Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La filosofia religiosa partendo da Solov’ëv

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Vladimir Sergeevič Solov'ëvIl tema della relazione tra Ragione e Fede ha attraversato di fatto l’intera filosofia occidentale non solo dall’avvento del Cristianesimo in poi, ma già addirittura a partire da pensatori come Pitagora e Platone, raggiungendo poi senz’altro il suo culmine nel Neoplatonismo.

Naturalmente comunque qualcuno potrebbe oggi chiedersi a che pro’ riproporre una questione come questa, visto che essa è ormai del tutto sparita dall’orizzonte del pensiero, oppure ha assunto in essa una forma estremamente diversa dal solito.

Ebbene innanzitutto va detto che non è esattamente così, dato che il tema viene ancora dibattuto perfino nell’ambito della così laica (se non atea) Filosofia Analitica.

Esiste infatti addirittura una riflessione filosofico-analitica di stampo cristiano. Per non parlare poi di quella nuovissima filosofia di stampo buddhista che ha letteralmente conquistato larghi spazi di dibattito in tutto il mondo (anche se in particolare presso le scuole americane).

Infine bisogna anche menzionare quella moderna riflessione pienamente atea ed anche anti-religiosa (anch’essa spesso di stampo filosofico-analitico), il cui scopo è liquidare per sempre la possibilità stessa di una filosofia religiosa.

 

Tuttavia basta gettare uno sguardo anche solo superficiale su questo complessivo dibattito per rendersi conto di quali livelli di astrusità riesce a raggiungere una riflessione filosofico-religiosa la cui principale ambizione è semmai quella di ricondurre l’esperienza religiosa ai criteri razionali quanto più acutamente critici possibili.

Questo genere di riflessione può senz’altro soddisfare lo spirito con il quale oggi si fa filosofia, e cioè uno spirito sostanzialmente critico-analitico e quindi fortemente riduzionista rispetto a tutto ciò che è autenticamente metafisico e sovrannaturale (quindi anche fortemente contemplativo).

È evidente però che in questo ambito non è alcun modo possibile ritrovare i termini della tradizionale relazione tra Ragione e Fede. Infatti il massimo che oggi si riesca ad ammettere è una riduzione della Fede alla Ragione che è così completa da annientare di fatto la prima per lasciar sussistere solo la seconda.

Ciò che ne nasce è insomma una ben paradossale Ragione che pretende di includere in sé i caratteri di una Fede ormai completamente svuotata e snaturata.

Per tali motivi in questa lezione non mi soffermerò sul pur abbondantissimo materiale che ci viene offerto dall’attuale riflessione di tipo filosofico-religioso. E quindi offrirò al lettore riferimenti (testuali e di pensiero) che sono di genere totalmente diverso.

Il che però significa anche doversi limitare ad un ambito oggi estremamente ristretto di pensatori e di testi; così ristretto che il filosofo accademico avrà facile gioco nel liquidare tutto questo come irrilevante «letteratura secondaria».

È quindi con questa limitazione che entrerò nel merito della questione. Pertanto a questo punto il lettore maldisposto in questo senso dovrà necessariamente smettere proprio qui di seguirmi.

Inizierò dunque prendendo a modello un libro che non a caso dichiara in partenza di voler avere poco a che fare con la filosofia, e cioè “I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo” di Vladimir Sergeevič Solov'ëv.1

Solov’ëv è stato un grande pensatore cristiano, e non a caso è stato paragonato addirittura a Tommaso d’Aquino nel suo sforzo di difendere filosoficamente le verità di fede.

Tuttavia in questo libro egli rinuncia a qualunque argomentazione filosofica proprio allo scopo di tentare la difesa estrema del Cristianesimo dal suo incipiente totale sovvertimento.

È infatti questo il pericolo che lui vede nel confuso spiritualismo di Tolstoj, che nel libro viene presentato (specie per mezzo di uno dei protagonisti dei tre dialoghi, e cioè il Principe) nella forma di un pacifismo incentrato in un’etica tutta laica, razionalista ed antropocentrica della non-violenza in quanto (presunta) primaria virtù cristiana.

Secondo questa visione (che sente il bisogno di rivedere radicalmente il messaggio di Cristo ed anche la sua stessa figura storico-teologica) il vissuto cristiano è destinato a risolversi tutto nell’azione volontaristica improntata all’amore incondizionato verso il prossimo, e che inoltre rappresenterebbe addirittura l’unico modo per attualizzare il Regno dei Cieli.

Ne risulta, quindi, che il sussistere del Regno dei Cieli non dipenderebbe affatto dalla presenza trasfigurante del Cristo nella storia (come vita, morte e soprattutto resurrezione), ma dipenderebbe invece solo e soltanto dall’agire umano.

È evidente che questa visione cancella di fatto dal Cristianesimo la presenza condizionante del Cristo – risolvendo così l’essere cristiani nella sola azione, e non più invece nella nuova ontologia mondana generata dal Cristo. Ed infatti Solov’ëv parla al proposito di un “Cristianesimo senza Cristo”.

Ebbene, è proprio da tale visione che scaturisce secondo lui il progetto dell’Anticristo. Che è appunto un progetto di riforma del Cristianesimo nel senso della sostituzione definitiva del Figlio del Padre divino con il Figlio del Padre satanico.

Costui è insomma un «anti-cristo» proprio perché si pone come un Cristo definitivamente nuovo e sostitutivo rispetto a quello originario e autentico. Si tratta quindi chiaramente del tentativo estremo di Satana di neutralizzare gli effetti della venuta del Cristo.

Ma cos’ha tutto questo a che vedere con la filosofia religiosa?

A mio avviso moltissimo, dato che la difesa soloveviana delle verità di fede sembra voler prepotentemente uscire dagli equivoci e dalle vaghezze di certa teologia retorica, spostandosi quindi dal piano dell’esercizio della pura Ragione al piano della più intensiva prassi.

Infatti il personaggio principale dei dialoghi, il signor Z (che poi alla fine leggerà il manoscritto contenente il Racconto dell’Anticristo), fa da trait-d’union dei discorsi degli altri interlocutori proprio difendendo la tesi dell’esistenza effettiva del male nel mondo e quindi della conseguente necessità di eradicarlo totalmente (per mezzo dell’aperta “lotta al male”).

Compito che egli affida di certo anche agli uomini, ma in primo luogo al Cristo in persona. Il che però è destinato ad avvenire solo alla Fine dei Tempi, ossia dopo la sconfitta definitiva dell’Anticristo e di Satana.

Intanto, egli ci fa notare, allorquando Gesù esisté nel mondo, Egli stesso non poté fare altro che prendere atto dell’esistenza inoppugnabile del male.

Proprio per tale motivo egli sostiene (appoggiando le tesi puramente pragmatiche del Generale) che una guerra sacra è stata sempre necessaria anche dopo la Resurrezione del Cristo.

La storia infatti non è di certo cessata con questo fenomeno.

Ritenere invece il contrario (e cioè ritenere che l’esistenza del male è meramente relativa al non-agire dell’uomo in conformità con la volontà divina) espone al rischio di pensarla esattamente come gli spiritualisti pacifisti e laici (sul modello di Tolstoj e del Principe). Il che significa non concepire una lotta radicale al male, e quindi significa infine, in ultima analisi, essere di fatto complici del male stesso.

Questo implica però l’aver intanto elaborato una teoria dell’uomo e del mondo che è senz’altro filosofica, in quanto si muove su un piano decisamente metafisico.

Non a caso nel contesto della più moderna riflessione filosofico-religiosa (ossia quella analitica prima menzionata) il problema del male ha un’importanza ancora del tutto centrale.

E tuttavia Solov’ëv non argomenta affatto circa il male, come fanno invece oggi i filosofi analitici e come avevano sempre fatto anche i filosofi al servizio della teologia (con vertice in Tommaso d’Aquino).

Egli si limita infatti appena a fare una constatazione riguardo all’esistenza certa di esso, anche se lascia che tale constatazione scaturisca da qualcosa di molto simile ai dialoghi platonici (e quindi da una sorta di dialettica argomentativa di tipo filosofico).

Ma alla fine, allorquando bisogna andare davvero al dunque, egli non esita al ricorrere alla sola (del tutto a-filosofica) mitologia apocalittica, e cioè al Racconto dell’Anticristo.

E quest’ultimo altro non è se non una fiction fanta-politica e fanta-religiosa circa eventi destinati a verificarsi tra il XX ed il XXI secolo (si narra infatti dell’avvento dell’Anticristo quale teologo erettosi a Monarca universale, dopo i disastrosi eventi di una spaventosa guerra tra Oriente e Occidente).

Proprio nel corso di questi eventi ne sarebbe andato della sopravvivenza stessa del Cristianesimo, e quindi di quello che fin dall’inizio era stato lo scopo primario della filosofia religiosa cristiana, ossia l’apologetica.

Nella sua introduzione al libro Solov’ëv afferma infatti che suo scopo non è quello di fare filosofia ma quello di fare apologetica.

Intanto ciò che mi sembra estremamente significativo è che egli attacca una visione del Cristianesimo che appare essere molto simile a quella oggi difesa da diversi teologi in veste di filosofi (e viceversa).

Si tratta in particolare di una revisione del Cristianesimo in chiave secolarista, mondana, immanentista, laica e umanista. Infatti al centro di tale visione sta proprio l’argomento secondo il quale Dio (per mezzo di Cristo, il Figlio) non interviene in alcun modo nel mondo né in alcun modo lo ha per sempre trasfigurato (almeno potenzialmente), con la conseguenza che la dimensione naturale resta totalmente indipendente da quella sovrannaturale anche dopo la venuta del Cristo.

Dunque il nucleo del vissuto cristiano sta anche in questo caso nell’agire secondo il principio dell’amore caritatevole e della costituzione di una comunità di fratelli.

Anche qui dunque è assente qualunque ontologia cristica. Tanto che (com’è avvenuto effettivamente nel contesto dell’attuale crisi Covid-19) si è oggi ritenuto che il vissuto cristiano possa tranquillamente prescindere dalla carnalità dell’esperienza del Cristo, ossia dalla dimensione fisicamente cultuale dell’Eucaristia.

Ora, non vi è dubbio (almeno a mio avviso) che ciò equivale a trasformare il vissuto cristiano in una mera e vuota retorica.

Il che comporta poi il fatto che diviene inevitabilmente mera e vuota retorica anche lo stesso discorso filosofico-religioso.

La stessa cosa non accade però in alcun modo al discorso sviluppato da Solov’ëv. E ciò avviene senz’altro perché egli si mantiene sul piano della pura prassi. Ecco allora che il discorso filosofico-religioso si mostra a noi (alla luce di quanto ci mostra Solov’ëv) come qualcosa che comporta di per sé enormi rischi proprio quando viene impiegato allo scopo della difesa delle verità di fede.

Esso infatti non difende un bel nulla, ma si limita invece appena ad argomentare. Ed inoltre, non appena le circostanze storiche lo permettono, addirittura si svincola dalla stessa ontologia sovrannaturale (ad esempio cristica) e si dispone ad argomentare su un piano unicamente mondano ed antropocentrico.

Giungeremo alla fine alle conclusioni su questo aspetto.

Ecco, una volta giunti a questo punto bisogna dire che parlare in maniera sistematica della filosofia religiosa (anche solo nella sua veste cristiana) è cosa impossibile a chiunque.

Quindi tanto più è impossibile entro lo spazio di una lezione come questa.

La sola sistematizzazione della filosofia religiosa cristiana ha occupato un numero sconfinato di volumi.

Per cui citerò al suo proposito appena la classicissima opera di Gilson, La filosofia del medioevo.2

Quanto poi alla filosofia religiosa non-cristiana essa si estende nel tempo e nello spazio. Essa risale nel tempo fino all’intera filosofia pagana greca e romana (con tutto il suo retroterra misterico specialmente orfico-pitagorico ed esiodeo), ed inoltre ad opere sapienziali non greco-romane come ad esempio il Corpus Hermeticum egizio.

Inoltre si estende nello spazio fino all’immenso patrimonio della filosofia metafisica indù e cino-giapponese (includendo ovviamente anche il buddhismo).

Pertanto in questa sede posso dire solo che – come ho del resto giustificato in molti miei scritti, pubblicati o presentati nel mio blog, la filosofia religiosa davvero autentica si lascia riconoscere dal fatto che il relativo pensatore assume la Rivelazione come il luogo di verità conoscitive divino-trascendenti già espresse pienamente ed una volta per tutte.

E si badi bene che tali verità sono insieme conoscitive e di fede senza la minima contraddizione tra le due dimensioni; motivo per cui non abbisognano né di una dimostrazione né di una difesa ad opera della Ragione.

Questo pensatore, dunque, intenderà l’argomentazione filosofico-conoscitiva (Ragione) come qualcosa che poggia costantemente sul piano di queste verità e inoltre ad esse continuamente risale quali giustificazioni dei contenuti del proprio logos filosofico.

In via di principio qui, insomma, non è affatto la Ragione a dimostrare e difendere la Fede, ma semmai è l’esatto contrario. In questo caso però i contenuti di Fede hanno già di per sé una valenza e validità pienamente conoscitive.

Ebbene, fatta eccezione (almeno in parte) per la grande corrente platonica, entro il pensiero cristiano la filosofia religiosa (in quanto relazione tra Ragione e Fede) non si è mai sviluppata secondo questo paradigma.

Ma invece si è sempre sviluppata sempre secondo quello opposto, e cioè quello classico (ed ampiamente usuale) della giustificazione e difesa della Fede da parte della Ragione.

L’altra posizione, invece (quella opposta che ho appena illustrato), è stata fatta propria e difesa da un pensiero o extra-cristiano (in gran parte pagano) o in forte odore di eresia, che ha trovato infine espressione dagli inizi del XX secolo in poi in quegli «studi tradizionali» (rappresentati in gran parte da René Guénon) secondo i quali l’accesso alle verità trascendenti è aperto a qualunque intelletto umano senza alcuna limitazione.

La tradizione cristiana invece ha sempre sostenuto che la Ragione è del tutto impotente senza il soccorso della Grazia, e quindi non può in alcun modo accedere al piano delle verità trascendenti.

In questo modo dunque la filosofia religiosa nella sua piena autenticità è eretica per definizione nel contesto della tradizione cristiana.

In ogni caso, una volta detto questo (e senza volere procedere oltre su questo piano), va precisato che ci sono stati non pochi pensatori cristiani che si sono approssimati al paradigma di filosofia religiosa che abbiamo appena definito come il più autentico. Lo hanno fatto senz’altro molti pensatori della tradizione platonico-cristiana, specie quelli della Patristica greca (Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore etc.).

Romano GuardiniMolto recentemente si può inoltre menzionare Romano Guardini  come un pensatore il quale ha argomentato sul solo piano della Rivelazione (più che del classico logos filosofico) in una maniera davvero magistrale ed anche esemplare.

E in tal modo credo che egli abbia portato a chiarimento non pochi contenuti filosofico-religiosi in una maniera molto più efficace ed istruttiva di filosofi cristiani estremamente sofisticati ed agguerriti.

Mi riferisco ad esempio a pensatori del calibro di Jacques Maritain e Edith Stein.
Naturalmente comunque questa moderna filosofia religiosa annega letteralmente in un contesto di pensiero che è infinitamente più lontano da un’autentica filosofia religiosa. E si tratta di quello scenario che ho tentato di schizzare all’inizio.

Ora il fatto che io abbia preso qui a base unicamente il libro di Solov’ëv ci mostra che l’assoluta apoditticità delle verità divino-trascendenti (verità di Fede che non richiedono affatto di essere giustificare e difese dalla Ragione, dato che esse addirittura incarnano la Ragione al suo massimo grado) non solo autorizza la filosofia religiosa a muoversi solo sul suo piano (senza intanto venir affatto meno ai doveri del filosofo), ma addirittura giunge a dispensare il credente dallo stesso filosofare.

E così possiamo forse pensare di aver toccato davvero la filosofia religiosa definita nella sua ultima pienezza. Solov’ëv ci ha infatti dimostrato con il suo libro che la vera difesa delle verità di fede consiste nell’accettare pienamente la “lotta al male”.

E questo implica due cose.

In primo luogo implica l’atto fondamentale di umiltà (in genere molto sgradito ai filosofi) del ritenere la presenza nel mondo del Cristo Risorto come l’unico e solo presupposto per poter davvero pensare di essere in grado di combattere il male (in quanto uomini, ossia enti pienamente sottomessi a quelle leggi naturali mondane che in qualche modo sono il male stesso).

Con ciò quindi il filosofo religioso cristiano si impegna in una fede che non ha più alcuna giustificazione qualora la presenza del Cristo venga considerata secondaria (“Cristianesimo senza Cristo”).

In secondo luogo implica la prassi, ossia l’impegnarsi concreto e fattivo nella lotta al male. E questo comporta il rigetto da parte del filosofo religioso di qualunque etica relativistica, oltre alla piena disponibilità ad accettare di sporcarsi le mani con le necessità belliche implicate dalla storia.

Infatti, in attesa della nuova venuta del Cristo, si può avere una speranza di limitare il male solo opponendosi ad esso in maniera esplicita e fattiva. Il che implica poi che il cristiano non può in alcun modo ritenersi «del-mondo»

(magari utilizzando la facile scusa di dovere “a Cesare quel che è di Cesare”), ma invece deve considerarsi unicamente «nel-mondo-ma-non-del-mondo».

Ecco, credo che qui ci possiamo fermare. Viviamo oggettivamente in tempi molto estremi. E quindi forse è arrivato davvero il momento di parlare di meno e fare di più.

In questo senso, quindi, la stessa più autentica filosofia religiosa è arrivata al redde rationem non meno di quella non autentica.

Anche per essa è giunta insomma il momento in cui è impossibile dire che il solo filosofare sia sufficiente a difendere quella Fede che intanto viene minacciata molto concretamente da Forze del Male che sono divenute estremamente soverchianti.

 

Note

1. V. Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Fazi Editore, Roma 2017.

2. E. Gilson, La filosofia del medioevo, Rizzoli, Milano 2014.

 

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