Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La mitologia della falange antica

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La falange macedone è entrata nell’immaginario collettivo, già nell’Antichità, come un modulo tattico invincibile, ma questa è un’impressione acritica contraddetta dall’esperienza bellica.

Già Polibio di Megalopoli, spiegando perché e come la legione romana avesse quasi immancabilmente sconfitto la falange, ricordava che alcuni greci reputavano impossibile che questo fosse avvenuto.

Invece era successo ed in molte grandi battaglie campali, eppure sembrava a taluni, suggestionati dall’apparenza ingannevole di una massa serrata e geometrica di uomini muniti di lunghissime lance, che fosse alla lettera incredibile.

In realtà, i grandi successi di Alessandro Magno furono dovuti in buona misura alla sua cavalleria pesante, importante quanto o persino più della sua fanteria armata di sarisse. I diadochi ed i loro successori accrebbero il ruolo dei fanti e diminuirono il numero dei cavalieri, spezzando così il delicato equilibrio tattico che Alessandro aveva saputo realizzare.

I gravissimi limiti dello schieramento falangitico si palesarono contro quel capolavoro tattico che fu la legione romana, capace di coniugare il combattimento corpo a corpo con l’uso di armi da getto e da lancio, la potenza d’urto alla flessibilità ed elasticità.

La falange, lenta, rigida, prevedibile, dava l’apparenza di una forza inarrestabile, ma in realtà era facilmente aggirabile, vulnerabile ad infiltrazioni nell’eventualità (difficilmente evitabile) di sue fratture, impotente a rispondere ad attacchi di sorpresa, incapace persino di schierarsi su terreni inadatti come quelli boscosi o montagnosi etc.

Polibio, uomo d’arme di lunga pratica e ragionata dottrina, spiegò pazientemente e minutamente tutto ciò.

 

La falange richiedeva per essere efficace d’avere il tempo e lo spazio per essere spiegata ordinatamente. Il terreno adatto era pianeggiante e vuoto, privo di qualsiasi ostacolo (alture, boschi, abitazioni, fossati etc.) che costringesse i falangiti ad abbandonare il loro ordine serrato spalla a spalla.

La catastrofe di Cinocefale, in cui l’esercito del re macedone Filippo fu quasi annientato dai romani, fu dovuta in buona misura alle alture (“Teste di cane” appunto) su cui si combatté e che impedirono all’armata regia d’assumere il suo schieramento caratteristico. L’unico reparto che poté farlo, rimasto isolato, fu attaccato di spalle dalle mobili centurie latine e spazzato via.

Ma neppure combattere in un campo aperto garantiva il successo alla vecchia tattica macedone, se contrapposta all’ordinamento manipolare romano.

La battaglia di Pidna, che vide la distruzione dell’esercito di Perseo re di Macedonia, inizialmente lasciò prevedere un risultato opposto. In principio i falangiti riuscirono ad avanzare mantenendo la compattezza del loro assetto, con la fittissima siepe di punte aguzze contrapposte al nemico.

I fanti macedoni delle prime cinque file, disposti fianco a fianco e petto contro schiena, abbassavano tutti le lance, per cui davanti ad ogni legionario romano in prima linea (schierato in linee più aperte di quelle nemiche, perché doveva avere lo spazio necessario per maneggiare il gladio) erano brandeggiate minacciosamente circa 10 lame acuminate.

Lo spettacolo della falange avanzante, con le pesanti sarisse che riuscivano a trapassare scudi e corazze dei romani, doveva dare veramente un’impressione d’invincibilità, se il comandante romano Emilio Paolo rimase dapprima sgomento.

Nonostante la sua grande esperienza bellica, avendo egli sessant’anni in buona misura trascorsi in guerre, Emilio Paolo rimase spaurito da ciò che riteneva quanto di più terribile avesse mai assistito. Tuttavia egli comprese presto la debolezza nascosta dietro alla facciata d’inesorabile forza ed ordinò alle sue unità d’assaltare il nemico non in maniera uniforme su tutta la linea, ma in maniera alternata.

L’azione dovette essere facilitata dal peculiare assetto tattico romano, con i reparti disposti a scacchiera e scaglionati in profondità.

Il risultato fu che la falange, in alcuni punti serrata dai romani, in altra invece con spazi sgombri dinanzi a sé, perse rapidamente all’allineamento, lasciando alcune piccole brecce in cui gli avversari s’infiltrarono.

Giunti al corpo a corpo, i falangiti furono massacrati senza quasi potersi difendere, sia perché erano ammassati in spazi ristrettissimi, sia perché il loro armamento offensivo prevedeva, a parte le sarisse, soltanto un corto spadino (l’unico che potessero adoperare nell’ordinamento chiuso e compatto che tenevano).

Al contrario i romani erano addestrati a combattere anche in ordine sparso e si servivano come arma principe del famoso gladio, preciso e potente, efficace nei colpi di punta e nei fendenti, a doppio taglio.

Il risultato fu un’ecatombe subita dai macedoni, con pochissime perdite patite dall’esercito repubblicano.

A Magnesia, l’armata raccolta da re Antioco III fu travolta senza problemi dai romani, nonostante l’enorme divario numerico. Il collasso dell’esercito asiatico incominciò da uno scontro di scarso rilievo, la rotta dei carri falcati scagliati contro le legioni, che condusse al disordine dell’ala sinistra del sovrano, poi all’aggiramento della falange da parte dei romani. Attaccata su di un fianco, la fanteria falangitica fu scacciata dal campo di battaglia.

Nonostante un periodo d’impiego abbastanza breve, poiché si registrano soltanto 25 battaglie campali combattute dalla falange, e risultati alla fine deludenti, fatta eccezione per la fulgida ma breve cometa di Alessandro, tale ordinamento tattico acquisì fama duratura, al punto che l’imperatore romano Caracalla nel III secolo d.C. creò alcuni reparti ad esso ispirati, più per il gusto d’imitare e far rivivere un celebre modello che per effettiva funzionalità marziale.

Va detto che la stessa falange oplitica, da cui deriva quella falangitica, ebbe nella prassi bellica greca un’importanza assai minore di quanto si è creduto per lunghissimo tempo.

Anzitutto, essa era verosimilmente inesistente prima del V secolo a.C., nonostante ciò che si è creduto di rintracciare nelle descrizioni omeriche. Gli opliti esistevano anche nell’era arcaica, ma difficilmente vi era lo schieramento oplitico in senso proprio.

Inoltre anche nell’età classica il ruolo dei fanti pesanti non aveva la centralità indiscussa che una prolungata e luminosa tradizione storiografica gli ha riconosciuto, anzi sembra che essi non fossero (in termini generali) neppure i più numerosi fra i combattenti. In teoria, gli armati alla leggera dovevano essere in numero superiore, anche se nelle battaglie campali svolgevano di solito una funzione subalterna.

La mitologia della falange oplitica è un’altra deformazione prospettica, indotta in questo caso dalla lettura dei grandi autori greci coevi. Semplificando al massimo, gli opliti erano infatti i membri della classe dominante nelle poleis, ciò che li caricava di valenze ideologiche e simboliche fortissime, che si rispecchiavano anche nella produzione letteraria appannaggio di altri membri della stessa “classe”.

Questo ha certamente portato ad una certa sopravvalutazione nelle fonti dell’importanza militare effettiva degli opliti, ciò che ha mascherato una serie di elementi: il grosso dei cittadini non poteva permettersi un armamento oplitico e partiva per la guerra con armi “leggere”.

Non raramente combattevano anche mercenari “barbari” e gruppi di schiavi, ambedue equipaggiati in maniera diversa dagli opliti; le battaglie campali, ideali per la falange oplitica, erano relativamente rare e comunque meno frequenti di scontri di altra natura, come assedi ed incursioni. 

Non si può infine dimenticare che la falange oplitica, come quella macedone, era gravata da scarse manovrabilità, velocità e flessibilità. Gli spartani, indiscussi campioni del combattimento oplitico, subirono talora disastrose disfatte per mano di fanti armati alla leggera, come avvenne a Sfacteria, dove furono sbaragliati da arcieri e frombolieri che li bersagliarono da lontano, ed a Lecheo, quando un loro reparto fu semidistrutto con facilità dal “mordi e fuggi” di mercenari barbari che combattevano da peltasti, muniti di scudo leggero e giavellotti.

Sull’importanza dell’oplitismo nella Grecia antica esiste un intenso dibattito storiografico, ma se le ricostruzioni più innovative si confermeranno veridiche, allora un’immagine radicata nella storiografia e persino nell’immaginario collettivo andrà riformata.

 

 

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Si riporta qui una brevissima bibliografia, assolutamente minima rispetto alle dimensioni della storiografia esistente su questi temi.

Un classico nel suo genere è il vecchio e glorioso J.-P. Vernant (a cura di), Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Paris-La Haye 1968, che mantiene una sua validità, anche se ovviamente sotto certi aspetti è invecchiato.

Un punto di vista tradizionale sull’oplitismo ed in generale sulla via greca alla guerra, oggigiorno piuttosto contestato ma con molti sostenitori ancora, è quello del famoso e discusso saggio di V.D. Hanson, L’arte occidentale della guerra, Milano 1990.

Un punto di vista assai diverso e più innovativo rispetto ad una lunga e veneranda tradizione storiografica è quello di H. Van Wees, La guerra dei Greci, Gorizia 2009.

Focalizzato strettamente proprio sulla tecnica falangitica è la monografia di G. Cascarino, Tecnica della falange, Rimini 2011.

Un’ampia sintesi delle questioni principali e dell’intenso dibattito più recente è l’opera miscellanea di D. Kagan-G. F. Viggiano, Men of Bronze. Hoplite Warfare in Ancient Greece, Princeton-Oxford 2013, che raccoglie molti contributi di studiosi illustri.

Un riferimento imprescindibile va al recentissimo saggio di M. Bettalli, Un mondo di ferro. La guerra nell'Antichità, Roma-Bari 2019, che affronta a tutto tondo gli aspetti cruciali della guerra nel mondo classico, sia quelli militari, sia politici, economici e culturali, non senza una galleria di grandi personaggi.

 

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