Benedetto Croce e i senatori liberali contro il potere del papato

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Categoria: Storia Contemporanea
Creato Sabato, 29 Febbraio 2020 15:43
Ultima modifica il Sabato, 29 Febbraio 2020 15:58
Pubblicato Sabato, 29 Febbraio 2020 15:43
Scritto da Nicola Terracciano
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Il 24 maggio del 1929, Benedetto Croce, Francesco Ruffini, Luigi Albertini, Alberto Bergamini, Emanuele Paternò di Sessa, Tino Sinibaldi, votarono in Senato contro la ricostruzione del patere temporale del papato ed il Concordato.ù

Parlò per tutti il Croce affermando che con quell’atto finiva veramente e pienamente lo spirito vero, liberale e nazionale, del Risorgimento, e si affermava pienamente lo spirito totalitario del fascismo, divenuto AntiRisorgimento, al di là della facciata patriottica retorica,  che si accordava in tutto e per tutto con il consonante totalitarismo religioso cattolico, che lo aveva poi man mano, non a caso,  storicamente sempre più appoggiato e nutrito.

L’intervento di Croce, avvenne tra vivaci proteste di un gruppetto di senatori fascisti e clamori di spettatori nelle tribune.

Ricorda Croce nei Taccuini di lavoro: «Ma io ho ripetuto le parole che coprivano con le loro voci e ho rinforzato la mia voce, sicché ho detto intero, e in modo comprensibile, il mio discorso.»

Egli disse tra l’altro «La legge (risorgimentale) delle guarentigie avrebbe avuto il completamento della conciliazione, se la Santa Sede l’avesse accettata (Interruzioni), o se, movendo da essa, avesse aperto trattative, che non erano escluse e potevano essere coronate da accordo…

 

La legge delle guarentigie (fino alla stessa prima guerra mondiale) si mostrò affatto adeguata alla situazione e tale da lasciare al pontefice la piena libertà…

All’annunzio dell’avvenimento (del Concordato del 1929) fu subito detto in Italia, e ancor più nella stampa estera, che la politica ecclesiastica che lo Stato italiano inaugurava col concordato era, nei suoi principi, l’abbandono di quella per ottant’anni seguita dal Risorgimento e nella Italia una (Rumori vivissimi ).

Ciò è vero; ma non è, storicamente, tutta la verità. Perché l’intera verità storica è che il Risorgimento italiano ha le sue prime origini alla fine del Seicento e fu segnato dalla lotta e dall’ascensione del pensiero e dalla istituzioni laiche di fronte alla Chiesa.

Il suo primo grande nome è quello di Pietro Giannone, martire di questa causa, perseguitato, arrestato con inganno, tenuto prigioniero per oltre un decennio e morto in prigione.

Questo tratto originario della nuova Italia non si perse mai, neppure quando si formò un partito nazionale-liberale-cattolico, che accolse uomini insigni, da tutti ancor oggi ricordati e venerati, e un poeta che si chiamò Alessandro Manzoni. Quel partito, giova rammentarlo, non venne respinto e condannato dai liberali, ma dalla Chiesa.»

Nel clima di libertà ad essa garantita dalla nuova Italia, dal Risorgimento, priva dell’anacronistico potere temporale e di un suo Stato, la Chiesa, notava il Croce,  «non solo potè svolgere la sua opera e la sua propaganda. Ma ottenne una considerazione di rispetto e anche di reverenza, che le era venuta meno in Italia per secoli presso i migliori […]

Consapevoli del passato, solleciti dell’avvenire, noi guardiamo con dolore la rottura dell’equilibrio (Libera Chiesa in Libero Stato, secondo il principio di Cavour) che si era stabilito. Non già che io tema, come si è fatto da taluni alle prime notizie degli accordi, il risorgere in Italia dello Stato confessionale, che porga il braccio secolare al Santo Uffizio e riaccenda i roghi (Rumori vivissimi), o che dia validità all’Indice dei libri proibiti, o risottometta l’educazione della gioventù a concetti gesuitici.

Queste aspettazioni e queste speranze possono nascere ed essere coltivate in chiusi luoghi muffiti, ma non nel vasto mondo operoso, pieno di sole e di calore.

Il pensiero moderno, adulto e robusto, sfida simili assalti o velleità di assalti ed osserva ironicamente che i chierici stessi hanno bisogno di attingere dai suoi tesori e dai suoi metodi e dal suo costume quel che loro serve per non fare meschina figura nella letteratura e nella scienza e nella vita sociale. Ma, certo, ricominceranno spasimanti e sterili lotte su fatti irrevocabili, e pressioni e minacce e paure, e i veleni versati nelle anime dalle pressioni, dalle minacce e dalle paure.« (ndr. acuto profeta del dopo e dell’oggi)

E concluse «E il nostro voto…ci è imposto dalla nostra intima coscienza, alla quale non possiamo rifiutare l’ubbidienza che ci comanda.»

Con la stipula dell’accordo la Chiesa, rinunciando «alla superiorità che spetta alla religione e alla morale, discende al livello di uno Stato tra gli Stati» e ritorna a operare sul piano politico e con i mezzi tipici della politica come le «astuzie» e le «menzogne».

La critica di Croce si fece dura pertanto «quando la Chiesa entrò in caldi amori col fascismo e il Duce fu da essa proclamato “l’uomo della Provvidenza”, “privo di pregiudizi liberali.»

Nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono, pubblicata nel 1932, Croce sottolineò a più riprese l’antitesi irriducibile tra cattolicesimo e libertà, fornendo una rappresentazione obiettiva e meditata di una Chiesa cattolica in preda a un anacronistico oscurantismo.

La Chiesa cattolica si vendicò con il Sant’Uffizio, che, nel luglio di quello stesso anno 1932, condannò l’opera, decretandone l’inserimento nell’Indice dei libri proibiti e avviò il procedimento, che avrebbe portato alla censura dell’intera produzione (storica, filosofica, critica) di Benedetto Croce, come aveva fatto di tutti i più grandi spiriti dell’Occidente e di tanti grandi capolavori dell’umano pensiero, rivelando il suo volto dogmatico, fanatico, intollerante, saccente, prepotente e violento.

L’opposizione di Benedetto Croce contro il Concordato, da inserire nella Carta Costituzionale,  fu affermata anche durante la Costituente nel discorso dell’11 marzo 1947.

Criticava anzitutto il metodo della scrittura della carta costituzionale da parte delle forze politiche egemoni, che, invece di concentrarsi su un impianto razionale e su norme giuridiche in grado di garantire a tutti i cittadini italiani «la sicurezza del diritto e l’esercizio della libertà», si erano impegnate in negoziati «che hanno messo capo ad un reciproco concedere ed ottenere, appagando alla meglio o alla peggio le richieste di ciascuno». E vedeva la «prova diretta» di questo modo di procedere nella proposta di includere i Patti Lateranensi nel testo della Costituzione.

Tale proposta gli appariva, in modo veritiero, frutto di un compromesso intervenuto tra Partito Comunista Italiano e Democrazia Cristiana che giudicava assai negativamente.

A suo avviso, non vi poteva essere nulla in comune tra la Costituzione di uno Stato e un Trattato tra Stato e Stato.

Questo «scandalo giuridico» era poi aggravato dall’assunzione da parte italiana di un obbligo unilaterale: l’impegno a non modificare l’articolo in questione del testo costituzionale, senza il consenso preventivo del Vaticano (di uno Stato cioè straniero, con grave limitazione dell’assoluta sovranità dello Stato Repubblicano (scandalo che ancora dura).

E ricordò con giusto orgoglio:

«Parlai io solo in Senato, nel 1929, contro i Patti Lateranensi; ma anche allora dichiarai nettamente che non combattevo l’idea delle conciliazioni tra Stato e Chiesa, desiderata e più volte tentata dai nostri uomini di Stato liberali, perché la mia ripugnanza ed opposizione si riferiva a quel caso particolare di conciliazione effettuato non con una Italia libera, ma con una Italia serva e per mezzo dell’uomo che l’aveva asservita, e che, fuori di ogni spirito di religione come di pace, compiva quell’atto per trarne nuovo prestigio e rafforzare la sua tirannìa.»

 

 

 

Fonti:

G. Carocci, Il Parlamento nella storia d’Italia, Antologia, Editori, Laterza, Bari, 1964, pp.666-672.

D. Menozzi, Croce e il Concordato del 1929, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2016.