fossimo degli enti unicamente carnali e/o materiali.

 

 

Note

1. Cfr. W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, Bompiani, Milano, 2007.

2. E.Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma, 2003, VI, 26, i-j pp.380-386.

3. M. Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Forgotten Books, London, 2018.

4. Cfr. M. F. Sciacca, Filosofia e Metafisica, L’Epos, Palermo, 2002; A. Caturelli, Michele Federico Sciacca, Ares, Milano, 2008.

5. Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Citta Nuova, Roma, 1996, I, 5,2-3, pp.106-118, II, I, 2, pp. 182-184, II, 2, 1-4, pp.217-309, Osservazioni conclusive, pp.312-327; Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg, Basel, Wien, 2001, II, I, 1-4, pp. 18-26, II, III, 2-3, pp.30-32, VII, II, 1-3, pp.78-92, VII, III, 1-4, pp.103-127; Stein, Potenza e atto … cit., II, 1-3, pp.72-90; Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel, Wien, 2006, VIII, 3,1-3, pp.422-439.

6. L. Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Cedam, Padova, 1968, I, IV, 1 p.78 I, IV p 129-136, I, IV, 5 pp.149-155, II, I, V, I, pp.174-183; R. Guardini, Der Tod des Sokrates. Eine Interpretation der platonischen Schriften Eutyphron, Apologie, Kriton und Phaidon, Topos, Kevelaer 2013, pp.170-171.

7. W. Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Philosophische Abhandlungen Band 40, Frankfurt, 2004, pp.3-9; D. Spanio, Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 257-293; E. von Ivánka, Plato Christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Einsiedeln 1964; P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Roma, 1996, pp.55-75; R. Guardini, Der Tod des Sokrates… cit. pp.260-279; M. Eckhart, Commento alla Genesi, in M. Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano, 2013, Prol., pp.10-14,87-91, I, 2-5 pp.107-111.

8.Cfr. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano, 2010.

9 Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano, 2008, VIII pp.169-173; Reale, Per una nuova interpretazione … cit., II, VI, III pp.172-176.

10. Cfr. M. Burkhard, Dietrich von Freiberg. Abhandlung über den Intellekt und den Erkenntnisinhalt, Meiner, Hamburg, 1980.

11. G. Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix, Forlì, 2007, I, II, pp.138-162.

12. Cfr. L. Moraldi (a cura di), Pistis Sophia, Adelphi, Milano, 2014.

13. V. Nuzzo, Platonismo e Gnosi, in «I.V.A.N.Project (a cura di), Rassegna storiografica decennale», Limina Mentis, Villasanta (MB), Voll. IV, 2018 pp.228-255.

14. Cfr. Satprem,  Mère. Il materialismo divino, Ubaldini, Roma, 1978.

15. F. Bertin, Corpo spirituale e androginia, ECIG, Genova 1991, pp.79-150; I. Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano, 2006, V, pp.108-128, 457-481, VI, pp.129-160, pp.483-519.

16. Ramelli, Gregorio di Nissa… cit., I, 7, pp.44-48, 381-387, III, 1, pp.68-72, 411-415.

17. D. Mieth, Meister Eckhart, C.H. Beck, München, 2014, pp.25-37.

18. Cfr. M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano, 1996.

19. R. Guénon, Simboli della scienza sacra, Adeplhi, Milano 1975, pp.73-74, 377-386.

 

 

 

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