Carlo Pisacane, "Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti"

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Era il 1933 quando l’artista Gennaro Chiaromonte eresse nei giardini del Municipio di Sapri  un monumento in bronzo dedicato a Carlo Pisacane.

Dal giorno in cui si “inchinò per baciare la terra” il patriota napoletano aveva stretto indissolubilmente  il suo legame con il Cilento, e lì è rimasto, con le spalle rivolte al golfo di Policastro, lo sguardo fiero verso i monti e il cuore ancora palpitante d’amore per la libertà.

Era nato  a Napoli nel 1818 da una famiglia nobile decaduta. Formatosi nella Scuola militare Nunziatella, nel 1839 entrò nell'esercito borbonico, ma i suoi ideali di giustizia e libertà lo portarono presto ad essere sospettato di tradimento.  

Per sfuggire all'arresto scappò con la sua compagna, Enrichetta di Lorenzo, dapprima a Londra e in seguito a Parigi dove, dopo una breve detenzione in carcere, si arruolò nella legione straniera dell'esercito francese di stanza in Algeria.

Tornò in Italia per partecipare  alla rivoluzione della Repubblica romana del 1848-49. La sua sconfitta, secondo il Pisacane, fu dovuta alle debolezze dei capi, che non riuscirono a radunare le masse sotto il vessillo della rivoluzione.

Le sue idee furono espresse nel  saggio La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 pubblicato a Genova nel 1851.

Pisacane fu il teorizzatore di quella che sarebbe poi diventata la "propaganda del fatto", ovvero l'azione avanguardista che genera l'insurrezione, l'esempio che consente l'innesco per il propagarsi della necessaria rivoluzione sociale e da questo la necessità di impegnarsi fisicamente e attivamente nell'impresa rivoluzionaria.  

Secondo Pisacane solo dopo aver liberato il popolo dalle sue necessità materiali si sarebbe potuto istruirlo ed educarlo per condurlo alla rivoluzione. «L'Italia trionferà quando il contadino cangerà spontaneamente la marra con il fucile».

Allo scopo di organizzare  un’insurrezione  delle popolazioni meridionali oppresse dal regno borbonico, nel 1857 a bordo del piroscafo Cagliari, Pisacane con altri ventiquattro rivoluzionari salparono da Genova per raggiungere Napoli, ma una tempesta impedì il rifornimento delle armi e li costrinse a sbarcare a Ponza dove riuscirono a liberare alcuni prigionieri rinchiusi nelle galere.

Il 26 giugno arrivarono a Sapri da lì raggiunsero Padula dove trovarono ospitalità nel palazzo di Don Federico Romano, un simpatizzante della rivoluzione.

Ma intanto le autorità di polizia erano state allertate e  disposero  le popolazioni  locali contro i rivoluzionari, accusandoli di brigantaggio. Nello scontro ne morirono 53, altri 150 furono catturati e consegnati ai gendarmi. Pisacane e gli ultimi superstiti riuscirono a fuggire a Sanza opponendo una disperata difesa.

La sua morte resta un mistero: secondo alcuni il 2 luglio fu ucciso dai soldati borbonici o dal capo urbano della guardia cittadina di Sanza, secondo altri, dopo essere stato gravemente ferito, si suicidò con la sua pistola. Non aveva ancora compiuto 39 anni.

I morti di Padula vennero sepolti in una fossa comune di una chiesa, mentre il corpo di Pisacane, come quello degli altri caduti a Sanza, venne cremato in un rogo eretto nello stesso posto, dove oggi lo ricorda un cippo funerario.

Il risultato della spedizione di Carlo Pisacane fu che trecento uomini finirono massacrati dall'esercito borbonico, e immortalati nel 1857 da Luigi Mercantini  nella sua poesia patriottica “La spigolatrice di Sapri”.  

Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti.

Nonostante il fallimento la spedizione di Pisacane ebbe comunque il merito di riproporre all'opinione pubblica italiana la "questione napoletana", la liberazione cioè del Mezzogiorno italiano da quel governo borbonico che il ministro inglese Gladstone definì «negazione di Dio eretta a sistema di governo.»

Come Pisacane lasciò scritto nel suo testamento politico, quel sacrificio fu “senza speranza di premio” se non la gloria di aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire.

 

 

 

La spigolatrice di Sapri

 

Me ne andavo al mattino a spigolare,/ quando ho visto una barca in mezzo al mare:/
era una barca che andava a vapore;/ e alzava una bandiera tricolore;/
all'isola di Ponza s'è fermata,/ è stata un poco e poi si è ritornata;/
s'è ritornata ed è venuta a terra;/ sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra./

Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra,/ ma s'inchinaron per baciar la terra,/
ad uno ad uno li guardai nel viso;/ tutti aveano una lagrima e un sorriso./
Li disser ladri usciti dalle tane,/ ma non portaron via nemmeno un pane;/
e li sentii mandare un solo grido:/ «Siam venuti a morir pel nostro lido»./

Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro/ un giovin camminava innanzi a loro./
Mi feci ardita, e, presol per la mano,/ gli chiesi: «Dove vai, bel capitano?»/
Guardommi e mi rispose: «O mia sorella,/ vado a morir per la mia patria bella»./
Io mi sentii tremare tutto il core,/ né potei dirgli: «V'aiuti 'l Signore!»/

Quel giorno mi scordai di spigolare,/ e dietro a loro mi misi ad andare./
Due volte si scontrar con li gendarmi,/ e l'una e l'altra li spogliar dell'armi;/
ma quando fur della Certosa ai muri,/ s'udirono a suonar trombe e tamburi;/
e tra 'l fumo e gli spari e le scintille/ piombaro loro addosso più di mille./

Eran trecento, e non voller fuggire;/ parean tremila e vollero morire;/
ma vollero morir col ferro in mano,/ e avanti a lor correa sangue il piano:/
fin che pugnar vid'io per lor pregai;/ ma un tratto venni men, né più guardai;/
io non vedeva più fra mezzo a loro/ quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro./

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!/ 

 

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