Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il fenomeno dell’esistenza

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Nel precedente articolo si è detto che parlare di nascita e parlare di esistenza è di fatto parlare della stessa cosa (almeno entro certi limiti). Ne dovrebbe quindi conseguire che questa ulteriore riflessione è del tutto inutile, dato che nella precedente abbiamo già parlato diffusamente della nascita.

Tuttavia abbiamo anche visto che l’atto del venire al mondo, cioè la nascita, è intanto qualcosa di molto ben definito nel tempo e nello spazio.

Quindi è in qualche modo un fatto estremamente concreto e delimitato, ossia è estremamente circostanziale.

L’esistenza invece è in sé molto più qualcosa di astratto, ossia è sostanzialmente un concetto. Inoltre essa è un fenomeno affatto puntiforme, in quanto è diffuso nel tempo. Infine è molto più generale che non invece singolare; pertanto è qualcosa di universale.

E questo ha a che fare con la differenza tra concreto ed astratto, infatti la nascita riguarda sempre ognuno di noi molto personalmente, mentre invece l’esistenza è semmai la base universale, generale ed impersonale, sulla quale insorge il fenomeno individuale della nascita.
L’ontologia dei due fenomeni appare quindi essere sensibilmente diversa.

Ciononostante, però, è abbastanza concreto (ed anche tendenzialmente puntiforme e circostanziale) anche l’«esistere» o meglio ancora l’atto di esistere.

 

In esso infatti l’esistenza è sempre un atto, e mai invece un puro concetto astratto, anche se esso si estende temporalmente ben oltre il momento circoscritto della nascita.

Inoltre, se noi parliamo specificamente dell’esistenza e dell’esistere di ognuno di noi, e cioè quelli strettamente personali, allora in questo caso si tratta di nulla più e nulla meno del lasso temporale che unisce l’atto della nostra individuale nascita all’atto della nostra individuale morte (in quanto fenomeni questi sì estremamente concreti).

Ecco allora che, in questo ambito, l’esistenza e l’esistere, o anche atto di esistere, finiscono per essere ontologicamente quasi la stessa cosa.

Ecco allora che il ben più concreto e personale «esistere» prende il posto della solo astratta ed impersonale «esistenza».

Possiamo pertanto dire che l’«esistere» è quel versante estremamente concreto dell’«esistenza» al quale noi di fatto ci riferiamo sempre (direttamente o indirettamente) quando prendiamo a parlare dell’esistenza stessa. In altre parole noi non possiamo proprio fare a meno di parlare dell’esistenza in termini concreti.

Il che significa anche che, nel tematizzarla, noi ci riferiamo sempre a noi stessi, ossia alla dimensione personale, e quindi all’«esistente». E nella precedente lezione avevamo visto che esattamente quest’ultimo è il fattore dirimente tra un pensiero puramente e astrattamente filosofico dell’esistenza (l’esistenzialismo) ed un pensiero dell’esistenza che invece si presti ad applicare la filosofia alla vita.

Ebbene in tal modo – si noti bene − ci troviamo già molto al di fuori di quel puro pensiero eretto sull’esistenza, del quale abbiamo parlato nell’undicesima lezione, affermando che esso è del tutto inadatto alla bisogna di venire proposto all’uomo comune come discorso filosofico utile per vivere. Ma fermiamoci per ora a questa breve osservazione.

La completerò solo dicendo che in questa lezione noi ci occuperemo molto più dell’«esistere» (o anche «atto di esistere») che non dell’«esistenza».

Intanto possiamo comunque dire che si potrebbe parlare di una sorta di unità ontologica costituita dal binomio «nascita-esistere»; laddove il primo termine (nascita) è quello puntiforme mentre il secondo termine è quello disteso nel tempo. Ma il binomio esprime pur sempre un’unica realtà ontologica.

In ogni caso possiamo anche osservare che ulteriori elementi dirimenti sono quelli del «mio» e del «nostro». È infatti da essi che dipende in gran parte se l’esistenza e l’esistere sono appena realtà unilateralmente concettuali o hanno invece anche la valenza di fenomeni concreti.

E quando essi sono concreti sono anche inevitabilmente ed inalienabilmente personali – caso in cui siamo obbligati a parlare di «esistere» più che di «esistenza».

Si tratta infatti di quel «mio esistere» (o anche «nostro esistere») che molto difficilmente equivale al concetto astratto di esistenza.

Abbastanza certo sembra allora che, finché si prescinde dal momento personale dell’esistere, si resterà sempre su un piano inevitabilmente astratto, o almeno si rischierà di farlo. Il che è vero sia che si parli dell’esistenza (più astratto) sia che si parli dell’esistere (più concreto).

Tuttavia, in una lezione come quella che ora mi appresto a tenere, e mantenendoci intanto su un piano genericamente terminologico, mi sembra piuttosto indifferente parlare di esistenza in senso più astratto o invece più concreto.

Infatti, almeno nel linguaggio comune (non filosofico), si tratta in ogni caso proprio del fenomeno specifico che è costituito dal lasso temporale connettente la nascita con la morte, cioè si tratta di qualcosa che è sempre l’«esistere» (ed ancor più il «mio» o «nostro» esistere) anche quando esso viene verbalmente e concettualmente espresso come «esistenza».

Insomma l’uomo comunque intende questo anche quando usa il termine «la mia esistenza», e perfino «la nostra esistenza». Il che significa che egli tratta di questi temi in una maniera per definizione sempre molto più «ingenua» che non «filosofica».

In altre parole l’immagine del lasso temporale tra nascita e morte si presenta alla nostra mente sia quando noi ci riferiamo al piano personale sia quando noi ci riferiamo al piano collettivo-impersonale.

Ecco allora che le dimensioni del «mio» e «nostro» finiscono per venire incluse nel fenomeno dell’esistenza inteso proprio nel modo che ho appena menzionato, ossia in quanto lasso di tempo entro il quale personalmente si esiste.

Ebbene, in qualche modo si tratta con ciò esattamente dell’esistenza così come la intese Heidegger, e cioè in quanto fondamentale temporalità dell’essere. E con ciò ci troviamo nel pieno di quel pensiero filosofico puro ed astratto dell’esistenza, che prima abbiamo constatato essere improponibile all’uomo comune. Tuttavia il linguaggio ingenuo, per mezzo del quale questa immagine prende forma, elimina immediatamente tale incombente rischio.

Quindi − pur senza avere alcun obbligo di muoverci in obbedienza alla visione heideggeriana – è esattamente di questo che noi dobbiamo parlare.

Dobbiamo parlare di ciò che accade entro il lasso di tempo che unisce la nostra nascita alla nostra morte. Ma intanto ne dobbiamo parlare tentando di comprendere come e quanto la filosofia può aiutare l’uomo comune a compiere questo atto di esistere, cioè a trascorrere nel modo più pieno possibile appunto il lasso di tempo che va dalla nascita alla morte.

Sta di fatto, comunque, che noi ci rappresentiamo tale pienezza compiuta come un «meglio» − pensiamo infatti ad un trascorrere la nostra vita «quanto meglio possibile».

Pertanto il paradigma del «bene» è quello che immediatamente si presenta alla nostra mente allorquando tentiamo di dare una forma al possibile influsso della filosofia sul nostro esistere.

Cioè quanto emerge non è la possibilità di conoscere a fondo tale fenomeno, ma semmai di «conoscerlo bene» solo nella misura in cui noi veniamo messi nella condizione di «viverlo bene»; e più precisamente «viverlo meglio» di quanto potremmo fare in assenza dell’apporto della filosofia.

È evidente, dunque, che qui non si tratta affatto di pura conoscenza, ma semmai si tratta invece di concreti atti da conformare in un modo specifico. Il che sembra sensibilmente diverso rispetto a ciò che abbiamo detto per la nascita.In quest’ultimo caso si trattava infatti di sapere il perché sono venuto ad al mondo ed esisto. Tuttavia, una volta compreso questo, si tratta ancora di dover vivere, e cioè di esistere, ovvero si tratta di un atto più che di una conoscenza.

Ma abbiamo appena detto che non può trattarsi di un atto indifferenziato. Esso deve invece essere un atto «ben» conformato, ossia un atto conformato al «bene».

Ecco allora che ci troviamo di fronte a null’altro se non il famosissimo «ben vivere».

Ancora una volta si tratta di un tema che era stato sempre ben presente alla filosofia antica. Anzi l’aspirazione di quest’ultima a costituire una disciplina intimamente legata alla vita si incentrava esattamente nella sua ambizione ad istruire gli uomini al «ben vivere».

Qui ci troviamo pertanto in un campo nel quale dobbiamo dare necessariamente ragione ai moderni retori-divulgatori della filosofia.

Tuttavia va notato che solo fino ad un certo punto è necessario fare questo.

Perché nell’undicesima lezione abbiamo visto come il tentativo principale di costoro è quello di psicologizzare la filosofia nel mentre la si rende di facile consumo per le masse.

Ossia la si banalizza e la si semplifica, nel mentre intanto la si adatta (acriticamente e cinicamente) al tenore emozionale prevalente oggi nella consapevolezza e volontà collettive, e cioè la si adatta alla prevalente tendenza egocentrico-edonistica.

Ebbene, nulla di più lontano potrebbe esistere dalle aspirazioni riposte nell’antico insegnamento filosofico del «ben vivere». Esso puntava infatti come una freccia alla più rigorosa etica, e precisamente un’etica auto-sacrificale quasi interamente basata sul dovere e sul culto del Bene come entità purissimamente trascendente (e quindi per nulla disposta ad adattamenti immanentistici e relativistici).

In tale contesto, pertanto, il «ben vivere» deve essere l’esatto contrario dell’egocentrismo edonista.

Pertanto la filosofia (specie quella antica) non può in alcun modo venire assunta come via verso il «ben vivere» inteso al modo dei moderni retori-divulgatori.

Nell’undicesima lezione abbiamo intanto visto nello stoicismo e nel platonismo alcuni esempi dell’appropriata etica filosofica del «ben vivere».

Non abbiamo invece parlato affatto dell’etica aristotelica, la quale era comunque ben meno esigente in quanto ben più pragmatica e utilitarista – essa si limitava infatti a definire come «bene» ciò che promuoveva una vita ispirata alle virtù specificamente civiche (“areté”), e che poi generava la “felicità” sostanzialmente attraverso il buon adattamento dell’individuo alle regole del successo sociale.

Naturalmente un’etica come questa si presta quasi perfettamente (così come quella epicurea) a costituire il contenuto degli insegnamenti filosofici dei nostri retori-divulgatori. Essa non urta infatti per nulla i piatti ed acritici luoghi comuni dei quali si nutre ormai quasi esclusivamente la collettiva consapevolezza.

Mi immagino quindi che oggi si possa anche tentare di insegnare alla gente a vivere secondo i principi di questo genere di etica.

E mi immagino anche che oggi si possa tentare di ridurre a questo genere di etica tutto il resto della filosofia morale praticata nell’antichità. Un esempio classico di quest’ultima potrebbero essere i famosissimi precetti morali diffusi da Socrate. Sta di fatto però che la morale socratica (almeno per quello che ne sappiamo) aderisce quasi totalmente alla rigorosissima ed esigentissima morale di Platone.

E sfido sul serio i moderni retori-divulgatori a tentare di proporre alle masse proprio quegli insegnamenti etici platonici che propongono l’esatto opposto di quanto oggi la gente tende ad intendere come felicità.

Bene, giunti a questo punto, dovremmo forse esaminare gli effettivi programmi di insegnamento delle moderne agenzie di divulgazione filosofica per verificare se è vero ciò che sto dicendo. Questo però ci porterebbe molto lontano dal nostro scopo primario, che è quello di comprendere se, come e quanto la filosofia può aiutare l’uomo comune a «ben vivere».

Ed allora, per superare questa difficoltà, propongo di riformulare la domanda etica ponendola non più in positivo ma invece in negativo. Con ciò voglio dire che forse è ben più appropriato prescindere dall’approccio diretto (e assertivo) al «bene», passando invece ad occuparsi dell’approccio indiretto ad esso.

Approccio indiretto che si presenta a noi nel momento in cui emergono ostacoli piuttosto grossi sulla via della realizzazione piena del «ben vivere». La differenza tra le due vie potrebbe consistere in quanto segue.

Nella prima via si punta ad un risultato che è incondizionato per il fatto di essere senz’altro alla portata dell’azione umana sorretta dalla volontà; e quindi ci si può aspettare che esso certamente verrà raggiunto. Tale risultato è infatti del tutto immanente e naturale;

consistendo semplicemente nel bene inteso come «felicità» sensibile (laddove la soddisfazione del desiderio egocentrico ne è l’esempio più perfetto).

Nella seconda via si punta invece ad un risultato che è strettamente condizionato dalle difficoltà che si frappongono nel cammino verso di esso.

E siccome per definizione tali difficoltà sono molto grandi, ci si può aspettare che esso possa molto probabilmente non venire affatto raggiunto. Tale risultato è infatti quasi del tutto trascendente, consistendo in null’altro se non nel Bene in sé (molto intransigentemente teorizzato appunto da Platone).

Tale ultimo approccio mi sembra ben più appropriato esattamente perché esso evita di ricadere in quella retorica pochissimo autentica che è proprio l’aspetto più deteriore dell’insegnamento dei nostri divulgatori.

In altre parole è fin troppo facile dire cosa noi dobbiamo fare per raggiungere effettivamente il bene. È fin troppo facile perché qui non solo una ricetta vale l’altra, ma inoltre nulla vieta che il «bene» stesso venga inteso nei modi più disparati e naturali, e soprattutto nei modi che rendono più agevole e vantaggioso il raggiungerlo.

Ben più difficili e molto meno scontate sono invece le cose quando ci si occupa di ciò che si deve fare quando il bene si allontana pericolosamente da noi quanto più noi ci sforziamo di raggiungerlo.
E a me sembra che ciò accada nelle circostanze molto specifiche della sventura e del connesso dolore, ossia in quelle circostanze esistenziali in cui noi – nel camminare verso il bene − veniamo sottomessi ad una severa prova, ossia veniamo apertamente sfidati dal destino.

Ebbene, a me sembra anche che l’esistenza stessa (in quanto lasso di tempo che connette nascita e morte) non sia in fondo altro (nella sua essenza) che il campo in cui noi veniamo sfidati a superare una serie innumerevole di ostacoli per poter solo alla fine (ossia a posteriori) produrci nella fatale affermazione: «Io ho davvero ben vissuto.»

E questo getta una luce davvero molto forte su ciò che molto probabilmente l’esistenza è ontologicamente, ossia sulla sua più autentica essenza.

L’esistenza sembra infatti essere una messa alla prova, un severo esame, un austero luogo di apprendimento. Quindi esso è periglioso per definizione, dato che, soggiornandovi fino all’ultimo, noi possiamo provare solo di sapere oppure di non sapere, di avere imparato oppure di non avere imparato.

Ecco allora che il «ben vivere» può presentarsi nella sua forma davvero più autentica soltanto quando esso si presenta in negativo, ossia come potenzialità da realizzare, e quindi come risultato da raggiungere con immenso sforzo e sempre senza alcuna certezza di successo.

Ma, si badi bene, questo è esattamente il senso che viene attribuito da Platone a quell’ascesa filosofica (ossia ultimamente conoscitiva) il cui scopo è esattamente quello di raggiungere il Bene, e poi immediatamente anche l’Uno (laddove i due termini sono poi pressoché la stessa cosa).1

Egli concepì tale cammino esattamente come un immenso sforzo, da compiere con tremenda ostinazione ma comunque sempre senza alcuna garanzia di successo.

Ben diversamente stanno invece le cose quando ci si limita a presentare il «ben vivere» in forma unicamente positiva.

In questo caso, infatti, lo si approccia dal polo diametralmente opposto rispetto a quello che ho appena descritto, ossia dal polo dell’a priori.

E, ponendosi in questa posizione, si può dire tutto ciò che si vuole senza tema di smentita; dato che o si sta parlando di eventi che ancora non si sono verificati oppure si sta parlando di eventi che certamente si verificheranno (data la naturalità del risultato da perseguire).

Ebbene, io sono certo che i moderni retori-divulgatori della filosofia propongono proprio questa seconda via e non invece la prima.

Sinceramente (per quanto mi sia spesso proposto di farlo) alla fine non me la sono mai sentita di leggere i libri di costoro, oppure di ascoltare le loro brillanti lezioni virtuali trasmesse in rete quasi sempre a pagamento.

Forse così mi sono perso qualcosa di utile e magari anche istruttivo, ma sinceramente c’è in me una voce ribelle che si rifiuta di seguire queste persone nei loro scoppiettanti pezzi di bravura retorica − con tanto di smaglianti sorrisi da venditore, proclami d’amore per questo e per quell’ascoltatore, promesse di felicità e divertimento, sghignazzate, barzellettine, ammiccamenti ai più beceri luoghi comuni etc.

Per quanto ne so io, la filosofia era, è e resta una cosa molto seria (direi «mortalmente seria») anche quando viene divulgata. Inoltre per quanto ne so io, atteggiamenti come questi furono proprio quelli dei sofisti che vennero combattuti da Socrate a spada tratta in quanto acerrimi nemici della vera filosofia.

In ogni caso, lo ripeto, io non ho letto né ho ascoltato quello che insegnano questi retori. Per cui non posso sapere esattamente cosa essi dicano.

Tuttavia credo di potermelo almeno immaginare. Immagino quindi che propongano alle persone un «ben vivere» in positivo che consiste sostanzialmente nei luoghi comuni (pseudo-filosofici e anche pseudo-psicologici) sostenuti da affermazioni come quelle che seguono.

«A questo mondo tutto cambia continuamente, e quindi non dobbiamo attaccarci a nulla»;

«Abbiamo solo il presente e nient’altro; quindi non dobbiamo mai pensare né al passato né al futuro, ed inoltre non dobbiamo lasciare mai che il presente ci sfugga tra le mani»;

«Non dobbiamo lasciare che, per nulla al mondo, venga turbato il nostro equilibrio vitale soggettivo; quindi dobbiamo preoccuparci del mondo (oggettività) solo fino ad un certo punto; e quindi non dobbiamo mai perdere la nostra felicità anche quando al mondo tutto va male»;

«Il giudizio è un prodotto deteriore del nostro Ego; e quindi non dobbiamo lasciare che ci condizioni nel porci davanti al mondo; dunque dobbiamo tralasciare di emettere giudizi sulle cose»;

«Fai meditazione per superare ogni tuo problema e trovare la pace; concentrati su un oggetto e arresta il flusso dei tuoi pensieri…». Etc, etc.

Bene, devo essere onesto fino in fondo e dire che diverse di queste affermazioni non me le sono inventate del tutto ma le ho invece ascoltate per davvero origliando di qua e di là i discorsi dei nostri retori.

In ogni caso basta prendere in mano ad esempio anche solo il libro di Cicerone sull’epicureismo per rendersi conto di quanto devastanti possano essere prese di posizione come quelle consigliate dalle affermazioni che ho appena menzionato.

Esse infatti sono in grado di disintegrare la coesione sociale negli aspetti in cui essa dipende più fortemente dalle prese di posizione rigorosamente etiche dei soggetti ed inoltre anche dalla loro capacità di generoso sacrificio.

Esse sono in grado si sradicare i soggetti dalla loro storia e dai luoghi ai quali essi appartengono, facendone così dei folli alienati, inquieti ed incapaci di cogliere qualunque senso nel loro esistere – specialmente li rende incapaci di occupare (nella società e nella storia) un posto ben preciso, esercitando il compito che ad esso corrisponde.

Esse sono in grado di paralizzare totalmente (o almeno annacquare) il giudizio sul mondo e su sé stesso da parte del soggetto, sbarrando così la strada ad ogni presa di posizione etica (specie quella auto-critica), e così conducendo ad una beotica quanto irresponsabile atarassia epicurea (colma di elementari desideri soddisfatti).

Esse sono in grado di generare nelle persone vizi capitali come l’egocentrismo, l’edonismo, la superficialità, l’indifferenza, la stupidità, la passività beotica.

Eppure tutto ciò resta del tutto inapparente esattamente perché la retorica ha per definizione la straordinaria capacità di ammantare il discorso di figure amabili ed attraenti, al cui fascino nessuno ha intenzione di resistere.

In particolare, inoltre, i retori indulgono a far passare (con uno smagliante ed affascinante sorriso, accompagnato quasi sempre all’irresistibile appello a più semplicistici e biechi luoghi comuni) commistioni di idee che sono insostenibili e spesso colpevolmente contraddittorie.

Costoro, insomma sono, bravissimi nello smantellare qualunque irriducibile opposizione tra bene e male, tra «si» e «no», tra verità e menzogna, tra scelta responsabile (incentrata in un giudizio) e colpevole indifferenza.

E così sono in grado di affermare tutto ed il contrario di tutto, senza intanto mai negare direttamente alcunché, sottraendosi così abilmente al dovere di assumere una posizione che potrebbe inimicare loro una parte del loro vastissimo ed affezionato pubblico.

Ne consegue inevitabilmente che i loro insegnamenti (sempre simpatici, carezzevoli, ammiccanti e dispensanti da qualunque sforzo intellettuale o di critica) raccolgono sempre nelle masse un successo per definizione travolgente.

In tal modo i loro adepti si moltiplicano, nel mentre i retori si trasformano ben presto in vere e propri guru circondati di ferventi adoratori.

Di conseguenza sforneranno poi un libro dietro l’altro, e tutti invariabilmente (nonostante la loro pochezza e superficialità) diverranno dei best-seller. Come può, al cospetto di tutto questo, non venirci in mente il carattere principale dell’Anticristo descritto da Solov’ëv, e cioè il suo nascere esattamente come un teologo ed uno scrittore dal successo travolgente?2

Inoltre è davvero difficile pensare che tutta questa confusa e sospetta materia corrisponda per davvero alla filosofia divulgata.

Orbene, ma cosa avviene quando invece si propone la prima via (quella del «ben vivere» in negativo)?
Cosa avviene insomma quando la filosofia si propone a noi (uomini comuni) per aiutarci ad affrontare la serie (a volte interminabile) di ostacoli che si frappongono tra noi e il bene?

E quale tipo di filosofia in questo caso potrebbe e dovrebbe venire impiegata?

Propongo di partire da quest’ultima domanda, alla quale è molto più facile rispondere.

A mio modesto avviso le uniche due filosofie antiche che ci permettono di compiere questo cammino sono quella platonica (associata a sua volta a quella orfico-pitagorica, e prolungatasi coerentemente nel neoplatonismo) e quella gnostica.

Solo queste due, infatti (e senz’altro molto più che la dottrina cristiana) prendono tremendamente sul serio il male comportato dal mondo.

E quindi è solo in esse che l’uomo comune può trovare davvero strumenti e risposte per affrontare il tremendo compito del quale stiamo parlando. Riducendo tali strumenti e risposte davvero all’osso, dobbiamo dire che essi si riassumono nel considerare l’esistenza appena un sogno, o meglio un incubo, dal quale è necessario svegliarsi al più presto.

Il che avviene poi per mezzo di quella morte fisica il cui aspetto positivo consiste nella liberazione dell’anima dalla prigione e tomba rappresentata dal corpo.

Ed ecco che il tal modo finisce per risaltare in modo molto lampante la totale inconsistenza dottrinaria della materia che è oggetto di insegnamento da parte dei moderni retori-divulgatori con la sua volontà di aiutare gli uomini ad esistere.

Essa insomma si rivela essere tutt’altro che filosofia. Infatti l’antica filosofia, che si proponeva agli uomini come insegnamento di vita, non si poneva affatto in positivo, ma invece si poneva solo in negativo.

Essa cioè si proponeva come strumento di un «ben vivere» che era sostanzialmente preparazione alla morte.

Il suo insegnamento consisteva quindi nel progressivo distacco dal sensibile e dal mondano in modo da essere pronti infine al distacco finale, quello dell’anima dal corpo.

E qui allora platonismo-orfismo e gnosi risaltano per davvero come campioni di tale approccio. In qualche modo vi rientrò in principio anche lo stoicismo, ma sempre con un tocco di pragmatismo utilitarista (se non edonista) che mitigava ed annacquava di molto la forza (dirompente e intransigente) dell’approccio platonico-gnostico.

Ma veniamo ora alle due altre prime domande appena poste – cosa avviene concretamente quando questa complessiva visione filosofica viene applicata all’esistenza?

Avviene semplicemente che l’uomo non crede più nelle apparenze, e di conseguenze prende a condurre una vita più profonda e meno superficiale, ossia prende ad accontentarsi non più tanto facilmente (come fa invece la maggioranza degli uomini).

Edith Stein definì questo stato come “vita dell’anima” e cioè una vita condotta permanentemente nella profondità.3

Ma non c’è nemmeno bisogno di dire che in tal modo si prende a vivere in una maniera tutt’altro che «felice», e quindi il primo risultato esistenziale di tale presa di posizione è quello di una radicale dissociazione della felicità dal bene. Ecco allora che il «ben vivere» assume l’aspetto di un vivere intanto buono in quanto tutt’altro che felice.

Ed ecco allora che in qualche modo la soggezione alla sventura (ed al connesso dolore) diviene il vero e proprio tratto distintivo di quell’«uomo buono» che è poi l’unico «giusto» che davvero ci sia al mondo.

Ed ecco quindi che si delinea davanti a noi molto nettamente l’immagine di Giobbe quale modello di questo genere di buona esistenza. Immagine che non a caso ci viene proposta come centrale laddove il moderno grande pensatore Paul Ricoeur affronta davvero frontalmente il problema del male.4

Ebbene su questa strada ci viene decisamente incontro il fenomeno della sventura, o meglio quel particolare impedimento in direzione del bene che è rappresentato dalla sventura. Si tratta però in primo luogo di una sfida, e quindi di qualcosa di molto simile ad una messa alla prova.

Il ruolo della filosofia in questo ambito sembra pertanto consistere esattamente nel permetterci di guardare ben oltre le evidenze sensibili, in modo da riconoscere un senso laddove esso sembra a prima vista totalmente assente.

A prima vista, infatti, la sventura ci appare come qualcosa di diametralmente opposto al bene – dato che, da epicurei per natura come tutti siamo, noi incliniamo a identificare il bene con il piacere. Il pensiero etico, però, ci rende capaci di intravvedere la sagoma del vero e proprio bene attraverso le oscure e terrifiche sembianze della sventura.

E così essa finisce per apparirci non tanto il contrario del bene quanto invece, semmai, appena un ostacolo sul cammino che porta al bene. Sarebbe tuttavia molto riduttivo mancare di cogliere il fatto che tale ostacolo è davvero formidabile, e quindi molto prossimo ad essere insuperabile.

Ecco allora che, ancora una volta, il pensiero etico del quale ci serviamo si rivela dover essere moto autentico, ed affatto invece retorico. Motivo per cui esso deve necessariamente essere pessimista.


Nemmeno il pessimismo è però sufficiente di per sé. Perché il fatto di riconoscere l’ostacolo come formidabile non deve distoglierci dalla decisione a fare ogni sforzo possibile per superarlo. Pertanto il nostro pessimismo ha il preciso dovere di essere costruttivo, e non invece distruttivo. In altre parole il vantaggio dell’approccio platonico-gnostico non si risolve affatto in un piatto e semplicistico pessimismo.

Quest’ultimo viene infatti chiamato costantemente a superare perfino sé stesso.
In ogni caso esso comunque esso non deve nascondere in alcun modo il male oggettivo del mondo. Se lo fa, allora la sua finisce per essere mera retorica; una retorica sempre edulcorante e quindi colpevolmente occultante. E bisogna ammettere che anche la morale cristiana si macchia almeno in parte di questa colpa.

Ci sono ad esempio passi dei vari Contra Manichaeos di Agostino di Ippona] nei quali bisogna decisamente riconoscere ai suoi avversari il merito incontestabile di un’obiettività molto maggiore della sua.5

È intanto un fatto che il manicheismo fu molto prossimo alla gnosi.


Dunque, questa seconda via filosofica ci aiuta sostanzialmente a prendere di petto il male del mondo e ad affrontarlo a viso davvero aperto.

Non come fa l’epicureo, che enuclea il bene dal male-dolore, pretendendo di raffinarlo e liberarlo di ogni incrostazione moralistico-idealistica fino ad ottenere il piacere grezzo ed elementare, ma intanto autentico.

Non come fa lo stoico, che si curva davanti al male-dolore come canna al vento esercitando in tal modo una saggezza coraggiosa che non pretende in alcun modo né di giudicare né di cambiare il mondo. No, invece il platonico-gnostico non nega nemmeno una sola infinitesima particola del male-dolore esistente nel mondo.

Dunque lo ammette in pieno e ne riconosce in pieno l’esorbitanza. Dunque si espone ad esso senza cercare di nascondere le ferite che intanto si aprono nella sua carne.

Ma, poiché la sua consapevolezza gli permette di vivere in profondità e non in superficie, egli dichiara intanto al mondo che quanto gli sta accadendo è poco più che nulla. Perché il mondo non è in verità altro che un oscuro sogno.

Un incubo dal quale bisogna solo svegliarsi.

È ovvio comunque che ciò accade solo allorquando si sprofonda nella palude del male-dolore, ossia allorquando si soccombe alla sventura.

Ma quando ciò non accade, in verità non si vive mai in profondità bensì invece appena in superficie. È ovvio, come giustamente sostiene l’epicureo, che la piena vita dei sensi sani può procurarci solo piacere. Sta di fatto però (e questo è ciò che tra l’altro sostiene Cicerone nella sua critica all’epicureismo) che molto difficilmente in tal modo si procederà verso il bene.

Infatti non si farà altro che mentire a sé stessi (e ancor più agli altri) fingendo che il bene sia quel piacere al quale tutti mediamente tendiamo con tutte le nostre forze. E davvero tutti noi lo facciamo.

Non c’è da farsi illusioni su questo. Pertanto, se davvero noi vogliamo procedere verso il bene, non possiamo farlo assolutamente in positivo bensì solo in negativo.
In altre parole – per quanto possa sembrare paradossale se non mostruoso − noi abbiamo bisogno della sventura per potere davvero condurre una vita etica.

Noi dobbiamo desiderare la sventura (o almeno la non totale buona ventura). Ed ecco che allora, se noi davvero chiediamo alla filosofia un aiuto per il «ben vivere», non possiamo fare altro che scegliere la filosofia che segue questo cammino in negativo.

Ecco. Mi sembra che sia stato detto tutto il necessario.

Solo (in chiusura) ancora un’ultima piccola notazione riguardante il Cristianesimo, dato che credo appassionatamente in esso e dato anche che esso è termine di riferimento continuo delle mie riflessioni.

Ebbene, che fa il Cristianesimo a tale riguardo?

Come si comporta?

E cos’ha dunque da insegnarci a tale riguardo la filosofia cristiana?

Qualcosa l’abbiamo appena detto rispetto al pessimismo, che il Cristianesimo ha sempre tenuto sdegnosamente lontano da sé (specie nella sua forma gnostica) sostanzialmente perché ha voluto intenderlo in modo fin troppo letterale.

Tuttavia, una volta tolto questo difetto, il pensiero cristiano ci guida per una via poi non tanto diversa da quella platonico-gnostica, specie nelle sue connotazioni orfiche.
Esso ci insegna infatti a considerare il mondo come un sostanziale luogo di prova, nella cui realtà bisogna credere solo fino ad un certo punto.

Certamente ci viene chiesto intanto di trasfigurare attivamente il mondo secondo il modello del Regno dei Cieli. Esemplare in questo è il discorso del Guardini, che ho ricordato nella mia terza lezione. Quindi qui siamo di nuovo lontani dalla radicale presa d’atto platonico-gnostica del male mondano. Ma comunque mai e poi mai ci viene chiesto di accettare il mondo così com’è.


Sebbene debba dire che una certa teologia post-moderna sta oggi tentando di trasformare proprio in questo senso la fede cristiana (specie riapprossimando la sua variante cattolica a quella luterana), nello sforzo di intenderla appena come un’attività storico-mondana e puramente immanente, che accetta il mondo esattamente così com’è limitandosi ad aggiungere ad esso appena la dimensione ecclesiale in quanto comunità agapica.

Questo e solo questo sarebbe dunque il Regno dei Cieli; ossia qualcosa di totalmente immanente e naturale, e senza alcuna pretesa di essere trascendente e sovrannaturale.

Tuttavia l’insufficiente pessimismo del Cristianesimo diviene del tutto secondario e perfino irrilevante al cospetto del coraggio eccezionale e senza riserve con il quale il Cristo in persona affronta il male del mondo.

Un coraggio che, come vedremo tra poco, è in verità molto superiore a quello platonico-gnostico, pur non essendovi in esso la benché minima traccia di pessimismo.

E questo è l’aspetto davvero più straordinario di tale presa di posizione. Il che però non è affatto strano, dato che quella di Cristo è una presa di posizione sovrumana.
Emblematico per questo è lo scenario della sua preghiera notturna totalmente solitaria nell’Orto del Getsemani.

Uno scenario emblematico perché esemplifica in maniera perfetta la condizione dell’uomo in preghiera nel pieno della prova, ossia totalmente solo, nudo, indifeso e impotente di fronte al Male in tutta la sua soverchiante strapotenza. In questo fatale momento il Cristo è più che mai un uomo. Più di così non potrebbe esserlo.

Ma nello stesso tempo (come ho detto poc’anzi) egli è anche più che mai un dio. Anzi è Dio in persona nella maggiore pienezza possibile – un Dio talmente divino da avere la potenza ed insieme l’inconcepibile umiltà di sostenere l’umanità.

È evidente che questo e solo questo lo pone nella condizione per fare ciò che abbiamo appena visto. Infatti, quale di noi uomini potrebbe affrontare male, dolore e sventura con lo stesso strapotente coraggio che nello stesso tempo è totalmente indifeso e volontariamente impotente?

Esso è deciso a farsi stritolare dal Male senza intanto opporre la minima resistenza né tanto meno scatenare la sua soverchiante potenza.

Quale uomo potrebbe far questo senza intanto frapporre tra sé ed il male o il baluardo di una sia pur fragile speranza oppure quella forza (a volte quasi sovrumana) che, nella disperazione, ci viene conferita dall’odio e dal desiderio di vendetta?


Nessuno di noi ne è capace! E quindi la verità è che nemmeno il pur così autentico pessimismo platonico-gnostico è capace di affrontare a viso aperto il Male.

E quindi, se pretende di farlo, non può che essere ipocrita e mentitore. Perché la capacità di affrontare a viso aperto il Male non è in verità affatto alla portata dell’uomo.

Questo è dunque sì un pregevole ideale, ma nei fatti è assolutamente insostenibile.

Il che ci lascia allora pensare che il così entusiasmante ritratto della morte di Socrate fattoci da Platone è probabilmente molto più letterario che non reale.

Infatti, se il Cristo stesso (cioè Dio in tutto e per tutto) sudò sangue nel mentre guardava dritto in faccia al Male ed inoltre anche alla sua personale morte (la più ignominiosa, oscura e fallimentare che possa mai venire concepita), figuriamoci se non lo fece anche l’uomo Socrate.
Ecco allora che ci appare possibile affrontare a viso aperto il Male solo in questo modo sovrumano, ovvero, per essere precisi, solo con questo esempio davanti a noi. Il che equivale però ad ammettere che noi possiamo semmai sperare di approssimarci minimamente a tale esempio, ma mai potremo emularlo totalmente.

Ebbene, il fare come ha fatto Cristo è l’autenticità assoluta nella presa d’atto del male mondano, ma nello stesso tempo ciò è tutt’altro che un pessimismo radicale.

Dietro lo straordinario coraggio inerme del Cristo c’è infatti l’ottimismo di Dio stesso, ossia un ottimismo assolutamente necessario.

Questo perché solo Dio (ma mai l’uomo!) può sapere perfettamente che quanto sta vivendo non è nulla e non vale nulla. L’uomo non può per il semplice motivo che intanto è oggettivamente imprigionato nella carne, e quindi nemmeno per un attimo potrà considerare il mondo come un nulla.

Dio insomma considera il mondo esattamente alla stregua del platonico-gnostico, cioè lo considera appena un brutto sogno che deve passare.

Ma intanto fa questo come un dio.

Ma non solo. Perché egli è dio solo nel mentre è anche uomo. Il che significa che quanto solo lui riesce a fare viene messo alla portata dell’uomo senza nemmeno che quest’ultimo debba fare qualcosa. La via è stata infatti già percorsa tutta dal Cristo.

Ed inoltre la concessione all’uomo della natura divina (da parte del Cristo) è totale, radicale, incondizionata e gratuita.

Il che bypassa completamente tutta la pur pregevolissima immensa, poderosa e formidabile sapienza che era presente nel misterismo orfico nella forma di una dottrina che prevedeva esattamente il raggiungimento della divinità da parte dell’uomo.6

È vero, questo è quanto effettivamente insegnava l’orfismo.

Ed è vero anche che ciò (come dice Raphael) assomiglia straordinariamente al Cristianesimo (ad esempio io direi che la recita del Rosario assomiglia straordinariamente al percorso misterico-iniziatico orfico-dionisiaco in quanto imitazione del dio ed assimilazione ad esso).

È vero insomma che i misteri iniziatici di tipo orfico furono una via di autentica rigenerazione totale dell’uomo.

È anche vero però che gli stessi orfici non potevano non sapere che questo restava nella gran parte dei casi uno splendido ideale destinato a rimanere però irrealizzato (forse più una leggenda che non una realtà).

E ciò ci viene dimostrato proprio dal fatto che, volendo essere davvero realisti ed insieme umili (come solo il Cristianesimo ci insegna), l’uomo può conquistare per davvero la divinità soltanto se questa impervia via è stata già percorsa dal Dio divenuto Uomo.

Dunque, una volta constatato questo, per davvero – di fronte al tema dell’esistenza − non ci resta altro se non la via della filosofia cristiana.

Infatti, al netto delle osservazioni appena fatte, essa sembra essere l’unica capace di offrire per davvero all’uomo gli strumenti per affrontare l’esistenza senza nemmeno aver dovuto compiere lo sforzo per comprenderla.

Ciò sembra possibile perché sulla mira dello sguardo del cristiano c’è costantemente null’altro che una Persona umano-divina, ossia il Cristo stesso; e quindi un pensiero personale vivente ed una storia personale vivente ma nello stesso tempo misteriosamente mondano ed extra-mondano, naturale e sovrannaturale. In questo senso si tratta quindi di un sentiero già tracciato nel corso del quale tutti, ma proprio tutti, i possibili problemi sono stati già affrontati e risolti.

Ad ogni difficoltà c’è quindi una soluzione ed una via di uscita, per quanto imperscrutabile. E la prova vivente di ciò è l’immagine della Resurrezione dai morti da parte del Cristo pieno di Gloria.

Insomma, tra la difficoltà del cammino e la Resurrezione c’è e resta sempre un salto che a sua volta resta colmo di mistero. Ma questo salto è stato per definizione già compiuto.

Ecco quindi detto tutto.

La conclusione non può essere che questa: − per affrontare seriamente (ed insieme umilmente) l’esistenza con strumenti filosofici, noi abbiamo assolutamente bisogno di un pensiero che si nutra della più rigorosa etica e nello stesso tempo anche della più visionaria fede.

E a questo punto davvero poche sono le possibilità che abbiamo a disposizione per trovare la corrispondente filosofia. Forse una sola: − il Cristianesimo!

 

 

Note

1. Cfr. D. J. Yount, Plotinus the Platonist. A comparative account of Plato and Plotinus metaphysics, Bloomsbury, London, Oxford, New York ,New Delhi,Sydney, 2014

2, V. Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Fazi Editore, Roma, 2017, pp.151-185.

3. E. Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1996, IIA, 6 pp. 169-170, IIB, 1-7 pp. 171-196, III, 1 pp. 197-206; Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma, 1998, I, 3, 1-4 pp. 72-92, II, 1, 2-3 pp. 173-216; Stein, Der Aufbau, der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, V, II, 2 pp. 80-91; Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien, 2006, VII, 9, 8 pp. 385-387.

4. Cfr. P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia ed alla teologia, Morcelliana, Brescia, 2015.

5.Cfr. Agostino di Ippona, La natura del bene, Bompiani, Milano, 2001.

6. Cfr. Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma, 2004.

 

 

 

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