Il Concilio di Trento e la violazione del canone del Vecchio Testamento

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Correva l’anno 1534 quando Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, all’età di 67 anni, salì al soglio pontificio ereditando, dal precedente pontificato di Clemente VII, una Chiesa nella tempesta, reduce dello scisma luterano e del flop del Giubileo del 1525.

L’Europa era insanguinata dalla guerra tre Carlo V e Francesco I di Francia e Roma era stata saccheggiata dai mercenari tedeschi (1527).

Per di più si era da poco consumato lo scisma con Enrico VIII (1531), la defezione di Svizzeri e Scandinavi e, sul fronte esterno, i Turchi, già padroni del Danubio, avevano invaso e devastato l’Ungheria (1526), arrivando ad assediare Vienna (1529) e a minacciare il centro dell’Europa.

Nei 23 articoli proclamati alla Dieta di Schmalkaden (Febbraio 1527) i riformati svizzeri e tedeschi avevano dichiarato fra l’altro che il purgatorio, il celibato ecclesiastico, il culto dei santi e la messa erano invenzioni diaboliche e assimilato il Papa all’anticristo.

Per arginare la valanga di defezioni della Chiesa Romana che imperversavano in tutta l’Europa, sino al cattolicissimo Regno di Napoli, e consolidare il potere della Chiesa, Paolo III, dopo le iniziali difficoltà sulla scelta dei tempi e della sede, indisse un concilio nella città di Trento, dove ebbe inizio il 13 dicembre 1545.

L’avversione dei Riformati verso il papato, intanto, era giunta al culmine, al punto che proprio a ridosso dell’apertura del concilio Lutero pubblicò un libretto dai contenuti fortemente polemici, intitolato Contro Il papato fondato in Roma dal diavolo (Jena, 1845).

Il consesso di Trento ebbe la durata di 18 anni storicamente suddivisi in tre periodi, a causa delle interruzioni dovute alle contingenti vicende politiche, storiche, e alla morte di tre papi, concludendosi il 4 dicembre 1563, sotto il pontificato di Pio IV.

 

I temi trattati nelle 25 sessioni furono numerosi, e toccarono argomenti cruciali quali le fonti della Rivelazione, il canone biblico, il peccato originale, la giustificazione, i sacramenti e le minacce di anatemi per chi osasse pensarla diversamente.

Il punto di vista cattolico sui vatti temi del concilio fu espresso sinteticamente in un libro di G.  Ferraris Di Celle, pubblicato due anni prima del Concilio Varicano II.1

La cronaca del Concilio non interessò minimamente l’editoria dell’epoca. D’altronde, non si trattava che di un fatto interno alla Chiesa finalizzato a chiarire i rapporti da tenersi con il mondo esterno e, soprattutto, con gli scismatici.

L’unica opera di rilievo fu quella di Fra Paolo Sarpio Veneto col nome anagrammatico di Pietro Soave Polano, Istoria del Concilio Tridentino, stampata in Londra nel 1619 e subito ristampata come II edizione, “riveduta e corretta dall’Autore in Geneva, Appresso Pietro Alberto” nel 1629.

Sulla copertina fu stampigliato un tritone avvinghiato a un’ancora, marca tipografica usuale della Tipografia Manuzio di Venezia.2

Di più comoda lettura è l’edizione Laterza del 1935.3

Il libro, che rimane il più autorevole trattato sul Concilio, fu istantaneamente giudicato eretico dalla Chiesa e inserito nell’ index librorum prohibitorum con decreto del 18 Novembre 1619.

Ciononostante l’opera ebbe subito grande fama e larghissima diffusione non solo in Italia ma in tutta l’Europa, mediante le numerose traduzioni fatte in francese, inglese e tedesco.

L’incarico di confutare l’opera del Sarpi  fu affidato al cardinale Sforza Pallavicino della Compagnia di Gesù, primo teologo nel Collegio, che nel Maggio 1653 dichiarò false ed eretiche le cinque proposizioni di Giansenio.

Nel 1656/57 fu data alle stampe la sua opera in tre tomi, dal titolo Istoria del Concilio di Trento.4

Il Pallavicino contestò aspramente l’opera di Frà Paolo Sarpi, definita «la prima Storia del Concilio compita quanto alla sua estensione, benché depravatissima quanto alla verità, e mancante di molte essenziali notizie.»

Nella quarta sessione del Concilio, tenutasi l’8 aprile del 1546, fu pubblicato il decreto De canionicis scripturis, che affrontava alcuni tra i punti più roventi dell’ormai insanabile divisione tra il pensiero cattolico e quello riformato: le fonti della Rivelazione.

La Chiesa neotestamentaria, viventi gli Apostoli, aveva fondato il suo credo su due pilastri fondamentali: il primo era costituito dalla Scrittura, come emerge chiaramente dall’insegnamento di Gesù e di tutto il Nuovo Testamento, Il secondo sull’opera perfetta e completa di Gesù Cristo, mediante la quale l’uomo può avere accesso a Dio unicamente mediante la fede.5

Il Concilio di Trento, sulla scia dell’umanesimo imperante, fortemente condizionato dalla filosofia tomistica, profanò e divelse ambedue gli assiomi.6

Dalla lettura della Historia apprendiamo che nel corso della discussione sul catalogo dei libri canonici, tenutasi il 4 febbraio 1546, emersero quattro diverse opinioni, ma nella sessione del successivo 8 marzo «fu da tutti approvato, che le Tradizioni fossero ricevute, come di ugual autorità alla Scrittura: ma no concordarono nelle forme di tessere il Catalogo dé libri divini & essendo tre opinioni …» si rimandò la discussione alla successiva Congregazione.7

Il 15 marzo fu approvata a maggioranza la risoluzione che prevedeva di fare un solo catalogo, «ponendo tutti i libri d’ugual autorità.»8

Nella sessione dell’8 aprile, dopo la messa e le cerimonie di rito, l’arcivescovo celebrante lesse i due decreti.

Il primo poneva sul medesimo piano le Scritture «& le tradizioni spettanti alla fede, & a’ costumi, come venute dalla bocca di Christo, ovvero dalla Spirito Santo dettate, & confermate nella Chiesa Catholica.»

Il primo pilastro su cui fondava la Chiesa neotestamentaria era demolito e la piena dilagava ormai liberamente, travolgendo tutti gli altri credi apostolici.

In nome della Tradizione il Concilio profanò così anche il complesso dei libri ricevuti e riconosciuti dagli Ebrei e che lo stesso Gesù Cristo e gli Apostoli leggevano e riconoscevano come autorità proveniente da Dio stesso.9

Così furono inseriti nell’elenco i libri di Tobia, Giuditta, Sapienza, Ecclesiastico, Baruch, I e II Maccabei che nulla avevano a che vedere con il canone ebraico.

Alcune interpolazioni riguardarono poi il libro di Ester, cui furono inseriti il capitolo X versetto 4 fino a tutto il capitolo XVI e Daniele, cui furono aggiunti i capitoli XIII e XIV.

Con ciò, ignorando deliberatamente che ai Giudei «furono affidate le rivelazioni di Dio» (Romani 3:1-2) e che agli Israeliti «appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, le promesse… » (Romani 9:1-5).

Gli Ebrei, com’è risaputo, non hanno mai riconosciuto la canonicità di quei libri.

Una sintetica ma efficace dissertazione sulle ragioni per cui il mondo riformato ha sempre rigettato la posizione cattolica in relazione al canone biblico, è stata esposta da Luigi Desanctis nella sua Roma Papale.10

I Padri conclusero la trattazione fulminando anatema per tutti coloro «che non li riceveranno per sacri, & canonici tutti intieri, con le sue parti tutte, come sono letti dalla Chiesa Catolica…»11

Sforza Pallavicino trattò lo specifico argomento nella sua Istoria.

Ovviamente, nulla poteva obbiettare sulle questioni trattate dai due decreti dell’8 di Aprile, confermando finanche la cronaca del Sarpi che descrive la presenza di soli «cinque cardinali, di quarantotto vescovi, e questi di città piccole, e non profondissimi in teologia, ma per lo più gentiluomini e cortigiani» in rappresentanza di tutta la galassia Romana, per la statuizione di così basilari fondamenta della fede cattolica ma obbiettando, circa la condizione e la cultura dei presenti, che «l’abbassar le persone di quell’adunanza è gran livore…Eran quaratotto i soli vescovi, è vero, ma non di chiese piccole …»12

Lo storico ebreo Giuseppe Flavio (37-100 d.C.), trapiantato a Roma dopo la disfatta giudaica culminata con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio (70 d.C.) ad opera di Tito, fu il primo a discutere esplicitamente la formazione e la limitazione del canone dell’Antico Testamento.

Nel suo trattato Contro Arpione Giuseppe indica nel numero di 22 i libri ispirati da Dio e accreditati con certezza dal popolo ebraico, consistenti nei cinque libri di Mosè, tredici libri profetici e quattro libri di canti a Dio e precetti per la condotta della vita umana.13

Concludendo che in tutto il tempo in cui furono scritti, che va da Mosè ai tempi di Artaserse, nessuno si è mai permesso di aggiungere o togliere o alterare una sillaba; ed è istintivo per ogni ebreo, fin da quando nasce, considerarle come i decreti di Dio, conformandosi ad essi e, se necessario, morendo con gioia per essi.

Il canone accreditato presso gli israeliti constava quindi di tre parti fondamentali:

Cinque libri di Mosè,  tredici libri dei Profeti (Giosuè, Giudici-Rut, Samuele, Re, Isaia, Geremia-lamentazioni, Ezechiele, i 12 Profeti Minori, Giobbe, Daniele, Esdra-Neemia, Cronache, Ester), e quattro libri di canti e precetti (Salmi, Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici).

Sono proprio i libri da cui Gesù e gli Apostoli traevano le citazioni che permeano tutto il Nuovo testamento, le “scritture” che il medesimo Gesù insegnava nelle Sinagoghe, nel Tempio di Gerusalemme e per tutta la Galilea e la Giudea, sino alla Samaria e al di là del Giordano.

Quanto alla materia trattata, i libri e le interpolazioni aggiunte al canone ebraico sono zeppi di errori e di anacronismi.14

II Maccabei conclude addirittura ridicolmente la sua storia, con queste parole:

«Se l’opera è riuscita bene e come si conviene ad una storia, è proprio quello che io volevo; se invece è di poco valore e mediocre la sua narrazione, è quanto ho potuto fare. E come bere solo vino o bere solo acqua è cosa sgradevole, mentre il vino mescolato con l’acqua riesce gradito e procura un dolce piacere, così è anche il modo di disporre la narrazione che diletta le orecchie di coloro che per caso leggono l’opera. E questa è la fine.»15

Non c’è bisogno di una grande cultura biblica per intuire che espressioni favoleggianti di tal fatta non presentano alcuna assonanza con le Scritture che gli Ebrei e gli apostoli studiavano e divulgavano in tutto il mondo allora conosciuto.16

 

 

 

Note

1. G. Ferraris di Celle, I concili ecumenici, ed. Paoline, 1960, pp.212 -236.

2. P. Soave Polano, Historia del Concilio Tridentino nella quale si scoprono tutti gl'artificii della Corte di Roma per impedire che né la verità di dogmi si palesasse, né la riforma del Papato, et della Chiesa si trattasse, con prefazione e lettera dedicatoria a Giacomo I Re d’Inghilterra di Marc’Antonio De Dominis, London, John Bill, 1619. Un’ottima copia digitale dell’originale, conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, è scaricabile da Internet Archive.

3. Fra Paolo Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, a cura di Giovanni Gambarin, Laterza, Bari, 1935. I tre volumi sono scaricabili gratuitamente da Internet Archive.

Vol. 1 https://archive.org/details/151SarpiIstoriaDelConcilioTridentino1Si224

 Vol. 2 https://archive.org/details/152SarpiIstoriaDelConcilioTridentino2Si225

Vol. 3 https://archive.org/details/153SarpiIstoriaDelConcilioTridentino3Si226

4. Padre Sforza Pallavicino della Compagnia di Gesù, Dell’Istoria del Concilio di Trento, parte I, II, III, Roma, presso Angelo Bernabò, 1656-1657.  Ristampa in Roma, Collegio Urbano di Propaganda Fide, 1833.

5. Cfr. F. A. Schaeffer, L’umanesimo e la cristianità, Edizioni Centro Biblico, Napoli, 1966.

6. Cfr. Schaeffer, Fuga dalla ragione, edizioni GBU, Roma, tradotto dall’edizione americana Escape from reason, Inter-varsity press, Illinois, 1968.

7. Soave Polano cit. p. 157.

8. Ibid.p. 158.

9. Cfr. la II lettera di Pietro, cap. 1:20.

10. L. Desanctis, Roma papale, II edizione, Claudiana, Firenze, 1871, pp. 451 – 463.

11. Sarpi, cit. pp. 166-167.

12. Ibidem

13. Giuseppe Flavio, Contro Arpione Giuseppe, a cura di F. Calabi, ed. Marietti, Torino, 2007.

14. Per inciso, a vergogna dei moderni riscrittori della Storia che negano pervicacemente ogni legame storico degli Ebrei con Gerusalemme e con l’intera terra d’Israele, segnalo che per celebrare la vittoria fu eretto, alle pendici del Palatino, nella parte orientale del Foro di Roma, l’arco dedicato a Tito, rappresentante in bassorilievo alcuni degli oggetti trafugati dal Tempio, tra cui il candelabro a sette bracci (menorah).

 

 

15. I Maccabei furono una famiglia di patrioti ebrei vissuta intorno al II-I secolo a.C. Il termine Maccabeo proviene dall’ebraico maqqèbet, forse martello o designato da Jhwh e originariamente fu dato a Giuda, terzogenito del sacerdote Mattatia; successivamente passò ai suoi fratelli Giovanni, Simone, Eleazaro e Gionata. Solo dopo divenne co-gnome di famiglia assieme a quello gentilizio degli Asmonei. Il periodo della storia ebraica che va sotto il nome di maccabaico inizia verso il 168 a.C. con la fuga di Mattatia e figli nella campagna presso il loro paese d’origine, Modiin e di qui nel deserto di Giuda. I Maccabei, infatti, volevano respingere l’ellenizzazione imposta con le armi da Antioco IV Epifane (175-164 a.C.) Esistono cinque Libri dei Maccabei, i quali si rifanno alla vicenda storica della famiglia giudaica.

16.Cfr. La Bibbia concordata, in 3 voll., Mondadori, 1982.

 

 

 

 

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