Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Filone Alessandrino. Un paradigma di filosofia religiosa

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Introduzione

L’aspetto che più immediatamente colpisce di questo filosofo è quello di un pensiero immensamente fertile, e quindi non a caso aperto in direzione di diverse altre prospettive filosofiche e metafisico-religiose.

Non a caso (come il pensiero di Eckhart) esso è stato posto in relazione non solo con il platonismo e pitagorismo, ma anche con l’emanazionismo indù ed il dualismo mazdeico-avestico.1

Deve essere dunque per questo che Filone si pone come autentico crocevia tra Ebraismo, Cristianesimo e Paganesimo. E si tratta di un crocevia che è anche vera e propria pietra miliare dell’intero pensiero umano, oltre che delle tre menzionate culture religiose e metafisiche teologico-filosofiche.

Tuttavia non si può parlare affatto di un caso per due fondamentali motivi.

In primo luogo ciò accadde infatti perché la Scuola di Alessandria stessa fu un crocevia e laboratorio di idee, nel quale queste culture filosofiche e religiose si incontrarono ed interagirono spesso anche intersecandosi inestricabilmente tra loro.2

 

E va fatta notare in tale contesto la presenza di quell’Origene che è un vero gigante della metafisica cristiana originaria. Non a caso in questo fertilissimo laboratorio di ricerche e di idee la dottrina gnostica si affacciata più volte quasi come elemento comune tra le tre culture. E naturalmente questa dottrina ci riporta al platonismo ed al pitagorismo esattamente come fa anche lo stesso pensiero di Filone.

Vedremo però più volte come il nostro pensatore appare essere abbastanza lontano dalle posizioni gnostiche nonostante il così grande accento da lui posto sulla dimensione dell’intelletto.

La Gnosi ci approssima però comunque a quella Cabbala ebraica che senz’altro si pose in tal contesto come una presenza che assolutamente non può venire ignorata.

Essa recò infatti in sé stessa molti degli stessi elementi filosofico-metafisici che vivono anche nel pensiero di Filone, e cioè un complesso di idee fondamentalmente elleniche ruotanti intorno a platonismo e pitagorismo, oltre con l’ermetismo prevalentemente egizio.3

E di questo testimoniano diverse opere critiche scritte su questo tema.4

In ogni caso abbiamo discusso approfonditamente di questi temi (con i relativi autori) nel saggio da noi dedicato alla Sophia, ossia la Sapienza divina – e pertanto ad esso rimandiamo il lettore interessato. Va qui comunque notato che la Sophia rappresenta un elemento centrale anche del pensiero filoniano. Essa equivale infatti quasi interamente alla realtà di quel Logos che è poi il nucleo più intimo della visione del nostro pensatore.5

In secondo luogo la natura di crocevia di pensiero propria di Filone va fatta risalire ad un aspetto specifico della sua complessiva dottrina, e cioè il suo sforzo di far trapassare quasi senza traumi la metafisica pagana in quella ebraica.

E questo sforzo riguardò in particolare nella rielaborazione della deità pagana assolutamente impersonale nella figura del Dio personale biblico; cosa che non poteva non avere un effetto fondante anche per la metafisica cristiana.

I commentatori del testo filoniano (Reale e Radice) sottolineano proprio a tale proposito aspetti contrastanti ed aporetici, giungendo infine a concluderne che in sostanza intenzione di Filone fu quella di sostenere molto più l’idea di una deità che non l’idea di un Dio.6

D’altra parte però tratto comune di tutti i testi di Filone è l’accento posto su un Dio personale (creatore in primo luogo per amore), che egli stesso ci indica come quello biblico; ossia quello della Rivelazione e della Fede, invece di quello della Ragione e della Filosofia.

In ogni caso, comunque, gli studiosi appena citati sottolineano il fatto che il nostro pensatore volle introdurre una «nuova concezione di Dio»; e con ciò ci si riferisce senz’altro ad una compensazione delle carenze che erano state proprie della teologia pagana.

Non a caso la nuova concezione di Dio vuole essere per Filone quella che sottolinea la dimensione ontologica e personalistica di Dio, ossia il Suo presentarsi a noi come «Potenza» e non invece come «Essenza».

Insomma, come sottolineato dal Reale e dal Radice, al nostro pensatore non sembra affatto interessare il Dio della conoscenza apofatica. E questo segna una linea divisoria piuttosto netta tra la sua metafisica religiosa e quella invece cristiana. Ma discuteremo questo aspetto più approfonditamente in seguito.

A fronte di questo bisogna però tener conto del fatto che (come Reale e Radice affermano molto categoricamente)  il rinnovamento filoniano dell’idea di Dio nel contesto della filosofia ellenistica (e sulla base delle Scritture ebraiche) costituisce di fatto una delle basi più solide per l’emergere di una dottrina filosofico-metafisica cristiana della creazione.7

La sua dottrina della creazione anticipa insomma chiaramente quella della Patristica cristiana. E questo sottolinea pertanto l’importanza davvero fondamentale di Filone anche per il Cristianesimo.

Una volta chiarito tutto questo, dobbiamo però pervenire allo scopo primario dell’indagine da noi condotta in questo articolo, e cioè all’aspetto che per noi è più interessante entro la visione filoniana. Diremmo che esso consiste nella fondazione filoniana di una filosofia religiosa che appare essere davvero robusta in quanto essa sembra incentrarsi sul riferimento assolutamente primario del pensiero alla Rivelazione (o Scrittura).

Per mezzo del suo elemento centrale, il Logos, tale aspetto risulta poi intimamente connesso a questioni teoretico-conoscitive (specie di tipo etico), a loro volta in relazione alla discussione intorno alla natura della sostanza intellettuale e dello psichismo.

Tratteremo quindi anche di tali questioni. In altre parole la prospettiva filosofica introdotta da Filone non sembra poter essere veramente religiosa senza nello stesso tempo essere anche radicalmente etico-conoscitiva. Entro questa visione, insomma, filosofia, etica e religione (o teologia) appaiono stare esattamente sullo stesso piano. E ciò configura senz’altro una filosofia religiosa molto ben connotata.

Non ci sembra comunque affatto un caso che l’aspetto filosofico-religioso finisca per sbiadire molto (se non scomparire) sotto il peso di una serie di questioni critiche, che Reale e Radice discutono a fondo nel loro saggio introduttivo ai testi filoniani.

Il tratto fondamentale della visione del pensatore fu infatti che egli volle essere sostanzialmente un filosofo, e quindi volle applicare l’intero apparato della filosofia (nella quale era stato formato ad Alessandria in maniera davvero egregia) a quelle Scritture ebraiche che rappresentavano intanto il retaggio della sua cultura e razza. Reale e Radice parlano a tale proposito di «filosofia mosaica», e questo può costituire realmente il suggello dell’intera visione di Filone.8

È però del tutto ovvio a quale immensa serie di difficoltà, problematicità ed aporie espone una visione così connotata. E i nostri studiosi le discutono a fondo, ritenendole intanto di importanza capitale per poter emettere un giudizio sul pensatore e sul suo pensiero.

A noi però queste questioni sembrano tutto sommato di importanza solo secondaria. Infatti la natura di «filosofia mosaica» può anche apparire allo studioso tutto sommato paradossale (se non fantasiosa e perfino astrusa e arbitraria), e può pertanto venire posta in discussione quanto si vuole (e con gli strumenti più affilati della critica).9

Intanto però tale critica cambia molto poco nel fatto che proprio questo genere di filosofia si offre a noi come un vero e proprio paradigma di filosofia religiosa.

Per questi motivi non entreremo nel merito delle questioni critiche poste in evidenza da Reale e Radice. Ci limiteremo pertanto solo a menzionare alcuni termini specifici della complessiva discussione riguardante la vera natura del pensiero filoniano − Fu greco o ebraico? Fu filosofia o teologia?

Fu autenticamente o solo falsamente filosofico? Fu opposto al pensiero pagano o invece compromesso con esso? Fu complessivamente coerente o invece contraddittorio?

Tutti questi possibili rilievi critici convergono poi nella principale accusa di aporeticità («tensione aporetica») rivolta in generale a Filone (ed in gran parte condivisa dai nostri due studiosi).10

E cioè quella di non aver risolto le contraddizioni emergenti sul supremo piano del divino, ma di averle invece solo spostate sul piano degli «intermedi», ossia quella serie di entità che il pensatore presenta appaiandole al Logos (Idee, Sapienza, Pneuma o Spirito divino, Angeli, Potenze etc.).

Reale e Radice deducono da tutto ciò che a loro avviso il pensatore non volle risolvere i problemi all’origine (ossia sul puro piano divino trascendente), ma volle piuttosto mantenerli vivi fino a che non si sviluppasse una «struttura complessa ed articolata» nella quale il puro divino si potesse esplicare allo scopo di poter davvero venire discusso. E tale struttura è appunto quella del Logos posto in relazione dinamica con le altre entità prima menzionate.

A noi sembra invece che semmai Filone fin dall’inizio e per scelta) non volle farsi

vittima della problematicità aporetica (perenne ossessione della filosofia), ma al contrario volle usarla proprio come strumento per sviluppare un discorso filosofico che restasse centrato sulla base di quello teologico-metafisico (Rivelazione).

Esattamente per questo egli ci sembra poter essere il paradigma stesso di un pensiero religioso che parta appunto invariabilmente dalla Rivelazione. Il che avviene poi in relazione ad un’ulteriore paradigmaticità (che non a caso sarebbe emersa da subito nel pieno della metafisica cristiana), ossia quella consistente nel vedere nella filosofia pura una possibile nemica di quel pensiero religioso che non può essere davvero tale se non assume la stessa presa di posizione di Filone.

Tale presa di posizione è insomma quella di considerare la Rivelazione l’irrinunciabile e vincolante punto di partenza per un filosofare non solo autenticamente religioso ma anche pieno esattamente a causa di questo suo carattere.

E ci conforta in questo l’opinione del pensatore tedesco Peter Wust.11

Egli sostenne infatti che una filosofia non può assurgere alla metafisica se non ha prima la forza ed il coraggio di liberarsi dell’ossessione per quella «purezza» del pensiero, che è anche unilateralità del valore attribuito al soggetto, alla dimensione ideale ed alla logica formale.

Facendo questo, infatti, la disciplina si preclude la possibilità stessa di intercettare per davvero ciò che è  «mondo».

 Ed in tal modo essa taglia ogni comunicazione tra Pensiero ed Essere. Ebbene non a caso il pensiero di Filone (sebbene in esso manchi quasi completamente la questione dell’«essere divino») tende a spostare il discorso su Dio proprio sul piano della sua manifestazione, ossia sul piano della sua «epifania» (vedi nota 10) – cosa che avviene per mezzo di una serie di personificazioni delle quali il Logos è quella principale.

E solo su questo piano a lui sembra possibile un vero e proprio discorso filosofico su Dio. Un discorso che vuole restare metafisico in senso davvero alto (ed in perfetta linea quindi con la tradizione platonica) – e quindi non vuole affatto appiattirsi sulle posizioni della teologia naturale-razionale −, ma comunque vuole resta immediatamente al di sotto del supremo livello divino. Per questo essa ha come suo oggetto Dio come Logos.

In tal modo il paradigma di filosofia religiosa che qui emerge appare essere ineluttabilmente coinvolto in quello che potremmo definire come un «pensiero dell’essere». Ed in ciò sembra cambiare molto poco se consideriamo che (almeno da un certo punto di vista) la visione filoniana rientra in qualche modo in un certo «idealismo» filosofico-metafisico a causa del valore assoluto che essa attribuisce alla sostanza ideale, ossia all’intelletto.

Non a caso constateremo poi molte volte che nel suo contesto si ritrovano molti appigli per un davvero saldo «realismo».

 

I- L’esame testuale

Una volta accennate le linee lungo le quali quest’indagine intende muoversi, passeremo ora all’analisi di alcuni passi dei testi presenti nell’opera monografica (curata dal Radice) che ha cercato di raccogliere i testi del pensatore tradotti in italiano (vedi nota 1)

Ed inizieremo proprio dai passi che sembrano supportare quanto abbiamo detto poc’anzi; cioè che Filone può venire considerato un grande paradigma per un’autentica filosofia religiosa.

 

I-1 La filosofia religiosa

A tale proposito muoveremo dai punti in cui il pensatore sembra voler addirittura sottrarre valore alla filosofia.

Ciò avviene in diversi luoghi testuali nei quali egli nega espressamente qualunque valore a tutto ciò che è «mito» entro le Scritture – e qui il suo bersaglio è chiaramente non solo la teologia pagana ellenica, ma anche quel Platone nel quale il mito assunse un ruolo centrale nella riflessione filosofica. E quindi possiamo bene far equivalere questa critica ad una davvero radicale critica alla filosofia nella sua totalità.

Ci troviamo insomma già nel pieno di quella tradizione anti-filosofica e pro-fideistica, che (come abbiamo già visto) fu fatta propria da una parte della riflessione cristiana

Nel De opificio mundi Filone ci fa notare che il testo del Genesi (da lui attribuito totalmente alla riflessione di Mosè) non può venire considerato né filosofia né poesia, e cioè in entrambi i casi mito.12

E proprio a tale proposito egli attribuisce il Genesi a Mosè come agiografo e nello stesso tempo filosofo. Egli dice cioè che Mosè potette accedere alle più alte vette della filosofia − e cioè di fatto all’ontologia nella sua più radicale formulazione (il racconto stesso della creazione) – solo grazie all’infusione in lui della Sapienza divina. E ciò rappresenta allora la conoscenza sovrannaturale dei «principi essenziali della Natura».

In particolare si tratta in tal modo di prendere atto del fatto che il primario (e unico davvero sensato) principio dell’azione creativa è rappresentato dalla Provvidenza, ossia dall’azione divina guidata dall’Amore. Proprio tale costatazione deve dunque permettere di rigettare senza alcuna esitazione l’ipotesi metafisico-pagana di un mondo «ingenerato».

È vero che qui si sta parlando della creazione di un mondo ideale. Ma intanto la necessità ontologica che la governa deve venire riconosciuta come integralmente etica, e ciò a causa dell’Amore come primario principio creativo.

Ne consegue che nessun’altra necessità condiziona l’essere, se non la volontà divina di creazione.

E ne consegue inoltre che meno che mai il mondo del caos anarchico (la Materia e Natura primordiali presupposte dal Paganesimo come «materia eterna», ossia esistente semplicemente da sempre e da sé), cioè di fatto il divenire stesso (come dimensione basica dell’essere), può costituire il vero essere.

Esso può insomma anche venire presupposto per via puramente e neutralmente filosofica. Ma intanto resta qualcosa di astratto che non può in alcun modo venire costatato come l’essere effettivo al quale mette invece capo la creazione divina. Anzi esso è semmai appena il Nulla, ovvero una mera apparenza di essere.

Con tutto questo convergono del resto anche alcune considerazioni globali di Reale e Radice.13

Quanto abbiamo già detto rispetto alla creazione come «epifania» corrisponde infatti per gli studiosi anche all’aspetto più radicalmente nuovo introdotto da Filone nella concezione di Dio. Infatti, proprio perché Egli agisce creativamente unicamente spinto dall’Amore (e quindi non trovandosi sotto la spinta di alcuna necessità di essere, dato che Egli per definizione «non ha bisogno di nulla»), l’effetto della Sua azione è unicamente quello di estroflettere da sé stesso un radicale «Altro».

Che poi corrisponde al mondo ed all’uomo senza che venga però persa la loro fondamentale natura divina. Ciò che si afferma è quindi una davvero fondamentale dinamica relazionale-erotica, che è destinata a governare l’esistere di tutte le cose.

È in questo quindi che risiede la vera ed unica ragione delle cose. Esse insorgono insomma in forza di una sorta di Grazia unicamente attiva in quanto assolutamente incondizionata.

Tale azione, dunque, non viene né attirata né governata da alcuna incondizionata ed autonoma dignità delle cose esistenti; che invece insorge solo dopo l’azione della Grazia. Scopo della creazione è pertanto la generazione dal nulla (e per pura volontà divina) di quella che è la «Bontà dell’Essere» (prima del tutto inesistente).

In tal modo l’Essere è Bontà non perché lo sia in sé e per sé come necessità e oggettività, ma invece perché è destinato ad essere solo Bontà, cioè frutto della sola Bontà. «Bontà dell’Essere» significa dunque il non dover esistere necessariamente da parte delle cose, ma invece il loro poter esistere solo come bontà.

Eccoci insomma di fronte a quella sostanziale eticità dell’essere, che sussiste non perché domina la mera necessità ontologica ma perché invece domina la sola necessità etico-ontologica.

Ebbene ci sembra estremamente significativo il fatto che questa serie di concetti si approssima ad una moderna onto-metafisica (quella di stampo heideggeriano) solo per divergerne completamente nella sostanza ultima. E ciò sottolinea di nuovo molto efficacemente proprio la differenza esistente tra questa riflessione e quella puramente filosofica. Tale differenza esisteva insomma non solo al tempo di Filone, ma esiste ancora oggi; e cioè ogni volta che il pensiero umano, accostandosi (più o meno apertamente) a Dio, finisce fatalmente per intercettare l’essere nella sua più ultima formulazione.

Un ulteriore spunto lo ritroviamo più avanti nel discorso condotto da Filone nel De Opificio mundi a proposito del quarto giorno della creazione.14

Il pensatore afferma infatti che l’ordinamento divino prima della terra e solo dopo del cielo − per mezzo degli astri, quali veri e propri intelletti e vere e proprie cause immanenti − serve uno scopo primariamente conoscitivo. Esso tende infatti ad evitare che il pensiero umano, riduzionistico per definizione come esso è, veda negli astri e non in Dio la Causa degli eventi e mutamenti cosmici, e cioè il divenire.

Il primario ordinamento della terra obbedisce pertanto al motivo di sminuire la prevalenza che altrimenti gli uomini (quali filosofi della Natura) attribuirebbero al cielo. Ecco allora che la contemplazione degli astri (come cause solo relative) deve spingere l’uomo alla riduzione di ogni cosa alla vera Origine, ossia quella realmente trascendente.

La critica alla filosofia apre quindi qui una serie variegata di scenari tipici del pensiero filoniano.

Innanzitutto emerge in questa sede una sua radicale critica al pensiero come filosofia della Natura. Non a caso egli descrive il percorso di Abramo ed anche dello stesso Mosè come un progressivo allontanarsi da quella filosofia (ed anche scienza) della Natura che finisce per divinizzare il cosmo cancellando così (molto colpevolmente) l’esistenza di un Dio personale.

In Abramo ciò viene espresso narrando il suo abbandono della patria caldea – luogo nel quale la filosofia e scenza della Natura assunse la forma di una raffinatissima astronomia, ossia proprio la contemplazione degli astri e dei moti celesti.15

Oltre a ciò emerge la netta opposizione di Filone al pensiero filosofico del divenire, e quindi all’eleatismo (Parmenide). Non si capisce quindi come mai i critici tendano a considerare il suo pensiero affine a questa visione.16

Il che viene poi confermato dal fatto che il nucleo della visione filoniana dell’essere divino contraddice frontalmente il principio eleatico secondo il quale «nulla deriva dal nulla».17

E questa presa di posizione è il nucleo stesso della fondamentale confutazione, da parte del pensatore, della tesi della materia eterna a vantaggio delle tesi congiunte della creazione della materia e della creazione dal nulla.

Ma probabilmente ciò può venire spiegato tenendo conto del fatto che tutte le entità ipostatiche presentate dal pensatore si collocano su più livelli gerarchici dell’essere, tra i quali è incluso anche lo stesso dinamismo mondano.18 

Qui esse agiscono però più che mai come realtà spirituali, e quindi in ragione di un dinamismo che nulla a che fare con quello immanente; anzi è radicalmente opposto ad esso. E questo conferma nuovamente le gravi sviste delle quali tendono a divenire vittime quei critici i quali credono di poter comprendere un pensatore (ed un pensiero) solo per la via di una puntigliosa (ma in fondo miope) dissezione analitica.

Con ciò ci troviamo dunque nuovamente su un piano radicalmente diverso da quello della filosofia pura, e pertanto rigorosamente a-religiosa.

Ma la serie forse più forte di affermazioni (o almeno possibili extrapolazioni) anti-filosofiche di Filone si può trovare nel De gigantibus.19

Si tratta cioè della famosa (e speso abusata) storia dell’unione scellerata tra angeli (ma più propriamente«demoni») e donne umane, dalla quale nacquero poi degli esseri giganteschi e quindi mostruosi.

Ebbene Filone ci mostra come costoro costituiscono la maggiore esasperazione possibile dell’uomo terrestre, ossia l’essere più diametralmente opposto all’uomo spirituale ed all’uomo divino.

Il fenomeno che sottostà a tutto questo è comunque per il nostro pensatore quello molto generale dell’incarnazione dell’anima nel corpo. Fenomeno che egli giudica in maniera radicalmente negativa in piena obbedienza alla tradizione etico-filosofica platonica.

I giganti (così come i demoni loro progenitori) sono infatti quegli esseri in cui la spinta propulsiva verso il basso è ancora più veemente.

Ed essi quindi penetrano ancora più profondamente e irrimediabilmente nella dimensione «terra», dando vita così ad un ente umano che è tanto più sproporzionato in grandezza quanto più è sproporzionato in «terrestrità».

Insorge in tal modo quindi una sorta di «iper-uomo» in senso radicalmente negativo.

Ma proprio al cospetto di tutto ciò si delinea la filosofia (in rapporto al suo intendimento specificamente platonico) come risorsa condizionatamente positiva o negativa.

Lo sprofondare dell’anima nel corpo è infatti per Filone qualcosa che assomiglia all’immergersi in un fiume vorticoso. L’esito di tale evento potrà quindi essere una totale sommersione, oppure una successiva riemersione.

Ebbene quest’ultima è l’evenienza che tocca a chi è filosofo nel senso più retto possibile, ossia chi rientra nella categoria di coloro che «fanno filosofia in modo autentico».

L’altra evenienza è invece quella che tocca alle anime degli uomini che «disprezzano la sapienza». Ebbene, si può pensare che costoro siano i non-filosofi per eccellenza.

E tuttavia le considerazioni che faremo tra poco sull’accezione positiva di filosofia ci mostreranno che non è così.

Il nostro pensatore insomma non è disposto a concedere alcun valore a quel filosofare che non a caso corrisponde all’accezione oggi più accorsata di autentica filosofia, ossia quella che si basa su un argomentare tanto agguerrito quanto più esso è in realtà deteriore (essendo in verità solo sofistico.

Ciò significa allora che il vantaggio dello status esistenziale filosofico, che qui viene messo in luce, non deve essere considerato affatto incondizionato. E pertanto è opinabile che Filone non solo includa i filosofi degeneri nella categoria di coloro che disprezzano la sapienza, ma anche li consideri al vertice di tale categoria.

Ce lo lascia pensare la possibile valenza superomistica, in senso propriamente filosofico, che ha l’iper-uomo qui emerso.

Questo essere è infatti l’opposto dell’uomo spirituale in quanto «uomo di Dio», e cioè colui che ha oltrepassato in valore anche lo stato di «sapiente»,  ossia lo status di filosofo in quanto massima realizzazione dell’attitudine intellettuale umana.

L’uomo di Dio insomma non si limita più solo a contemplare dal basso le entità puramente intelligibili (in quanto appena «uomo celeste»), ma anche «emigra» letteralmente nel mondo dell’intelligibile più integrale e puro possibile, ossia il mondo divino.

E l’intera traiettoria di Abramo (a partire dalla sapienza caldea) si conclude proprio con il raggiungimento questo status.

Tanto è vero che secondo Filone Dio gli vieta l’ingresso nella terra promessa esattamente perché riconosce ad Abramo lo status conoscitivo della “vista” (ossia della «visione») che è infinitamente superiore a quello dell’immersione.20

La conoscenza alla quale il patriarca è pervenuto è pertanto quella di un’autentica «contemplazione».

Quello di Abramo è quindi un trapasso che conserva il valore anche dello status antecedente (che Filone aveva del resto fortemente avvalorato parlando della filosofia come antidoto ad un’incondizionata incarnazione dell’anima).

Ebbene la felice fusione tra questi due stati di essere finisce per generare una sorta di philosophus-sacerdos che senz’altro possiamo considerare come il filosofo religioso per antonomasia.

Ed eccoci dunque pervenuti al significato più proprio della filosofia di valore secondo Filone – essa è in primo luogo «contemplazione».

Ma lo è soprattutto in quanto scelta radicalmente etico-religiosa, ossia scelta di appartenere totalmente a Dio (nel conoscere e nel vivere), e quindi scelta di vivere nel mondo ideale divino anche nel mentre si soggiorna pienamente nella realtà mondano-terrena.21

In particolare il pensatore menziona Abramo (e precisamente quell’ Abraam che si sviluppa progressivamente alla fine del cammino spirituale) come paradigma di una contemplazione retta, e non invece «folle» della Verità.

Tale fu invece la conoscenza di Adamo, che a causa del peccato volle trasformarsi in uomo intellettuale negativo da perfetto che era prima. In altre parole per il nostro pensatore la retta filosofia è sostanzialmente contemplazione.

Ma l’opposizione alla filosofia appare a tale proposito ancora più radicale se si prende in considerazione più attentamente (e cioè dal punto di vista storico-filosofico) la valenza iper-umana che ha il filosofo qui in causa.

Il prototipo biblico di tali giganti è infatti Nimrod. Il quale incarna il prototipo del Re di un Regno integralmente terrestre (Babilonia) in quanto prototipo del Titano colto nella sua aspirazione alla «volontà di potenza».

Ed eccoci quindi davanti al Superuomo (nel senso di uomo iper-immanente) filosoficamente definito secondo le oggettive istanze del pensiero moderno. Egli è il propugnatore del Regno della Terra in quanto più che mai opposto al Regno dei Cieli. Filone non esita a condannare radicalmente questo status umano ed insieme conoscitivo, in quanto definisce l’atto di quest’uomo come una vera e propria «diserzione» dal Cielo.

È insomma l’atto finale di quella separazione dell’uomo da Dio che costituisce indubbiamente esattamente quanto è stato perseguito nella più moderna accezione (nietzschiana) di filosofo e di filosofia.

Qui peraltro il demonismo del filosofo è esplicito. Perché l’iper-uomo (Superuomo filosoficamente concepito) che aspira espressamente allo sprofondamento terrestre più radicale possibile, non trova paradigma migliore di quello del Lucifero rappresentato nell’Inferno dantesco.

Ma passiamo ora alle asserzioni di Filone che autorizzano un giudizio decisamente ed esplicitamente positivo sulla filosofia.

Tale giudizio positivo sta chiaramente in connessione con quanto diremo poi del ruolo e valore attribuito da Filone all’intelletto. Si tratta di quella che potremmo ben considerare come una dottrina della «prima creazione» simile a quella sviluppata in ambito cristiano da Gregorio di Nissa, e peraltro non poco concordante con quanto affermato collateralmente anche dalla Gnosi e dall’esoterismo ebraico ad essa collaterale.22

Anche Filone 23 pensa insomma che la perfezione originaria dell’uomo stia in relazione con la natura intellettuale conferitagli da quell’atto di insufflazione (massimamente espresso nell’azione del Pneuma divino) che generò l’uomo nella sua stessa paradigmicità, ossia l’Adam nella sua vera pienezza (senz’altro antecedente perfino a colui che poi si fece protagonista del peccato).24

E bisogna dire che a tale proposito la riflessione del nostro pensatore anticipa decisamente la dottrina del Cristo come Uomo prototipico (almeno nella forma di possibile extrapolazione).25

Eccoci insomma davanti a quell’uomo che sicuramente è da considerare «fatto ad immagine e somiglianza di Dio».

Cosa che, come precisa Filone, non riguarda in alcun modo l’uomo come sostanza cosmica, ossia l’uomo nella sua natura immanente universale («corpo umano»).

In altre parole la somiglianza dell’uomo a Dio è totalmente incorporea, e ciò avviene proprio per la via della comune sostanza intellettuale.

Ma l’intelletto è in sé capace di una visione dall’alto (e quindi anche in generale di dominio), in virtù della quale si configura proprio una filosofia (quale «amore del sapere») che obbedisce al criterio secondo il quale tutto è fatto ad immagine, ossia insorge ed esiste esclusivamente in funzione di un modello archetipo ideale.

E proprio nel contemplare questi modelli il filosofo si trova nel contesto di una visione che è sempre abbagliamento. È davvero totale qui la convergenza con la filosofia nella sua veste integralmente platonica.26

Il che ci mostra chiaramente che, laddove Filone concede alla filosofia il suo massimo valore, lo fa chiaramente come pensatore platonico.

Ci sembra inoltre molto significativo anche l’avvaloramento filoniano di un vero e proprio «otium filosofico» in associazione alla sua interpretazione del paradigmatico riposo divino che avviene nel settimo giorno della creazione.27 

Si tratta effettivamente di un «filosofare» ed esso si presenta nella forma di un atto «atto sacro» in quanto interrompe volontariamente da qualunque attività rivolta ad «assicurarsi i mezzi di vita».

Ma più precisamente ancora si tratta di un «interrogare la coscienza» allo scopo di migliorarsi moralmente.

Quindi la conoscenza di maggior valore è qui «filosofica» nella misura in cui configura quella conoscenza etica della quale poi discuteremo più approfonditamente. Ecco insomma cos’è per Filone ciò che potremmo considerare come la vita filosofica per eccellenza.

Ma ancora una volta siamo a tale proposito lontanissimi da un’unilaterale filosofia pura. Perché ciò a cui egli sta pensando è semmai una profonda riflessione contemplativa sulla creazione del mondo, e quindi un «pensiero dell’essere» inteso in tutte le sue possibili valenze teologiche. Egli precisa anche che Mosè avrebbe definito l’oggetto di tale contemplazione filosofico-teologica come la creazione riguardante le cose del «prima» e quindi l’essere ideale quale origine ideale di ogni ente; ossia i «sigilli» o anche «modelli» quali «forme e misure» di ogni cosa.

Di nuovo appare quindi evidente che, laddove Filone avvalora maggiormente la filosofia, egli si sta rifacendo al paradigma platonico del filosofare.

Un’altra caratterizzazione positiva del filosofare possiamo ritrovarla nuovamente nella sua forma condizionata, e cioè in relazione a quanto per Filone è invece l’aspetto deteriore di questa disciplina. Si tratta dell’interpretazione della relazione tra Caino e Abele, e quindi tra l’uomo naturalmente buono e l’uomo naturalmente cattivo.28

L’uccisione di Abele avviene dopo che Caino aveva invitato l’altro a seguirlo nella «pianura».

Ma questo è per Filone da un lato il luogo della lotta per definizione («sfida» o «duello») e dall’altro lato è anche il luogo dell’esame più scrupoloso possibile di una questione.

Quindi è insieme il luogo del filosofare negativo e distruttivo (ossia la dialettica controversiale) ed anche il luogo del filosofare positivo e costruttivo.

Il nostro pensatore attribuisce ovviamente solo a quest’ultimo un oggettivo valore. E tuttavia l’intera situazione ha il suo fulcro nell’esatto contrario, e cioè nell’attitudine sofistica a schiacciare l’avversario con le armi possenti della dialettica.

Si dà il caso però che il vinto è qui l’uomo buono per definizione, e cioè Abele. Caino è invece il prototipo dell’atteggiamento contrario, ossia appunto quello sofistico e combattivo.

E quest’ultimo rappresenta per Filone solo apparentemente un filosofare autentico, dato che esso indulge (come appunto avviene per i sofisti) a lasciare che la Ragione si comprometta con i sensi.

L’esame razionale di una questione è invece il contrario esatto di questo, in quanto esso giunge al proprio scopo nel riuscire a dominare le forze irrazionali.

Tuttavia, come abbiamo visto anche per la valutazione filoniana negativa del filosofare, anche questa prospettiva trova il suo culmine in un pensiero dal chiaro e netto carattere religioso.

Filone ce ne offre un’immagine nel toccare addirittura il momento cruciale della sua esegesi scritturale.29

Egli dice infatti: − «Animo mio, se tu esamini gli scritti ispirati, che sono insieme parole di Dio e leggi di uomini cari a Dio, non sarai costretto ad accettare nulla che sia banale e indegno della loro grandezza...».

Ciò vuol dire quindi che le Scritture vanno chiarite esegeticamente proprio per via filosofica; il che deve avvenire allo scopo di non suppore ed accettare in esse cose scandalose o assurde (come invece avviene entro una lettura solo letterale). Questo apre quindi la prospettiva di una conoscenza religiosa che costituisce il culmine esattamente perché è strenuamente etica.

Siamo insomma all’esito illuminante della lotta filosofica tra buono e cattivo, che prima aveva visto come vincitore Caino in quanto prototipo del sofista.30 

Lo scenario davvero finale è infatti l’auto-distruzione di quest’ultimo, ovvero il suo vero e proprio suicidio. Infatti Caino nel suo agire persegue il contrario della virtù in quanto cerca il vantaggio per sé stesso a danno dell’altro.

Filone ci mostra che non a caso le serrate domande con le quali Dio lo stana e lo svergogna, non fanno altro che porlo davanti alla sua totale assenza di virtù. Filosoficamente questo agire viene dunque meno al principio della conoscenza come «custodia» delle cose sacre, ossia la conoscenza integralmente etica.

E Filone dice che tutto questo mette allo scoperto la natura etico-conoscitiva dei sofisti. Essi infatti parlano con convinzione di etica, ma in verità pensano a ben altro, e cioè pensano espressamente al male.

Dunque alla più imbarazzante domanda divina rivolta a Caino («cos’hai davvero fatto?»), essi, se non mentissero, potrebbero rispondere solo – ho fatto il male e non il bene!

Il che significa che in tal modo essi si danno alla mortalità; non avendo servito la conoscenza dell’Idea (cioè la Verità), ma invece appena della sua copia sensibile. Pertanto, non partecipando dell’immortalità dell’idea, essi semplicemente periscono insieme alla copia.

Convergente con tutto ciò è pertanto una delle principali virtù del filosofo, ossia la capacità di restare stabile in una conoscenza che dev’esser immutabile proprio per poter toccare l’oggetto immutabile; cosa che rappresenta il massimo delle sue aspirazioni.31

Si tratta insomma della «quiete» tipicamente filosofica.

Ma essa ricalca addirittura una delle più nobili attitudini divine, e cioè quella di un’immutabilità che secondo Filone rende impossibile pensare (interpretando così alla lettera la Scrittura a proposito del Diluvio) ad un suo «pentimento» rispetto all’antecedente creazione dell’uomo. È infatti impossibile, egli dice, pensare che «l’Immutabile muti».

E così la virtù filosofica più celebrata non è in fondo altro che una virtù sommamente filosofico-religiosa. Inoltre, siccome il mutare è tipicamente umano in quanto è un lasciarsi trascinare dai marosi del vizio, questa somma attitudine filosofico-religiosa equivale nuovamente all’eticità della conoscenza nella sua concezione più intensamente religiosa.

Una volta chiarito tutto questo non può stupire che gli aspetti deteriori del filosofare, che sono stati da noi prima illustrati – il cedere ai sensi e l’abbandonarsi all’egocentrismo violento per definizione −, recedano totalmente una volta che il filosofo sia approdato ad un pensiero integralmente religioso.

Infatti per Filone la dottrina filosofico-platonica del corpo come male in sé («massa di pelle» e perfino «cadavere» che l’anima deve trascinarsi dietro come un’immensa zavorra) può in verità risultare chiara solo a chi è «amico di Dio» e cioè al pensatore che intrattiene un’intima relazione con Dio.32

Costui, dice il nostro pensatore, è l’«iniziato ai misteri del Signore», e cioè il «filosofo» che come tale (ben diversamente dall’atleta) «ha a cuore l’anima e trascura il corpo».

Infine poi la superiorità stessa di Abele su Caino è di natura filosofico-religiosa.

Dato che solo il primo costituisce il pensatore ed uomo che «riconduce tutto a Dio» − diversamente dal pensatore ed uomo che invece «riconduce tutto a sé stesso», ossia colui che è animato unicamente dall’«amore di sé».33 

Dunque il pensatore egocentrico e solipsistico corrisponde anche esattamente al pensatore violento che prima si era delineato in relazione al superomismo.

Proprio in quanto egocentrico egli non può essere che un riduzionista − in quanto non può in alcun modo riconoscere l’essere come consistente in Dio e solo in Dio.

Il suo «pensiero dell’essere» dovrà quindi avere i caratteri tipici di quello moderno. Ebbene nel complesso Filone (riferendosi nuovamente alla «dialettica» filosofica come possibilmente negativa nella sua capacità di procurare la vittoria solo al violento) parla qui della differenza esistente tra i «forti nell’anima» (animati dall’amore) ed i «forti nella mente».

Abele è pertanto il prototipo del forte nell’anima, che senz’altro viene schiacciato dal forte nella mente.

E tuttavia, come abbiamo visto, le cose non finiscono affatto qui.

 

I-2 Intelletto e Logos

Prima di addentrarci nella questione, dobbiamo distinguere tra due aspetti del tema (Intelletto- Logos) − quello propriamente teologico-religioso, e quello invece puramente relativo alla sostanza intellettuale (in quanto Pensiero e Conoscenza).

A scopo di chiarimento disambiguante delle entità qui in causa può essere utile ricordare quanto il Reale e il Radice sostengono tentando di analizzare la dottrina filoniana.34

Essi distinguono infatti i diversi significati del Logos (così come di tutte le entità equivalenti) a seconda dei vari livelli ontologici gerarchici sui quali essi vengono posti dal pensatore – «in Dio», «in sé», «nell’uomo», «nel mondo». E dunque «in Dio» il Logos corrisponde all’essere ideale pieno, ossia il kósmos noetós, e cioè il luogo trascendente delle Idee, o anche mondo ideale.

Per la precisione tutto ciò corrisponde alla mente divina stessa (o intelletto divino) – Idea divina come «pensante» (soggetto) −, ma intanto è anche diverso da essa in quanto oggettivo (Idea divina come “pensato”), ossia è appunto il kósmos noetós nella sua pienezza ontologica.

In altre parole il Logos inteso come intelletto-mente divina (idea come pensiero «pensante» e non «pensato») va considerato «in Dio» nel senso che è identico a Dio. Come kósmos noetós esso è invece «in Dio» nel senso che è contenuto in Dio, ma è diverso da Lui.

Al livello dell’«in sé» poi (ossia il livello più proprio dell’ontologia ideale, e quindi più corrispondente al Logos come Essere e come Persona), il Logos è da intendere in senso «filosofico» − ossia «strumento» creativo (organon) di Dio, corrispondendo quindi alle idee creative impiegate dalla mente divina −, e in senso «metaforico» cioè personificato ipostaticamente in una serie di persone che nel complesso sono «immagine» o «ombra» di Dio.

E qui si potrebbe addirittura pensare ad una prima (per quanto vaga e indiretta) formulazione del concetto di Trinità.

Possiamo dunque dire che a quest’ultimo livello di essere ritroviamo un Intelletto-Logos già ben più prossimo all’effettiva sostanza intellettuale, e quindi al Pensiero o Conoscenza considerati indipendentemente dalla dimensione teologico-religiosa. Al livello superiore invece tale ultima dimensione è assolutamente dominante.

Tuttavia la più piena postulazione dell’Intelletto-Logos come sostanza intellettuale la possiamo ritrovare al livello definito dagli studiosi come «nell’uomo».

In questa sede infatti il Logos è effettivamente anima e pensiero (logos endiatétos), ossia è «principio razionale» (ragione) ed è anche parola (logos prophorikós). Quindi costituisce di fatto l’antropologia spirito-animica.

Inoltre in questa sede è anche «maestro di virtù», specialmente secondo la dinamica del  «seme» (logos spermatikós), e cioè il generatore di virtù. È infine in questa sede anche orthos logos cioè corrispondente alle leggi della natura nella loro idealità.

 

I-2.1 Intelletto- Logos dal punto di vista teologico-religioso

Mai più che in Filone viene affermato che l’intelletto coincide con un Logos inteso in primo luogo come la principale e più fedele manifestazione ipostatica dell’essenza divina. E proprio per questo esso equivale largamente al Pneuma o Spirito divino ed inoltre alla Sapienza divina, detta anche Sophia − come sottolineato da Reale e Radice (vedi nota 34).

Ma il Logos non è altro che Dio colto in quell’atto creativo che presuppone un previo disegno (il piano divino), il quale a sua volta presuppone il sussistere previo dell’intero essere nella mente divina come mondo ideale, ossia come «mondo delle idee».

Proprio per questa via (più che evidentemente platonica) la dottrina filoniana della creazione si allinea con quella che fu anche della Patristica cristiana, e cioè si presenta come l’ipotesi di una «prima creazione» (vedi nota 22).

È esattamente su questa base che Filone concepisce sostanzialmente una creazione in due tempi – prima la creazione della Materia e poi il suo ordinamento intelligibile.35

Questa è per Reale e Radice l’ «elaborazione filosofica» filoniana della dottrina della creazione. E questa è anche la sua postulazione del Logos come una sostanziale Intelligenza ordinatrice divina. Ma intanto il Logos è anche l’Idea stessa colta al suo livello divino-trascendente, ossia è sostanza intellettuale, insomma onticità ideale e ontologia coincidente con l’intelletto. In altre parole è la Sapienza fatta essere, ovvero Persona. Proprio per tale motivo esso equivale al Pneuma divino.

E naturalmente equivale anche alla Parola divina.

Tutto questo significa dunque che in Filone si ritrovano già all’inizio del I secolo d.C. (cioè ben prima che nella Patristica) tutti gli elementi per potere formulare l’idea di un Logos cristico, ed inoltre congiunti a diversi tratti di una dottrina onto-intellettualistica tanto di Dio quanto dell’uomo e del mondo.

Dio come Logos, infatti, ci dà ragione della creazione del mondo (per la via dell’ontologia ideale e per la via dell’Intelletto agente, ossia l’Intelligenza creatrice-ordinatrice) così come ci dà ragione della natura intellettuale umana, specie per mezzo dell’idea di insufflazione in esso del Pneuma divino (vedi nota 24).

Eppure però in Filone non compare affatto (come intanto stava avvenendo nella dottrina gnostica e come poi sarebbe avvenuto molto dopo in ambiente cristiano con Eckhart) l’affermazione esplicita che Dio è in primo luogo Intelletto, ossia è sostanza intellettuale – e proprio per questo motivo può venire definito come Logos.

In lui insomma Dio non coincide affatto con le Idee o anche con l’ontologia ideale (come avvenne invece in Platone ed in tutto il platonismo pre-cristiano).

È senz’altro vero che Dio, intanto, non viene equiparato da Filone nemmeno all’«essere-come-tale» (secondo la tradizione aristotelica).

Ma in ogni caso non viene visto né come le Idee stesse né come l’Intelletto stesso. Bisogna però considerare anche che (come abbiamo visto prima), al livello dell’ «in Dio» il Logos, a causa della sua strettissima intimità a Dio, approssima molto l’idea di Dio come Intelletto.

Del resto comunque Reale e Radice ci mostrano come la differenza tra Dio e Logos costituisca proprio il tratto filosofico più tipico del pensiero filoniano (vedi note 37 e 39).

Egli intende infatti il Logos come «purificazione» dell’idea di Dio dalla «tensione aporetica» che insorge in essa sul piano teologico-filosofico (ossia tensione tra teologia e filosofia).

E quindi la soluzione (sostanzialmente teologico-filosofica) a tale tensione consiste nell’ipostatizzare Dio nel suo immediatamente inferiore corrispettivo intellettuale, il Logos.

Ma questo significa ipotizzare di fatto un Dio Immanente in immediata continuità con il Dio Trascendente. Il che lascia immediatamente delineare l’immagine del Cristo.

Ecco quindi un Cristo che è Logos non in quanto sarebbe ontologicamente l’intelletto per eccellenza, ma invece in quanto è solo e soltanto il corrispettivo ontologico di un Dio che non è né Essere né Intelletto.

Ed è chiaro che qui abbiamo davanti a noi quel Dio Trascendente tipico dell’Ebraismo che la Cabbala (specie lurianica) definì come En-Sof (o Ein-Sof), ossia una presenza assolutamente indefinibile che sta radicalmente aldilà di tutto ciò che è appena il suo «volto», ossia l’interfacie da Lui offerta al mondo.36

E non a caso questo suo volto non è altro che qualcosa di molto simile al in quanto Uomo primordiale, ossia l’Adam Kadmon. Dio in tal modo è nella sua ultima essenza solo e soltanto profondo mistero. E pertanto la sua sostanza è radicalmente diversa da qualunque grado di ontologia. Risulta abbastanza chiaro che una tale formulazione della realtà divina diverge totalmente sia da quella ellenica che da quella cristiana. Proprio per questo essa non è né essere né pura sostanza intellettuale.

Potremmo dire insomma che in Filone Dio è Intelletto solo nella misura in cui di fatto viene colto da noi come il Logos.

Il che non intende però essere affatto un’affermazione circa l’essenza divina. Inoltre è evidente che (almeno sulla base di quanto dicono il Reale ed il Radice) la postulazione del Logos (e quindi di qualcosa di molto simile al Cristo) obbedisce qui ad una necessità puramente teologico-filosofica. Essa insomma non corrisponde ad alcuna esplicita affermazione scritturale – Filone si rifà infatti alle Scritture unicamente ebraiche, nelle quali ovviamente non vi è alcuna menzione del Cristo.

Diverso è però il discorso se viene svolto dal punto di vista cristiano. Dato che Gesù Cristo stesso sottolineò più volte di essere stato annunciato nel Nuovo Testamento specie nei libri profetici. Tuttavia oltre a ciò bisogna anche tener conto dell’elemento centrale della rilettura filoniana delle Scritture ebraiche.

Esso consiste infatti proprio per porre in evidenza la natura di «intelletto» (e quindi di Logos) di tutte le principali figure (umane e sovrumane) che in esse compaiono. E tale equiparazione giunge del resto (specie nel Genesi) fin quasi al livello divino, dato che il equivale al «Pneuma» ed alla Sapienza. Perciò in tale contesto assumono un rilievo particolare libri come il Genesi e quello della Sapienza.

E si può quindi presumere che – almeno attenendosi all’esegesi filoniana − proprio in essi (sebbene in maniera non esplicite e nemmeno volontaria) sia stato prefigurato il Logos cristico.

Una volta discusse le premesse possiamo ora passare all’indagine testuale relativa a all’Intelletto- Logos inteso nella sua dimensione puramente religiosa.

Tuttavia prima di entrare nel merito dei testi filoniani conviene esaminare le conclusioni che Reale e Radice traggono dalla loro intera analisi della visione del pensatore.37  

Formulando uno schema nel quale il Logos esprime l’«unità funzionale» (e quindi dinamica) esistente in Dio tra le varie Sue manifestazioni ipostatiche, gli autori ci mostrano nel Logos stesso il «minimo comun denominatore» di tutto ciò che è divino, e cioè la sostanza divina sommamente unitaria.

Il Logos può venire quindi considerato come la sostanza divina colta nella sua assolutamente sublime e indicibile concentrazione.

Inoltre, dicono gli studiosi, questo schema equivale ai due criteri filosofico-metafisici portanti dell’intera visione filoniana (secondo i suoi presupposti platonici) – 1) la dinamica uno-molti; 2) la dinamica trascendente-immanente.

Ora, il primo criterio sottolinea la primarietà dell’unità divina in relazione alle solo secondarie manifestazioni.

Il secondo criterio sottolinea invece che l’essenza divina è e resta solo trascendente, nel mentre solo la potenza (attività) può essere immanente.

Questo significa insomma che, nel mentre amorosamente crea, Dio resta dov’è, e soprattutto resta ciò che è. Ma in termini metafisico-religiosi ciò non equivale ad altro che al mistero più centrale della figura di Gesù Cristo, ossia il Logos cristico.

Egli è infatti dio-uomo per eccellenza (del tutto simultaneamente Gesù e Cristo) proprio perché resta nella sua eternità nello stesso tempo in cui si incarna nel tempo e nella storia. E questo viene sottolineato con molta forza dal Guardini.38

Dunque ciò che ci era sembrato obbedire ad una necessità puramente teologico-filosofica – cosa che qui i due studiosi confermano, affermando che il concetto di Logos permette a Filone di conservare la trascendenza divina senza intanto escluderla dal discorso filosofico (entro il quale cadrebbe vittima di troppe aporie) −, è invece espressione di una pura necessità metafisico-religiosa.

In altre parole ciò che del Logos filoniano sembra essere (secondo Reale e Radice) un mero artificio metodologico, è invece quanto ci restituisce la più piena oggettività dell’effettiva entità metafisico-religiosamente concepita, e cioè qualcosa di (affatto a caso) molto sovrapponibile al Logos cristico.

Precisato questo, possiamo quindi anche essere d’accordo con il fatto (sottolineato dai due studiosi) che il Logos rappresenta esclusivamente il «Dio potenza» invece del «Dio essenza». Sebbene comunque (per mezzo dell’«unità funzionale» configurata dal Logos) esso rinvii senz’altro a quest’ultimo. Tutto ciò trova del resto fedele espressione del De mutatione nominum, laddove Filone distingue tra «Dio» e «Signore» precisando che comunque nessuna delle due denominazioni esprime il Dio Trascendente.39

In altre parole il Logos non è altro che un modo per potere cogliere (e sviluppare argomentativamente sul piano del discorso filosofico) quel Dio Trascendente, che in sé (quale pura Essenza) potrebbe venire raggiunto solo apofaticamente, e cioè aldilà di qualunque discorso filosofico. In questo modo, però, ancora una volta noi non stiamo parlando di altro se non di Gesù Cristo – sebbene anche solo oggettivamente, e cioè del tutto al di fuori delle intenzioni di Filone.

Ma passiamo ora ai testi del pensatore stesso.

Un primo spunto può venire ritrovato in tal senso a proposito della creazione dell’uomo dal fango.40

Entro il racconto del Genesi la dimensione del fango risale all’impregnazione acquatica della terra che Dio realizza dopo il ritirarsi delle acque (secondo giorno); momento estremamente critico in quanto rischia di compromettere quella fertilità della terra che è il principale effetto benefico prodotto dallo spirito divino.41

Esiste però anche il rischio opposto, e cioè quello di un’incontrollata ed illimitata acquificazione della terra, che produrrebbe egualmente infertilità.

L’intero processo sembra insomma voler porre in evidenza l’obbedire della creazione al criterio dell’umidità terrestre diffusa come principio di fertilità.

È dunque per questa via che si giunge alla creazione dell’uomo dal fango; la quale si colloca quindi entro la dimensione generale della fertilità dell’intero essere. Ma mai più che qui l’uomo è prossimo alla dimensione terrestre.

Ed infatti Filone sottolinea che questa creazione (Gen. 2) è successiva a quella originaria e più autentica (Gen. 1), ossia quella entro la quale l’uomo venne creato «ad immagine» di Dio quale ente intellettuale (per mezzo dell’insufflazione del«Pneuma»).

Dunque l’uomo creato dal fango è appena un «secondo uomo», e cioè appena l’uomo naturale o uomo sensibile o uomo terreno. Il nostro pensatore precisa che si tratta dell’uomo«plasmato», e quindi dell’uomo mortale.

L’altro invece era immortale in quanto partecipava direttamente della sostanza ideale ossia dell’intelligibile divino. Anzi, dice Filone, esso era letteralmente l’Idea («è un’idea»).

Ecco allora che il «primo uomo» costituisce la stessa idea di Uomo, ossia il Logos-Uomo, e quindi l’Uomo prototipico.

Pertanto l’uomo sensibile (quale fango sul quale agisce la creazione divina) non ha nulla a che fare con questo ben più autentico Uomo originario. Si tratta insomma della differenza tra l’«anima-come–spirito» e l’«anima-come-corpo».

Ebbene (per quanto al proposito si debbano considerare molti altri elementi) in tal modo sembra che l’«Adam» non sia affatto l’uomo della prima creazione, ma invece appena il secondo, ossia l’uomo sensibile e fatto di terra.

Viene quindi il sospetto che il primo uomo non sia in verità altro che il Logos stesso in quanto Uomo, ossia ancora una volta il Logos cristico, e quindi un Uomo integralmente divino.

Ed infatti quest’ultimo può corrispondere molto bene a quanto Filone ci mostra essere il Logos «nell’uomo»; cioè l’animicità in quanto ragione e parola, ed infine anche la stessa antropologia spirito-animica ed intellettuale.

Con tale formulazione anche il nostro pensatore, così come quelli cristiani, vede dietro tutto questo la presenza del Logos divino stesso.

Vi è da fare però un’importante precisazione che differenzia piuttosto nettamente la visione filoniana da quella cristiana del Logos divino ipostatizzato come Dio Immanente. E lo spunto ci viene dall’esegesi dell’Esodo in relazione alla caduta della manna come «cibo celeste».42

Tale evento è a sua volta collegato alla dimensione della «pioggia» (e della«rugiada») come benefica discesa dell’intelletto sulla dimensione umano-terrena e sensibile.

In particolare si tratta qui di un intelletto divino-celeste che impone la misura ed il limite all’intelletto immanente coinvolto nei sensi, e quindi quello fatalmente contagiato dalla forza del desiderio, ossia l’avidità.

La manna è la scienza in quanto pane e parola, ossia è il Logos stesso.

E l’evento portentoso da esso realizzato nel deserto sta poi per la consolazione divina nella prova (esemplificata al massimo dall’esposizione alla penuria di beni vitali come il cibo) per mezzo di una conoscenza superiore.

È proprio su questa base, quindi, che, passando di prova in prova, i «perfetti» finiscono poco a poco per nutrirsi solo della Parola, ossia del Logos divino, il pane celeste e spirituale. Ma, precisa Filone, questo Logos-Parola è in primo luogo un messaggero di Dio, o Angelo, in quanto annuncia Colui che è il vero donatore.

Quindi nel pensiero del nostro il Logos in veste di Dio Immanente non è propriamente il Cristo, bensì invece proprio l’Angelo. Possiamo così ipotizzare che nella metafisica religiosa ebraica l’Angelo- Logos sia in qualche modo l’equivalente del Cristo-Logos nella metafisica religiosa cristiana.

A conclusione di questo esame ci resta solo da ricordare (anticipando un punto da noi trattato più avanti) che ritroveremo la definizione più piena di filosofia religiosa allorquando parleremo di Mosè come il vero e proprio paradigma dei filosofi (e ciò avverrà nel contesto della discussione dell’idea filoniana di conoscenza).

 

I-2.2 L’Intelletto-Logos come sostanza intellettuale

Abbiamo accennato al fatto che in Filone non si ritrova un intellettualismo esasperato com’è quello di stampo gnostico-platonico, a sua volta incentrato sulla piena onticità dell’intelletto ossia sostanziale «onto-intellettualità» di tutto l’essere. E tuttavia non si può dire che molti suoi concetti non si approssimino a questa dottrina (sebbene alla lontana).

Ne possiamo avere la prova al cospetto dell’esposizione (da parte di Reale e Radice) di alcune delle caratteristiche del Pneuma in quanto Spirito ed anche Intelletto.43

Il «Pneuma» infatti non solo dà origine all’essere ma anche lo perpetua, costituendo così una forza che ne induce la persistenza in vari modi:

1) come cemento dinamico del cosmo (coesione);

2) come ri-iniziatore (rigeneratore) continuo dopo ogni fine, ovvero creatore perpetuo;

3) come causa della dinamica fluente corporea («pneuma arterioso»);

4) come sostanza psichica nel suo dinamismo (anima-intelletto);

5) come trasferimento ipostatico all’uomo della conoscenza etica innata divina (per mezzo dell’insufflazione).

Si delineano qui chiaramente diverse realtà metafisiche che senz’altro sono poi diventate parte integrante dell’ontologia divina cristiana (specie quella trinitaria) – creazione continua, resurrezione, esondazione, effusione, onto-dinamismo, continuità tra trascendente ed immanente. Ma soprattutto si delinea un veemente dinamismo che sta in diretta relazione con la sottigliezza ontica dello Spirito divino.

Il quale appunto è fatto in modo tale da non poter incontrare ostacoli di sorta (nel suo procedere) in alcun ente immanente. Insomma in tutti questi casi siamo davanti a qualcosa che da Dio trasla continuamente verso il cosmo-uomo. E la conseguenza di ciò è l’inglobamento in sé di tutto ciò che lo Spirito incontra.

Ebbene questa sottigliezza ontica è esattamente quanto connota di sé anche l’essere inteso «onto-intellettualisticamente»; ossia appunto come purissimo spirito in quanto sostanza intellettuale che diverge totalmente dalla sostanza non-intellettuale, e cioè quella ben più prossima alla materia mondana.

Più importante di tale similitudine è però quanto è constatabile a proposito della (già discussa) motivazione principale della creazione, e cioè l’amore divino in quanto incondizionata libertà.

Il Reale e il Radice sottolineano tale aspetto a proposito delle «Potenze» quali aspetti del Logos.44

Proprio in relazione a questo va constatato che il Dio di Filone è pienamente ontologico-personale, e non invece un astratto Principio ideale.

In particolare Egli è «essere» soprattutto per il fatto che è «tutto-l’essere», cosa per cui nulla si aggiunge né più aggiungersi a Lui.

Ne consegue pertanto che nessuna entità (inclusa l’Idea) può essere pari o superiore a Lui. Quindi in questo senso Dio non coincide affatto con la sostanza intellettuale intesa in senso rigorosamente «onto-intellettualistico».

E pertanto in questo senso per Filone Dio non è affatto intelletto!

E ciò viene confermato laddove i due autori discutono l’antropologia deducibile dalla visione filoniana.45

Infatti a loro avviso la grande differenza esistente tra l’antropologia filoniana e quella ellenica si misura nella radicale superiorità dello spirito rispetto a quel’anima-intelletto che per i greci (specie per Platone) è invece espressione della sostanza intellettuale nella sua pienezza.

Ed è un fatto che proprio poc’anzi avevamo visto che per l’onto-intellettualismo spirito ed intelletto sono una ed una sola cosa.

Ma la dottrina genetica dell’insufflazione divina dello spirito nell’uomo revoca totalmente l’assolutezza ontologica della sostanza intellettuale umana; specie in quanto essa si pone alla radice del suo valore e quindi anche della dignità dell’uomo come ente intellettuale. Per i greci invece l’uomo è come tale degno di per sé, senza che nulla e nessuno (meno che mai la divinità) lo stabilisca in questo status ontologico.

Tanto è vero che in Plotino (dottrina della «non-discesa» dell’anima) verrà postulata la continuità ininterrotta tra l’animicità umana e quel Nous che è divino in assenza di qualunque divinità personale trascendente.

Non a caso, come poi vedremo, Filone sottolinea spesso la grande differenza da stabilire tra l’intelletto incorruttibile (celeste, divino, trascendente, incorporeo e intelligibile) e l’intelletto invece corruttibile (terreno, umano, immanente, corporeo e sensibile).

Ecco quindi che viene meno uno dei capisaldi di una dottrina dell’intelletto quale spirito, che in verità si è prolungata fin nel pieno della filosofia moderna – essa presuppone infatti che l’intelletto umano sarebbe appunto incorporeo per definizione (esattamente come lo spirito), e quindi configura una sfera di essere radicalmente diversa da quella sensibile. Proprio su questa base sono insorte (da Cartesio in poi) le prese di posizione tipiche dell’idealismo.

In ogni caso i due studiosi sottolineano il fatto che su questa base risulta revocata anche quell’etica socratica che fu incentrata proprio sull’equivalenza tra uomo e sostanza intellettuale, ossia l’«intellettualismo socratico» (postulante l’ignoranza come male).

È pertanto evidente che anche questa dottrina (tipicamente platonica) ricade in realtà nella vasta sfera di idee che è propria dell’«onto-intellettualismo».

Ma, passando ora ai testi filoniani, è evidente che il pensatore attribuisce comunque un’importanza decisiva all’intelletto nell’economia cosmica. Ciò appare evidente già nel racconto della creazione, laddove gli astri vengono secondo lui presentati non solo come intelletti celesti viventi ma anche come la radice stessa dell’intellettualità umana.46

Ciò risale all’immagine dell’astro (con massima espressione nel sole) come fonte luminosa, e quindi come presupposto di una conoscenza che in sé si compie sempre nel contesto dell’illuminazione di ciò che è nascosto.

E peraltro lo stesso intelletto umano radicalmente originario, ossia quello del primo uomo-maschio (Adamo), viene considerato in sé superiore (in quanto celeste, spirituale e intelligibile) a quello invece carnale, mondano e sensibile che è del primo uomo-femmina (Eva).47

L’intera vicenda del successo ottenuto dal Serpente (proprio per mezzo della seduzione della donna) trova per Filone la sua spiegazione in questa differenza.

In Legum allegoriae questa dottrina viene precisata ulteriormente nel mostrare che il compimento del cielo e della terra (Gen 2,1) equivale alla creazione sul piano delle idee (mondo ideale) del «cielo» quale «idea d’intelletto» (l’intelletto incorporeo) e della «terra» quale «idea di sensazione» (intelletto corporeo).48

Queste idee sono inoltre entrambe totalità ontologiche, ossia modi dell’essere ideale:

1) l’intelletto come insieme delle realtà intelligibili (cose intelligibili);

2) la sensazione come insieme degli esseri corporei e dei «sensibili» (cose sensibili), ma ancora posti sul piano dell’essere ideale.

È evidente a questo punto che quello sensibile-corporeo è una sorta di sub-intelletto, ossia una realtà che ha perso già quasi del tutto le sue caratteristiche trascendenti.

Quindi già non è più «spirito» ma è invece «materia», o almeno tende fortemente ad essa.

E pertanto esso già non è più «idea» ma è invece «cosa» − o almeno rientra anch’esso nella sfera dei sensibili. Si potrebbe dire quindi che tutto ciò corrisponde alla psiche umana, così come viene concepita dai naturalisti.

Tale complessivo disegno corrisponde poi inevitabilmente a tutto quanto Filone continuamente ribadisce della differenza esistente tra la sfera di essere maschile (ideale-intellettuale-spirituale) e la sfera di essere femminile (cosale-sensibile-materiale).

Ma del resto proprio a tale proposito possiamo comprendere cos’è esattamente l’intelletto per Filone.49

Infatti, quale Principio di generazione delle Idee (ossia Idea delle idee) – in quanto in generale Principio di ogni genere di essere −, il Logos risulta in tal modo costituire ben più che l’intelletto. Comprendiamo quindi meglio il senso della sua quasi totale equiparazione allo Spirito. Ancora una volta insomma l’«onto-intellettualità» si rivela essere per Filone del tutto secondaria. Alcuni suoi caratteri onto-genetici vanno quindi trasferiti al solo Logos.

È solo esso infatti quella stabilità ontologica ideale radicalmente incorporea (di fatto la stessa oggettualità pre-costituita trascendentemente), in funzione della quale soltanto (secondo il nostro pensatore) è realmente possibile comprendere l’insorgere dell’essere.

Tale insorgenza risulta invece del tutto imperscrutabile partendo dalla fine invece che dall’origine, ossia partendo dall’«esistente».

Eccoci dunque davanti al Logos come l’«in principio» stesso nella sua pienezza, ossia come il luogo trascendente di una creazione previa del Tutto (il mondo ideale) che sta totalmente al di fuori del tempo. Quanto abbiamo detto significa allora che tale sfera di concetti, se è senz’altro in perfetta sintonia con il platonismo, non deve invece affatto stare in sintonia con l’«onto-intellettualismo» di stampo gnostico.

E dunque si può dire che ci troviamo con essa nel contesto di una dottrina che è ben più teologico-metafisica che non invece filosofica.

Si tratta però di una dimensione teologico-metafisica che non ha alcun bisogno di ricadere nei limiti di quella classica teologia razionale di stampo cristiano.

Quest’ultima infatti è senz’altro «filosofica» solo in quanto è anti-platonica, e pertanto è anche radicalmente anti-idealista (ma sensu strictu, ossia nel senso di negazione all’Idea di qualunque onticità) nel mentre è dogmaticamente realista.

Del significato di questo «in principio» Filone ci dà la misura nella stessa opera (Legum allegoriae) precisando la relazione esistente nel Genesi (Gen, 2, 4-5) tra intelletto (pensiero, conoscenza) e sensazione (percezione) nel contesto di un «prima» simbolicamente espresso dal rapporto stabilito tra «verde del campo» ed «erba».

Qui si parla del fatto che (in questa fase della creazione) Dio non aveva ancora fatto piovere e quindi non c’era ancora nessuno che lavorasse la terra.

E ciò viene interpretato da Filone come la presentazione di un’ontologia radicalmente originaria proprio in quanto ideale e antecedente qualunque temporalità. Essa corrisponde insomma pienamente all’«in principio».

Non a caso qui la relazione tra intelletto e sensazione, ossia tra conoscenza soggettuale ed oggetto, si trova nella sua pienezza originaria in quanto essa non conosce ancora alcuna mediazione. E proprio a questo si riferisce l’immagine di un campo non ancora lavorato.

Infatti non vi è ancora alcuna distanza tra i due poli della relazione soggetto-oggetto – anzi non esistono ancora né soggetto né oggetto.

Quando invece finalmente pioverà, accadrà che l’intelletto (calando esso ormai solo dall’alto, e non stando più invece sullo stesso piano dell’oggetto conoscibile) si troverà davanti l’oggetto che resta ancora da cogliere per mezzo dei sensi. E qui insorgerà inevitabilmente quella condizione ordinaria della conoscenza, nella quale l’intelletto viene impressionato passivamente dalla sensazione.

Tutto ciò non avviene quando ci troviamo ancora sul piano di un intelletto che sia integralmente Logos. È dunque anche in questo senso che il Logos (quale «idea di intelletto») funge da «archetipo» dell’«intelletto individuale e particolare» ossia di fatto dell’intelletto immanente.

In tal modo qui come non mai l’intelletto sta in relazione in primo luogo con un oggetto intelligibile; il quale non a caso è totale nella sua forma «in sé» (ossia insieme della molteplicità). Questo è il «verde» in quanto tutto conoscibile.

È pertanto solo decadendo da questo assetto ideale, che si profila la relazione tra intelletto ed intelligibile particolare, ossia l’«erba» (cioè le cose sensibili nella loro singolarità).

In termini più precisamente filosofici tutto ciò corrisponde per Filone ad un tutto onto-ideale che altro non è se non il «genere» ossia il potenziale oggetto conoscibile colto ancora nel puro stato di «conosciuto» e/o «pensato».

Eccoci allora di fronte al mondo di oggettualità cosali che sussiste molto prima del divenire sensibile (e come tale venire colto).

Inutile dire che – con tutti gli elementi ora presentati − ci troviamo già nel contesto di una riflessione conoscitivo-teoretica. Viene infatti esposta una dottrina in cui si prevede una teoria della conoscenza superiore, quale potenzialità ideale dalla quale scaturisce la teoria della conoscenza reale, ordinaria e inferiore.

Solo in quest’ultima infatti la molteplicità cosale totale si scinde frantumandosi in quella «molteplicità di apparizioni» di uno stesso oggetto, che la moderna teoria della conoscenza ha formulato come un aspetto funzionale fondamentale.

La perfezione della condizione conoscitiva originaria viene poi ulteriormente esplicitata da Filone per mezzo di un’altra metafora immaginifica biblica, e cioè quella in cui viene mostrata una fonte che irrigava la faccia della terra (Gen, 2, 6).

Di nuovo intelletto (fonte) e sensazione (faccia) sono ad immediato contatto tra essi in quanto si trovano sullo stesso piano. Ma accade anche che, nell’irrigare le sensazioni (in un atto molto simile a quello che la moderna Fenomenologia ci ha indicato come «costituzione»), l’intelletto dà vita alle cose (colte dalla sensazione), ossia le fa emergere dall’indistinto.

Di nuovo, insomma, stiamo così anticipando ciò che diremo poi a proposito della conoscenza.

Ma con ciò emerge una questione che è stata intensamente dibattuta entro quella metafisica religiosa che più direttamente si rifà all’«onto-intellettualismo», e cioè quella dell’ipotetico sussistere di un’oggettualità sempre già data per l’intelletto in atto.

Schuon ha affermato con forza che ciò avviene senz’altro; e cioè che quando l’intelletto è attivo, esso entra anche sempre in relazione con un’oggettualità indubitabile nel suo sussistere (per quanto essa possa essere lontana dall’esperienza).50

In tal modo emerge quindi un’onto-intellettualismo davvero radicale, in quanto esso assume una posizione radicalmente idealistica – la semplice presenza di un soggetto implica infatti la presenza di un oggetto, che invece non sussiste affatto in assenza del soggetto.

Ma quanto ci viene mostrato da Filone configura una situazione sensibilmente diversa (sebbene magari a prima vista simile).

Egli ci parla infatti di una situazione in cui l’atto di «costituzione» (dell’oggetto da parte del soggetto) in tanto sussiste in quanto sta davvero nella sua pienezza, che è unicamente trascendente e originaria. Solo in questo caso insorge infatti una vera e propria triade intelletto-sensazione-sensibile (cosa) che non conosce alcuna discontinuità.

Questo però è solo un modo per dare un volto filosofico-metafisico alla generazione divina di un mondo di cose. Ed è esattamente quest’ultimo ciò di fronte a cui si trova l’intelletto immanente (una volta che la perfetta continuità originaria si è dissolta).

In la situazione decaduta, esso dunque non può che girare a vuoto in assenza di un mondo cosale che è «esteriore» (al soggetto ed alla coscienza) proprio in quanto per esistere attende di venire creato. Ciò di cui parla Schuon non è quindiaffatto valido su questo piano meramente immanente. E quindi la conoscenza certa di un oggetto pienamente metafisico (com’è Dio) non è in verità affatto accessibile all’uomo naturaliter (come lui sostiene).

Ma (come poi vedremo) non è valido nemmeno ciò di cui parla la moderna teoria della conoscenza per mezzo della «costituzione» (sempre idealistica per definizione) − nessun intelletto immanente (in quanto soggetto e coscienza) è infatti davvero in grado di far esistere un’oggettualità esteriore.

E quindi, se proprio si vuole affermare questo, bisogna essere ben consapevoli che la «costituzione» va intesa in senso puramente metaforico − ciò nel senso che l’oggetto di delinea nella sua totalità solo quando le molteplici sensazioni (ossia le sue «apparizioni») siano state organizzate ed unite in una «rappresentazione» cosciente.

Ecco allora che, entro la prospettiva aperta da Filone, bisogna postulare semmai un idealismo che resta in un sobrio equilibrio con un molto moderato realismo (ossia un «idealismo realista»).51

Nello stesso tempo però non è mai possibile postulare un estremistico e dogmatico realismo come quello che nega all’idea qualunque potere costitutivo nei confronti della cosa.

Il moderato realismo di cui parliamo qui è comunque quello tipico della metafisica religiosa di ogni tempo, ossia quella che condiziona l’esistere delle cose alla loro creazione.

A questo punto va solo ricordato che l’intelletto immanente e naturale (e quindi corporeo e sensibile) non è per Filone altro che quello proprio dell’uomo “plasmato” dal fango. Ed esso non risolve dunque affatto in sé la sostanza intellettuale nella sua pienezza e totalità. Anzi non ne rappresenta che una parte molto marginale.

Per essere davvero completa, la totalità della sostanza intellettuale esige infatti la presa in considerazione anche (e soprattutto) dell’intelletto trascendente e sovrannaturale.

Con l’intelletto immanente ci troviamo pertanto di fronte a quello «fatto di terra» e quindi plasmato e non «creato». Ed esso corrisponde sì all’animicità, ma affatto all’ «anima vivente».

La quale in verità non è altro che spirito.

Vedremo poi a proposito della conoscenza che, per la via dell’intelletto immanente, è del tutto impossibile la conoscenza nella sua pienezza in termini religiosi. Ossia non è possibile quella conoscenza di Dio che può essere solo etica, e quindi può sussistere solo quando l’intelletto naturale si sia elevato dallo stato naturale che carnalmente e terrenamente gli è proprio (senza che ciò configuri affatto un dono divino).

L’intelletto donato da Dio è infatti solo quello che è ontologicamente alieno all’uomo naturale, ossia quello insufflato. L’altro intelletto, ossia quello naturale, è appena quello del «secondo uomo», cioè di Adamo. Esso infatti (come poi vedremo) non possiede affatto la pienezza conoscenza etica.52

E senza tale pienezza (ovvero la piena conoscenza del Bene) l’uomo non può in alcun modo accostarsi conoscitivamente a Dio. Ciò che egli coglierà, sarà infatti sempre solo qualcosa di illusorio in quanto molto lontano da Dio.

A tale complessivo proposito è poi deducibile da Filone un’altra serie di importanti significati della secondarietà e deteriorità dell’intelletto immanente, e cioè quelli relativi all’egocentrismo solipsista come suo carattere tipico.53

Il tema biblico è qui quello della nascita di Eva dalla costola di Adamo, e quindi quello in cui si postula la necessità di un  «aiuto» per l’uomo.

Ebbene tale problematica ha per lui un risvolto in primo luogo conoscitivo, in quanto rinvia a quel bisogno dal quale l’uomo è per natura afflitto − e che (in termini teoretico-conoscitivi) si esprime anche nella vuotezza della conoscenza in assenza di un oggetto sensibile.

Ma la condizione conoscitiva immanente comporta anche la soluzione più sfavorevole (almeno sul piano etico) a questa tragica ma intanto fisiologica carenza.

Nell’essere vincolato alle sensazioni, l’intelletto umano soggiace infatti in definitiva anche alle passioni dei sensi e relativi vizi. Per cui la soluzione ideale starebbe in un’intellettualità che invece sfugge a tale condizione-capestro.

È in questo senso che l’intelletto stesso deve venire considerato come l’«aiuto» offerto all’uomo.

Sta di fatto che però l’assetto ideale e perfetto di tale condizione è solo di quel Dio Trascendente che, in quanto «Monade», per definizione non ha bisogno di nulla.

Ed è dunque in prossimità della sua specifica onticità che si può ritrovare l’intelletto davvero nella sua pienezza − ossia l’intelletto che si giova dell’«aiuto» dei sensi senza correre i pericoli che esso comporta. E in tal modo ci ritroviamo nuovamente nel contesto di quella perfetta continuità intelletto-sensazione-sensibile (cosa) della quale prima abbiamo parlato.

Ecco dunque di nuovo emergere il primato dell’uomo (in quanto ontologia intellettuale) «ad immagine» invece che «plasmato».

Ma ciò pone in evidenza anche un ruolo fondante dell’intelletto originario e sovrannaturale (trascendente) rispetto a quello storico e naturale (immanente).

Il principio, dice Filone, è quello del primato (entro la realtà umana) di ciò che è «è più vecchio» rispetto a ciò che è «più giovane».

E ciò spiega quindi anche la secondarietà etico-ontologica della donna (sensi) rispetto all’uomo – essa corrisponde infatti a quanto è «più giovane» (infatti è venuta solo dopo Adamo) e quindi è più lontano dall’origine.

Solo all’origine si ritrova quindi quell’intellettualità che può essere davvero fondante – il vedere che è presupposto nella vista.

Ecco allora che ancora una volta la dimensione dell’«aiuto» ci rinvia all’incondizionatezza originaria dell’atto intellettuale.

Infatti esso in principio non ha bisogno di un oggetto, e quindi non configura mai affatto un soggetto separato dall’oggetto; secondo la dinamica potenza-atto, e quindi in obbedienza ad una discrepanza che richiede sempre molto sforzo per venire superata. Vedremo ulteriori aspetti di questa problematica a proposito della conoscenza.

La superiorità dell’ontologia intellettuale originaria viene sancita da Filone anche mostrandoci il perché del «nascondersi» dell’uomo davanti all’occhio di Dio dal momento in cui esso è decaduto ad una condizione conoscitiva inferiore.54

Gli alberi del Giardino, dietro i quali Adamo ed Eva tentano invano di nascondersi, rappresentano infatti proprio quell’intelletto immanente che l’uomo decaduto ritiene essere erroneamente la causa di tutto (come poi vedremo, essi sono«piante pensanti»).

Ed ecco profilarsi di nuovo quel solipsismo che è poi tipico dell’idealismo filosofico – esso infatti tende ad intendere la «costituzione» in senso letterale (e non invece metaforico), ossia come un’effettiva generazione dell’oggetto da parte della coscienza conoscente.

Nel De cherubim si aggiungono poi a tutto questo ulteriori importanti significati; che peraltro vanno anche ad integrare quanto abbiamo detto sul Logos.55

Qui Filone si sforza infatti di farci correttamente intendere l’immagine (secondo lui solo apparentemente terrifica) del Cherubino con la spada fiammeggiante e roteante che sbarra all’uomo la strada del ritorno all’Eden.

E il nucleo dell’argomentazione sta tutto nella valenza insieme salvifica e dannante dell’intelletto − a seconda del fatto che esso si conformi alla sua natura trascendente o meno.

La scelta di Adamo è stata quella di darsi ad una «follia» dell’intelletto che coincide tutta con l’immanenza sensibile di quest’ultimo, e quindi con il suo scadere nell’irrazionalità di fatto.

Ed infatti proprio qui Filone parla di quest’ultima come la tipica conoscenza sofistica, o anche come la tipica scienza della Natura. Tutto ciò rappresenta insomma una rinuncia dell’intelletto a sé stesso.

Dunque la cacciata dall’Eden non è affatto un atto malvagio, ma è invece solo logico e consequenziale rispetto alle scelte umane.

Si potrebbe dire insomma che l’uomo stesso ha voluto escludersi dalla condizione intellettuale perfetta della quale godeva. Ebbene la soluzione sta qui proprio nel Logos in quanto suprema unificazione di conoscenza, che è poi anche ascesa verticale verso Dio. Riprenderemo il tema a proposito della conoscenza.

Ma intanto possiamo dire che il Logos si presenta in tale contesto come la compresenza di quelle due «Potenze» divine che sono i Cherubini stessi; e che rappresentano i due fondamentali aspetti della natura divina, ossia Amore e Misericordia.

Eccoci dunque davanti ad una delle più pregnanti definizioni filoniane del Logos – esso è ciò che sorpassa tutte le cose, e quindi «sta prima di tutte le cose e al di sopra di esse si manifesta».

La soluzione procurata dall’intelletto salvifico è quindi quella dell’unificazione ascendente degli oggetti di conoscenza.

Ma ciò implica per l’uomo anche un doloroso e quasi impossibile distacco, che viene perfettamente simboleggiato dalla spada quale agente separante – occorre infatti mortificare la «nuda intelligenza» legata alle passioni, e quindi è necessario esporsi alla netta cesura procurata dalla spada. Però questo è quanto è capace di fare solo l’uomo terreno interamente devoto a Dio.

L’altro uomo terreno, invece, cioè quello totalmente immerso nei soli sensi (che ciò avvenga solo conoscitivamente o anche carnalmente) è del tutto incapace di questo atto di salvifico distacco.

E con ciò dunque nuovamente il filosofo viene condannato severamente insieme all’uomo comune.

 

I-3 La conoscenza in quanto etica. Teoria della conoscenza

Dottrinariamente il prototipo dell’intelletto come conoscenza è ancora una volta un’entità affine al Logos, e cioè la Sapienza o Sophia. Reale e Radice ne sottolineano la contemporanea valenza cosmopoietica (intermedio per la creazione del mondo attraverso le idee divine) e conoscitiva in relazione al loro primario oggetto rappresentato da Dio stesso.56

La Sapienza stessa rende infatti visibile Dio in quanto «immagine di Dio e visione di Dio». L’intermediazione di questo livello di ontologico è pertanto indispensabile per quella che noi abbiamo sempre definito come «conoscenza intellettuale dell’Assoluto divino» (CIAD). Tale trascendente e suprema ontologia del conoscere si pone quindi ovviamente «a fondamento della conoscenza umana» in quanto «luce noetica».

In altre parole la conoscenza di Dio è per Filone il fondamento di qualunque conoscere.

Ma già qui inizia a vigere un fondamentale condizionamento modale, e cioè il fatto che la Sapienza è ed agisce in questo modo perché essa è la «fonte» di tutte le virtù. Essa fonda insomma la conoscenza nella sua natura primariamente etica.

È forse proprio in questo senso che Filone pare considerarla Madre delLogos e quindi addirittura antecedente ad esso sul piano divino.

In ogni caso la sua natura gnoseologica è analoga a quella della ben nota ambiguità tra Ragione e Parola. Ed è ben noto anche che entrambe hanno (proprio come la Sapienza) una funzione cosmopoietica, ossia sono radici di onto-generazione

Per i due studiosi, comunque, tutto ciò ci riconduce in primo luogo al Libro della Sapienza, specie laddove (8, 1-4) Salomone dichiara la Sapienza sua sposa e beltà di cui è innamorato.

Eccoci insomma alla Sophia in quanto donna divina; tema al quale abbiamo dedicato un’approfondita riflessione specifica (già menzionata). È comunque a prima vista evidente che in tal modo si sta parlando della filosofia stessa.

Una valenza sovrapponibile hanno poi le entità divino-spirituali ipostatiche che Filone pone allo stesso livello ontologico della Sapienza, ossia gli Angeli.57

Anche essi sono di natura gnoseologica, essendo i «pensieri divini» stessi.

E quindi coerentemente compaiono «nell’uomo» come entità della mente e dell’anima; precisamente entità gnoseologiche (coscienza) e religiose (mediatori uomo-dio). Per mezzo di Angeli insomma la CIAD assuma una dimensione più che altro discensiva.

Infine anche a livello del «Pneuma»si ritrova la presenza ipostatica della facoltà conoscitiva divina nella forma di sostanza spirituale dalle due valenze congiunte, entrambe intimamente connesse all’etica − gnoseologica (conoscenza del bene) e religiosa (stato profetico ovvero «estasi»).58

Si tratta insomma di quel fenomeno dell’ispirazione divina al quale Filone concede una concreta valenza gnoseologica.

Ma qui la dimensione discensiva della CIAD è ancora più impressionante. Perché proprio entro la realtà sottile e dinamica dello Spirito noi assistiamo al letterale trasferimento da Dio all’uomo di una conoscenza innata che è in primo luogo inequivocabilmente etica.

Essa è insomma la conoscenza del Bene nella sua pienezza. Non per nulla Filone stesso si preoccupa molto di chiarire che questo genere di conoscenza era pienamente disponibile al primo uomo (Adamo ed Eva), e quindi che l’Albero del Bene e del Male non è affatto identico all’Albero della Conoscenza.59

Non a caso il primo si trova fuori e non dentro l’Eden.

Bisogna al proposito tener conto delle estremamente pericolose distorsioni di questo stesso concetto nel contesto della dottrina Gnostica.60

 Se però si tiene conto di ciò che dice Eckhart, allora la prospettiva assume di nuovo la sua piena correttezza etico-metafisica nel porre in evidenza la primaria valenza dell’Albero monomiale − esso fu infatti in primo luogo un «Albero della Vita» e quindi qualcosa di in sé unicamente positivo e salvifico.61

Dunque il mangiare del famoso frutto dell’Albero non poteva offrire all’uomo la conoscenza proibitagli da Dio, ma invece poteva solo degradare e intorbidare esattamente quella conoscenza innata del Bene della quale abbiamo appena parlato (e che Dio gli aveva messo largamente a disposizione).

Essa infatti non a caso aveva come proprio oggetto l’unica ontologia che davvero sussista, e cioè quella dominata dal solo Bene. L’altra, invece, quella del Male, è soltanto la brutta copia della prima. E come tale non corrisponde in verità ad alcuna ontologia.

Anche Filone, infatti (esattamente come Maritain), ci mostra come il male (e il connesso peccato) corrisponde a null’altro che ad un buco vuoto entro quella che è la perfettamente coesa trama dell’essere, ossia è il frutto di una mera «nientificazione».62

Più precisamente potremmo dire che sta dentro il Giardino (e precisamente al suo centro, rappresentando la «virtù in generale») solo l’albero monomiale (Albero del Bene e Albero della Vita), mentre ne sta fatalmente fuori l’Albero binomiale.

Il quale rappresenta come tale la tensione-scissione sussistente tra il Bene (collocato dentro il vero Essere) ed il Male (collocato fuori il vero Essere).

Ma questa tensione non è affatto originaria e oggettiva in termini ontologici, essendo invece stata istituita solo dall’uomo con la scelta del Peccato.

Giungiamo così alla fine alle «potenze», espressioni specifiche dell’attività divina (dynamis).

Con questa caratteristica specifica esse rappresentano la stessa cosa che abbiamo visto finora, e cioè la facoltà conoscitiva umana.63

Si tratta però in particolare di

1) più in generale (nel mondo) di dinamismo psichico (dynamis psychiké) ed etico (potenza legislativa);

2) più ristrettamente («nell’uomo») di dinamismo gnoseologico (dynamis logiké o dynamis dianoetiké, ossia la dianoesis) e di dinamismo religioso (manifestazione di Dio).

Ci troviamo così di fronte alla conoscenza come forza movente e come forza producente effetti.

E ciò avviene sia nella dimensione oggettuale (mondo di cose) sia nella dimensione soggettuale (psiche, o mondo di idee), sia infine anche nelle relazioni esistenti tra questi due poli.

I quali poi sono i poli stessi che la teoria della conoscenza ha sempre considerato fondamentali.

Passando ora ai testi filoniani, possiamo partire da ciò che abbiamo visto già a proposito del Logos, e cioè la connessione tra conoscenza e luce.

Filone nel parla nel Genesi descrivendo l’azione del soffio vitale, che è il vivificante per eccellenza nel mentre è Luce, ossia il bello per eccellenza.64

Ci troviamo insomma al livello di un’emersione dell’essere nel pieno della sua bellezza incontaminata. E ciò equivale all’ontologia del Logos come intelligibile ed incorporeo e quindi come conoscenza legata strettamente alla luce, ossia al risplendere delle cose sotto il suo effetto («luce della conoscenza»).

Come già abbiamo visto, a ciò corrispondono corporeamente gli astri (sole, luna, pianeti e stelle) quali manifestazioni di chiarezza e purezza.

Qui siamo però ancora nell’ambito di una gnoseologia pura (sia pure metafisicamente concepita), e quindi siamo in un ambito che potrebbe ben essere anche quello di una teoria della conoscenza puramente filosofica. Ciò che in questa sede sta in primo piano è infatti l’atto del conoscere nella sua incondizionatezza.

Tuttavia i testi sui quali Filone svolge la sua argomentazione filosofica non si interessano affatto della conoscenza in questo modo (come avviene invece anche nello stesso Platone, sebbene anche lui sia tutt’altro che disinteressato all’etica).

Pertanto noi entriamo nel vivo della trattazione filoniana della conoscenza solo laddove i testi biblici evidenziano con maggior forza una conoscenza etica, ossia una gnoseologia strettissimamente condizionata dalla virtù.

E naturalmente non vi può essere luogo più rappresentativo per questo, che quello in cui si parla del Peccato Originale, ossia il Genesi.65

Filone ci spiega che con il Giardino va intesa l’anima superiore stessa, che è popolata di alberi pensanti (ossia la dimensione di quell’intelletto arboreo nel quale Adamo ed Eva tentano di nascondersi all’occhio di Dio).

Ma si tratta di entità intellettuali singole, ossia opinioni, che esigono un centro unificante rappresentato proprio dall’Albero della Conoscenza, e precisamente nella sua valenza positiva (monomiale e non binomiale) di Albero del Bene e del Male.

Il centro direttivo della conoscenza nella sua pienezza (ossia unitiva) è quindi un vero e proprio «Albero della Bontà».

Pertanto, quando da esso ci si discosta nel senso di uno scadimento della conoscenza (nel senso dell’opinione opposta alla scienza), ciò avviene sempre anche in direzione del male.

Si tratta in fondo di quanto postulato anche da Platone, ma certamente non con una tale dovizia di immagini metaforiche (che qui provengono direttamente dalle Scritture).

In ogni caso per Filone questo male ha un volto molto specifico − esso è infatti la «malizia».

Essa corrisponde a quel non retto giudizio che a sua volta delinea il contrario dell’ «innocenza»; ossia la conoscenza disinteressata al piacere in quanto centrata in Dio e da Lui polarizzata.

E la conoscenza discostantesi da quest’ultima è quella orientata al molteplice (ossia al puro piacere per le cose) e non più invece all’unità stabile.

Quindi è del tutto scontato che, ontologicamente, tale conoscenza introduca la dimensione della mortalità opposta all’eternità.

Si comprende dunque perfettamente perché il Peccato esponga per sempre alla mortalità.

Esso sposta infatti il piano dell’agire umano (nella sua essenza insieme conoscitivo ed etico) sul piano della mera temporalità sensibile immanente e mondana.

E questo non solo è il luogo in cui le cose si susseguono spazio-temporalmente (secondo la causalità meccanica), ma è anche il luogo in cui tutto ha fatalmente inizio e fine; ossia quel luogo che Guardini definisce come una vitalità che in verità è solo morte, cioè più precisamente mortalità.66

Ebbene in tutto questo ha un ruolo centrale la dimensione della donna in senso specificamente conoscitivo. Essa incarna infatti pienamente tale degenere immanenza in quanto equivale totalmente alla «sensazione» opposta all’intelletto.

Ma proprio in tal modo insorge quella condizione inferiore del conoscere che abbiamo già prima descritto a proposito dell’intelletto, e cioè quella della fatale discrepanza tra soggetto e oggetto. Infatti la presenza della donna, nello scenario originario dell’essere, introduce la relazione (dove prima era invece la beata solitudine in termini di perfetta unità tra enti).

E quest’ultima è distanza di un ente dall’altro (scissione dell’unità), e quindi anche bisogno (spasmodico e vitale) di tutto ciò che è «altro».

Pertanto è espressione piena del bisogno da carenza.

Ciò quindi comporta da un lato il piacere (dovuto alla soddisfazione del vuoto per mezzo della pienezza) e dall’altro comporta la scansione dell’essere in una molteplicità opposta all’unità; quindi porta con sè la generazione orizzontale («fecondazione» e «procreazione»).

Con ciò diviene pertanto chiaro perché la dimensione del Peccato implichi sia quella della mortalità sia anche quella della sessualità (riproduttiva e meno).

Tutto questo ci riporta allora a quanto abbiamo già detto della relazione tra intelletto, pioggia, verde-erba del campo, e lavoro delle terra (Legum allegoriae).67

Infatti la conoscenza superiore avviene di fatto ancora in assenza della percezione di un oggetto corporeo singolare, ossia senza l’«intuizione».

E quando questo poi avverrà, comincerà ad essere presente lo sforzo per passare da soggetto ad oggetto e da non conosciuto a pienamente conosciuto. Così il «lavorare la terra» corrisponde alla conoscenza immanente, laddove esistono già dei sensibili singolari; che diventano in tal modo l’«alimento della sensazione», ossia i corpi composti (che l’intelletto deve ricondurre dalla molteplicità all’unità).

La conoscenza superiore non conosce invece questo alimento – essa insomma non ha bisogno «di qualcosa di sensibile».

Ecco allora che il Genesi descrive la situazione conoscitiva sussistente dopo la Caduta, dove l’uomo ha perso l’antecedente sapienza fulminea totalizzante ed è costretto ormai alla faticosa e penosa (lavoro - sforzo) continua presa di contatto tra soggetto e oggetto.

Il che si muove lungo la linea della discrepanza tra potenza ed atto.

Il discorso continua (in Legum allegoriae) sul piano dello spirito come Intelletto, ossia quello che viene insufflato da Dio nell’uomo.68

Anche in questo caso ciò che risulta è una conoscenza del Bene, ma in virtù in primo luogo dell’amorevolezza divina insita nel dono dell’intelletto.

Infatti Dio non fa altro che trasferire all’uomo quelle proprie caratteristiche ontologiche che fanno del mondo divino un luogo di assoluta felicità in quanto dominio incontrastato del Bene.

Insomma l’amore divino dona l’intelletto all’uomo naturale in quanto esso è la fonte primaria di conoscenza del Bene; e quindi è in grado di instaurare la giustizia nel mondo.

Filone ci avverte però che, per comprendere ancora più a fondo tutto questo, bisogna andare ben oltre l’apparente ingenuità dell’immagine metaforica (il soffio come «fiato»).

Si tratta invece semmai di un soffiare che è ispirare e insieme animare, cioè si tratta di un atto che innesca la conoscenza nello stesso momento in cui induce dal nulla uno stato di essere. E così avviene la profonda unificazione, in uno solo atto, di Dio ispiratore, dell’intelletto ispirato e dell’oggetto conoscibile ormai pienamente conosciuto.

Si tratta insomma del perfetto stato conoscitivo che abbiamo già visto come continuità ininterrotta intelletto-sensazione-sensibile (cosa).

Ma in tal modo ciò che si compie è in primo luogo la piena conoscenza di Dio stesso (la CIAD); cosa che avviene soprattutto in virtù del Suo amoroso offrirsi alla conoscenza umana. Egli vuole insomma ardentemente venire conosciuto da noi.

E questo squalifica per definizione ogni atto di ascesa autarchica e titanica dell’uomo a Dio. Come infatti abbiamo visto, alla pienezza della CIAD si perviene solo se l’atto prende le mosse dall’alto, e non invece dal basso. In altre parole qui è l’Intelletto agente stesso (per dirla al modo di Dietrich von Freiberg) che, affermando la sua incontrastata potenza conoscitiva nella relazione ininterrotta con l’oggetto, offre infine se stesso come oggetto.69

E quest’ultimo è pertanto l’«oggetto degli oggetti» di conoscenza. Questa dinamica metafisica è la stessa che viene analizzata da Eckhart nell’ «io sono» biblico, riscontrando in esso una predicazione («sono») che reitera il soggetto come oggetto, invece di contrapporre il primo al secondo.70

La CIAD è insomma per Filone davvero pienamente possibile. Ma non lo è senza un’elevazione umana che va incontro alla ben più decisiva discesa di Dio. Perché altrimenti l’intelletto, o non osa affatto elevarsi fino a Dio, oppure se lo fa fallisce miseramente.

Possiamo quindi costatare qui che la CIAD rappresenta nello stesso tempo il culmine della conoscenza in sé ed il culmine della conoscenza etica.

Ma tutto ciò ha anche un preciso risvolto teoretico-conoscitivo.

E ciò perché il soffio interessa solo il «volto» in quanto la parte del corpo che è affine all’intelletto; cosa che invece i sensi non sono. Come tale (volto) l’intelletto agisce poi sui sensi nella forma di una creazione indiretta. Dunque, mentre l’intelletto è creato direttamente da Dio, i sensi vengono invece «creati» (indirettamente) dall’intelletto.

Ed eccoci nuovamente davanti alla «costituzione» così come viene concepita nella teoria della conoscenza fenomenologico-husserliana – ecco l’«oggetto intenzionale», ossia l’oggetto reale che non è conoscibile senza lo «sguardo intellettuale» (o «sguardo spirituale») «diretto» verso di esso. Proprio questo atto intellettuale genera insomma un campo oggettuale solo per mezzo del quale l’oggetto reale viene da noi conosciuto (cosa che avverrà sostanzialmente per mezzo del riconoscimento della sua essenza).

Nel complesso il Giardino è in qualche modo quindi il contrario stesso del godimento. Molto più esso è invece il luogo della Sapienza nella forma della conoscenza etica più radicale possibile.

La quale è poi felicità solo per la via della giustizia più integrale possibile, ossia per la via della«virtù».

Questo stato ideale ci fa poi comprendere ben più profondamente il senso della cacciata; che ha ancora una volta un risvolto intensamente gnoseologico. Infatti, dice Filone, vi è una radicale differenza tra l’uomo «posto» nel giardino − che è quello «plasmato» (uomo naturale, uomo inferiore, uomo di terra o fango) − e l’uomo invece «generato» o creato «ad immagine».

Il secondo insomma «coltiva le virtù» solo passivamente (cioè per pura carità divina, anche se nella sua forma impositiva), mentre il secondo lo fa attivamente.

È dunque solo il secondo a poter restare coerentemente nel Giardino non venendone cacciato. Il fatto che invece il primo ne venga cacciato è dunque solo conseguenza della condizione ontologica nella quale egli stesso vuole permanere.

La cacciata è quindi un fenomeno etico appena relativo, perché riguarda solo l’uomo inferiore.

Ciò ci porta dunque a credere che in verità l’uomo superiore sia fino ad oggi restato nell’Eden.

E forse questo potrebbe di nuovo trovare un corrispettivo nella dottrina plotiniana della «non discesa anima».

Ma abbiamo già visto che questo Uomo ha in verità le stesse caratteristiche del Logos cristico – e quindi, in termini cristiani, è il Cristo-Uomo che lì ci attende.

Tutto ciò sta tra l’altro in relazione con l’attualità o potenzialità delle virtù assunte come impronta (come avviene nella conoscenza) – diverso è il caso che esse siano solo potenziali o che esse siano invece attuali.

Quando l’uomo si dà ad una conoscenza integralmente etica (del solo Bene), e quindi «accoglie l’impronta della virtù perfetta» (virtù attuale), allora prevale l’attività.

Ed in questo caso inevitabilmente non si ha più alcun albero binomiale, ma invece solo quello della Vita e della Conoscenza, ossia l’Albero che sta unicamente entro la perfezione dell’Essere (dentro il Giardino).

Abbiamo visto che comunque in tale contesto emerge una conoscenza che è sì etica, ma intanto mette capo solo ad una morale passiva (quella incentrata su «ordini» e «precetti», ossia «comandamenti»).

In essa però il pensiero non sta affatto nella sua pienezza proprio perché in verità dominano le dimensioni dei sensi e del corpo.

E di nuovo essa si appaia alla mortalità che è propria poi della conoscenza etica solo inferiore, alla quale l’uomo decadde essendo decaduto ad uno stato ontologico inferiore.

Ed ecco pienamente spiegato il «morirete» affermato da Dio insieme all’avvertimento di non mangiare del frutto dell’Albero (Gen. 2, 17: «...ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiare, perché il giorno che tu ne mangiassi, di certo moriresti»).

Dunque la morte dovuta al mangiare il frutto dell’Albero è morte spirituale nel senso di etico-conoscitiva, ossia morte dell’anima.

Perché essa accentua la vita meramente corporea, cioè la vita mortale.

E questo, dice Filone, non è il semplice «morire» ma è semmai invece il «morire di morte».

Le cose stanno invece in maniera diametralmente opposta in quella conoscenza superiore che è ineluttabilmente etica nel senso dell’attività. Sono in essa l’uomo è davvero vivo.

Nel complesso si può dire quindi che − proprio per il fatto di essere polarizzato dal valore della conoscenza più alta possibile – il nostro pensatore non indulge affatto all’accettazione della Legge a qualsiasi costo, ossia passivamente.

Egli insomma sembra conoscerne molto bene la possibile dimensione negativa.

Che è esattamente quella propria della morale passiva che è fatta solo per gli uomini inferiori. Anche in questo insomma la sua riflessione teologica sembra anticipare quella derivante dall’insegnamento di Gesù Cristo.

In ogni caso nel II libro di Legum allegoriae noi perveniamo al culmine dell’opinabile enunciazione filoniana di una vera e propria teoria della conoscenza.71

Si tratta della creazione di Eva dalla costola di Adamo, che il pensatore cerca di spiegare al di fuori di qualunque ingenuità fideistica e mitica. E centrale è pertanto proprio l’elemento del «sonno» (o «estasi») nel quale Adamo deve cadere perché la costola gli venga estratta allo scopo di farne una Eva.

Qui come non mai, infatti, la dimensione femminile viene assimilata a quella dei sensi e dell’anima irrazionale. Il sonno sta quindi per lo stato non-desto nel quale l’intelletto deve necessariamente trovarsi affinché possa delinearsi la dimensione dei sensi.

Perché invece, nel corso dello stato desto, la presenza dell’intelletto è talmente impositivamente attuale da soverchiare totalmente quella dei sensi.

Si tratta insomma del ben noto fenomeno di quello stato di totale assorbimento spirituale nel quale l’impressione sensibile cessa come per incanto di raggiungerci anche se è ancora pienamente agente.

Tuttavia è un fatto anche che, in assenza dei sensi, l’attualità dell’intelletto resta (per un altro verso) incompleta in quanto è priva di oggetto.

E qui stiamo insomma parlando della valenza gnoseologica, e quindi obbligatoriamente transitiva, dell’intelletto immanente. Insomma se il puro intelletto è concepibile senza oggetto, la conoscenza invece non lo è di certo (in quanto essa è sempre traduzione immanente della potenza intellettuale). Ecco insomma nuovamente evidente perché mai la donna (sensi) viene considerata «aiuto» per l’uomo (intelletto).

 Nello stesso tempo però, sul piano ontologico, la dimensione dei sensi (donna) è del tutto inconsistente se presa da sola e di per sé; e quindi è puramente «potenziale».

Essa esige quindi il completamento ontologico dell’intelletto.

Proprio per questo, dunque, Filone ci spiega che la costola viene «presa» (da Adamo) invece di essere stata «creata».

Ciò sottolinea insomma la primarietà ontologica assoluta dell’intelletto.

Ma con questo ci spiega anche il «riempimento di carne» dello spazio vuoto venutosi a creare nel corpo di Adamo (l’intelletto) con l’estrazione della costola.

Con ciò ci troviamo insomma al culmine stesso della teoria della conoscenza. Perché qui si sta parlando del riempimento della «forma vuota» intellettuale da parte del contenuto sensibile. È pertanto per mezzo di tale equilibrio che (almeno sul piano immanente) viene raggiunto il compimento dell’intelletto.

In ogni caso risulta così ancora più chiara la non-autonomia dei sensi-donna sul piano gnoseologico.

Essa infatti, in assenza di questo affluire del contenuto sensibile verso l’intelletto, sarebbe appena ciò che è in sé (autonomamente), ossia un mero e puro «patire» fine a sé stesso.

Il quale non ha alcun senso, perché è una mera funzione psichica cieca ed automatica che non reca assolutamente a nulla.

È per questo quindi, dice Filone, che la donna viene «condotta» da Dio ad Adamo (Gen. 2, 22).

Ciò avviene insomma in quanto essa gli inerisce «come la sensazione in atto verso l’intelletto».

Pertanto, allorquando essa è divenuta in atto, o «attivata» inerisce ormai pienamente ad Adamo: − Adamo dice infatti che essa «è parte di me, è osso del mio osso, è carne della mia carne».

Ecco che nel complesso ci troviamo qui nuovamente al cospetto di una dottrina conoscitivo-teoretica della «costituzione»; e quindi, se vogliamo, ci troviamo anche davanti ad un discreto «idealismo» − affermiamo infatti che la sensazione appartiene fin dall’inizio all’intelletto, anche se sembra provenire da fuori, ossia dalla cosa sensibile.

Dunque l’oggetto reale esiste solo nella coscienza – esso insorge per la precisione (dice Filone) in quanto attualizzazione che riassume nel presente tutte le tre dimensioni del tempo (passato, presente, futuro); che vengono abbracciate solo dall’intelletto, e non dai sensi.

Il pensatore però sembra non volersi lasciare andare nemmeno qui ad un idealismo che evidentemente avrebbe una base metafisica troppo ristretta e carente– esso riposerebbe infatti appena sui caratteri e funzioni dell’intelletto immanente.

E così egli si affretta a precisare che la vera causa di tutto (il «costitutore» dell’oggettualità) non è affatto l’intelletto immanente, ma è invece solo quello trascendente, cioè Dio.

Quindi dalla dottrina esposta sopra è per lui «sciocco» trarre la conclusione che l’intelletto sia davvero causa di qualcosa, ossia che la teoria filosofico-gnoseologica della costituzione sia letteralmente valida. Ecco allora che, anche se finora avevamo avuto la netta impressione di trovarci di fronte ad una pura dottrina conoscitivo-teoretica, le cose invece non stanno affatto così.

E ciò è vero perché la riconduzione all’uomo-intelletto della donna-sensi ha una valenza in primo luogo etica (anzi etico-religiosa), e non puramente conoscitiva, come sembra a prima vista.

Il nucleo di tale dottrina sta insomma nella necessità etico-conoscitiva di ricondurre ogni cosa a Dio.

Nel III capitolo di Legum allegoriae si precisa ulteriormente questa serie di concetti in riferimento molto diretto alla filosofia, e precisamente in riferimento a Mosè come paradigma del filosofo in quanto agiografo e quindi ispirato dalla Sapienza divina.72

Filone, infatti, indicando Mosè come massimo esempio del filosofare, dice che i «primi pensatori» (gli agiografi ispirati, ossia di fatto i teologi) concepirono con chiarezza la «cognizione del divino» e i suoi modi. Ma «in seguito» quelli che sembrarono «i migliori filosofi »concepirono invece appena una «cognizione della Causa» a partire dalla bellezza e perfezione del cosmo – come una città o casa che rinvii alla sapienza dell’Architetto.

Si distinguono in tal modo la conoscenza immediata di Dio, e la conoscenza mediata.

Eccoci dunque di nuovo al cospetto di un carattere della conoscenza etica che fa di essa una pienezza di conoscenza (perfino dal punto di vista puramente teoretico) in quanto essa è radicalmente religiosa.

Emerge insomma il fatto che, contrariamente alle apparenze, la Rivelazione (Fede) costituisce di per sé una CIAD davvero piena, e non invece quella riduttiva. Il che accade in quanto essa si oppone (quale conoscenza immediata di Dio) alla conoscenza indiretta mediata dal cosmo (Dio – Causa – Artefice).

Pertanto, nella conoscenza per Rivelazione, si trascende il creato invece di partire da esso. E ciò avviene in quanto viene direttamente colta l’essenza stessa del creato, ovvero il Logos stesso (essere intelligibile) − rispetto al quale tutto è copia (riflesso).

Si tratta cioè dell’immagine di Dio colta direttamente, e non «per via di ragionamento».

Mosè, insomma, quale paradigma del filosofo, punta dritto agli archetipi.

Eppure noi non ci troviamo qui né sul piano di una conoscenza apofatica di Dio né sul piano di una teologia razionale-naturale.

E il motivo di ciò può quindi risiedere solo nel fatto che Filone intende la piena CIAD come qualcosa che avviene unicamente per quella «via d’amore» (amore di Dio unito all’amore per Dio) che invece la Gnosi considera il più grande ostacolo nell’ascesa conoscitiva a Dio.74

Eccoci allora (come avevamo anticipato) di fronte alla pienezza più integrale della filosofia religiosa.

Essa appare essere più che mai quella che proprio nella Rivelazione trova non solo il suo punto di partenza imprescindibile, ma anche il piano stesso più appropriato per le sue argomentazioni.

E questo ci riporta a quanto abbiamo detto dei Cherubini (nota 55) quali tramiti indispensabili per una relazione conoscitiva umana con Dio – in quanto suoi aspetti contrapposti ed anche nello stesso tempo unificazione di tali aspetti. La CIAD è pertanto proprio quella conoscenza in cui i due aspetti divini(«amore» e «timor di Dio») si unificano coraggiosamente (sopportando o strazio della contraddizione) per raggiungere la radice ideale dell’essere.

Si tratta insomma di una conoscenza il cui carattere primario è l’unità assoluta, ossia di fatto la contemplazione dell’Uno.

A tale complessivo proposito va comunque sottolineato un aspetto in sé marginale della conoscenza, ma comunque non senza importanza quando si considera una conoscenza ascensiva la cui ambizione è quella di penetrare fin dentro al mistero del divino.

Abbiamo visto con quanta cura Filone differenzi la sua posizione filosofico-religiosa da quella gnostica. Ed abbiamo anche visto in quanti aspetti essa differisce da qualunque titanismo autarchico umano dell’ascesa conoscitiva verso Dio. Infine (sulla base del Reale e del Radice) abbiamo anche constatato che non è affatto sua intenzione parlare di una conoscenza apofatica di Dio.

Eppure noi l’abbiamo vista adombrata nel passo che abbiamo esaminato, ed in quello che ora esamineremo vedremo che addirittura essa si ricongiunge ad un tema carissimo al moderno titanismo dell’ascesa al divino; cioè quello dell’unione alla donna quale mezzo di ascesa conoscitiva.75

E questo tema si ritrova perfino nel pieno dell’ebraismo religioso esoterico, la Cabbala, nell’immagine della cosiddetta sigizia (in principio l’unione a scopo cosmopoietico del Maschile e Femminile divini).

Abbiamo diffusamente parlato di questo nel nostro saggio dedicato alla Sophia, e quindi ad esso rimandiamo.

Comunque anche Filone parla qui espressamente di misteri.

Si tratta per la precisione del ruolo che ha la donna (sensi) per l’uomo (intelletto) allorquando essa stessa rappresenta la virtù (e non il vizio). Egli parla al proposito di personaggi biblici femminili esemplari come Sara, Lia e Sefora.

Ma tra essi include anche una Eva nella sua valenza positiva.

In ogni caso il pensatore parla qui proprio della sigizia come mistero iniziatico sul quale è tassativo mantenere il segreto esoterico −  «Noi, infatti, insegniamo i misteri divini agli iniziati degni dei più sacri misteri, e questi sono coloro che esercitano con modestia la vera pietà, che è realmente priva di orpelli. Ma non istruiremo ai misteri coloro che sono dominati dalla boria, male incurabile, e che misurano ciò che è puro e santo con la sottigliezza del linguaggio e con le ciarlatanerie abituali, e con niente altro.»

L’iniziazione ai misteri divini coincide quindi letteralmente con l’unione eticamente corretta alla donna. Bisogna però essere consapevoli del fatto che la sapienza (come prodotto di iniziazione ai misteri per mezzo della donna-virtù) dà frutti conoscitivi «perfetti» che di per sé non sono affatto alla portata dell’uomo mortale. E quindi essi derivano solo da Dio come Padre inseminatore intellettuale.

Ed eccoci dunque di nuovo di fronte alla dimensione strenuamente etico-religiosa della CIAD.

Essa infatti ancora una volta si rivela essere impossibile come ascesa umana in assenza della discesa divina.

E quindi il moderno titanismo dell’ascesa al divino per via tantrico-sessuale (vedi Evola) ha preso un abbaglio davvero colossale.

In relazione con questo stanno comunque anche altri aspetti della conoscenza che sono sì religiosi, ma comunque meno intensi di quelli appena discussi.

Si tratta del vagare di Giuseppe nelle valli di Ebron alla ricerca dei suoi fratelli al pascolo. 76 Giuseppe rappresenta qui per Filone l’«uomo» stesso (in quanto intelletto) alla ricerca della sapienza – ossia l’errante per antonomasia.

Ma Ebron, come Haran, rappresenta i «sensi» che costantemente minacciano ed intorbidano questa ricerca. Ebbene, appare chiaro qui che la retta conoscenza (che Giuseppe non riesce ancora a praticare) va considerata sì un vero e proprio «culto».

Ma intanto, se essa non viene profondamente e sinceramente partecipata, non resta altro che un «formalismo religioso» ossia un vuoto ritualismo.

E come tale, per quanto sia conoscenza religiosa, non è vera conoscenza come relazione tra uomo e dio.

Infine, in Quod Deus sit immutabilis (in relazione al già discusso non credibile pentimento di Dio per la creazione dell’uomo) emerge un ulteriore aspetto di una teoria della conoscenza che è piena ed autentica proprio in quanto è etica.76

La problematica è infatti quella della gerarchia esistente nella Natura tra diversi livelli gerarchici di animicità. Solo nell’animicità animale compare infatti la reattività, ed essa è rappresentata dalla sensazione.

Ma nell’animale quest’ultima prende la via dell’interiore (ossia il luogo di una potenziale «rappresentazione») solo per poi ripercuotersi immediatamente di nuovo verso l’esterno come «impulso», e cioè incondizionato movimento.

Nell’anima umana invece tale movimento diviene condizionato in quanto sta interamente sotto il dominio della volontà libera, e quindi della scelta tra il bene ed il male.

Si tratta insomma di una conoscenza modale e per questo di immenso pregio in quanto essa ha un’inevitabile dimensione etica.

Ecco quindi perché Dio non poteva pentirsi di aver creato una simile creatura. La Sua infatti è una Sapienza perfetta che a sua volta poteva generare solo una sapienza perfetta com’è quella umana.

E che quindi tale resta anche quando risulta così esposta al male.

Quella di Dio è pertanto una Sapienza che tutto prevede, e quindi non può conoscere alcun pentimento o ripensamento.

Dio allora non «ripensa» ma semmai soltanto «prevede» in virtù della perfetta conoscenza previa (piano divino) di ciò che Lui stesso ha fatto: − un essere pienamente animico in quanto libero. Quindi Egli semplicemente prende atto di fronte all’agire umano (in fase di esplicazione del suo Piano) di ciò che già sapeva all’inizio − la possibilità del male.

È pertanto in tale complesso contesto che si pone il carattere fondamentale dell’animicità umana, e cioè la Ragione. Dunque essa è ciò che è in primo luogo per il fatto di coincidere totalmente con la

conoscenza del bene e del male.

 

Conclusioni.

Questa lunga disamina del pensiero di Filone Alessandrino (condotta da noi soprattutto per mezzo dei suoi scritti) ci ha rivelato senz’altro un pensatore che può e deve venire considerato un grande paradigma per la filosofia religiosa, ed in particolare per una filosofia religiosa davvero integrale.

Abbiamo visto che quest’ultima consiste nell’atto del costante prendere le mosse, da parte del pensatore, dalla Rivelazione (e solo da essa) per sviluppare un’argomentazione filosofica i cui caratteri poi restano in perfetta linea con il principale portato della Rivelazione stessa.

Questo è  l’invito rivolto all’uomo a permanere in intima relazione con Dio, ed inoltre a consolidare ed intensificare sempre più questa relazione.

È ovvio quindi che un siffatto pensiero configura un’autentica «filosofia di vita», ovvero un filosofare che non si rifugia mai nelle sfere del puro pensiero ma prende sempre intimamente contatto con le questioni più scottanti del mondo.

La prima di tali questioni è senz’altro teologica, ossia quella della salvezza dell’anima e quindi della riunificazione dell’uomo a Dio.

Ed abbiamo visto che però proprio questo genere di pensiero perviene intanto, secondo Filone, alle vette più alte possibili della conoscenza. Il che avviene soprattutto per via etica ed ovviamente anche etico-religiosa.

Abbiamo constatato inoltre che per questa via è perfino possibile formulare una teoria della conoscenza che non ha nulla da invidiare a quella della filosofia pura ed assolutamente a-religiosa.

Ed a tale proposito va sottolineato che la filosofia metafisica filoniana avvalora nettamente una dottrina teoretico-conoscitiva che appartiene soltanto alla tradizione filosofico-religiosa, nel mentre risulta nettamente esclusa da quella filosofico-pura (laica ed a-religiosa).

Si tratta in particolare del fatto che solo Dio viene considerato come il vero soggetto «onto-costituente» (come intelletto o anche Io). Questo ha poi due principali conseguenze per la complessiva visione del pensatore: −

1) in essa è impossibile qualunque idealismo più o meno estremistico, ossia una presa di posizione filosofica che non sia in equilibrio con un realismo; 2) in essa la dottrina teoretico-conoscitiva sussiste solo in forma integralmente etica (e mai invece nella forma di una teoresi pura).  

Naturalmente, dopo tutto ciò che abbiamo detto, non vi è forse nemmeno bisogno di dire che lo strumento per mezzo del quale Filone giunge a questo assetto di pensiero è quanto di più filosofico potrebbe mai esistere, ossia è il logos. Termine e concetto che tradizionalmente sta per la filosofia stessa.

L’altra serie di questioni da noi anticipate nell’introduzione − e cioè quelle specificamente teologiche e metafisiche che stanno in relazione al Logos – hanno inoltre trovato conferma nella loro rilevanza nel corso dell’analisi testuale.

In particolare il Logos si è rivelato essere un elemento metafisico-religioso indispensabile non solo sul piano teologico ma perfino su quello filosofico. Filone testimonia infatti che per mezzo di esso risulta possibile argomentare filosoficamente sul Dio Trascendente; non precludendosi intanto un’effettiva CIAD (spostandola sul puro piano mistico-apofatico, e così di fatto negandola) né arrendendosi alle aspettative puramente intellettualistiche della Gnosi (ed anche di molto platonismo).

Ed abbiamo constatato che (diversamente da quanto affermano Reale e Radice) il ricorso al Logos da parte di Filone non è affatto appena un espediente metodologico.

Abbiamo inoltre constatato che il Logos filoniano addirittura lascia trasparire il Logos cristico. Il che è poi totalmente coerente con il suo impiego quale mediatore entro il discorso su Dio.

Sul piano puramente teologico-metafisico il Logos di Filone si presenta pertanto con molti dei caratteri di un Dio Immanente; sebbene esso non assuma mai i caratteri di un Dio-Essere e resta quindi totalmente entro i limiti di una metafisica platonica nella quale il divino equivale al purissimo essere ideale.

Quindi di un Dio Incarnato in Filone non si può in alcun modo parlare. Ciò non impedisce però che esso si presenti come un Dio d’Amore – ma questa sua veste sta ancora una volta in diretta relazione con una rigorosissima etica (tanto religiosa quanto conoscitiva).

Naturalmente tutto ciò pone inevitabilmente la questione di un’ipotetica presa di contatto del nostro pensatore addirittura direttamente con la figura di Gesù. E non a caso tutti i suoi studiosi sono stati sedotti da tale ipotesi, sentendosi così autorizzati anche alle più ardite ipotesi. Certo è che Filone pare sia nato tra il 20 e il 10 a.C, morendo poi all’incirca il 50 d.C.77

La sua esistenza coincide dunque perfettamente con quella del Gesù storico. Inoltre pare che abbia ben conosciuto Gerusalemme. Ed infine nel 39-40 d.C. egli si sarebbe recato a Roma per protestare presso Caligola per quelle persecuzioni anti-ebraiche che coinvolsero anche i cristiani.

Risulta insomma davvero difficile pensare che egli non abbia (anche solo alla lontana) conosciuto Gesù ed il suo insegnamento. Ma è possibile che ciò abbia anche avuto un influsso (anche solo indiretto) nel suo pensiero?

Lo lascerebbe pensare la così impressionante anticipazione di contenuti metafisici della successiva riflessione patristica che è riscontrabile nei suoi testi. Tanto è vero che per molti versi la figura di Filone è stata di fatto «cristianizzata» nel corso del tempo.

Resta infine da commentare brevemente l’appartenenza platonica del pensiero filoniano. Essa è talmente evidente che nemmeno vale la pena sottolinearla ancora una volta. Anzi abbiamo visto che laddove il pensatore attribuisce alla filosofia il massimo valore, egli lo fa proprio rifacendosi al paradigma platonico del filosofare.

Tuttavia va assolutamente ricordato che la visione metafisica filoniana è senz’altro inconciliabile con quella platonica per alcuni rilevanti aspetti:

1) per l’ipotesi di una Materia eterna non creata;

2) per l’ipotesi di una suprema deità puramente normativa di tipo ideale;

3) per l’onto-intellettualismo implicato nella visione del pensatore ateniese ed ancor più dei suoi successori più prossimi alla Gnosi.

Quello che comunque è piuttosto opinabile è che la necessità – chiaramente affermata da Filone (in obbedienza all’idea di un Dio radicalmente trascendente del tutto inaccessibile al discorso filosofico (e quindi ineffabile come l’En-Sof della Cabbala) – di cogliere e discutere Dio solo per mezzo del Logos, rende la parte più platonica del suo pensiero estremamente prossima a quella che poi si sarebbe presentata nel platonismo cristiano.

Un Dio connotato come Logos resta infatti comunque un’entità ideale, e non configura pertanto per nulla il Dio-Essere che, nella Tradizione cristiana, si sarebbe progressivamente affermato a partire dall’onto-metafisica scolastica in poi.

In estrema conclusione si può e si deve dire che in ogni caso Filone è da considerare (come abbiamo anticipato nell’introduzione) un momento davvero cruciale non solo dell’intera metafisica religiosa e dell’intera teologia occidentali, ma anche di quel pensiero filosofico che in Occidente sempre ha accompagnato più da vicino queste discipline.

E ciò equivale a dire ancora una volta che egli è uno dei più grandi paradigmi di pensiero che la filosofia religiosa può e deve tenere presente.

 

Note

 

1 G. Reale, R. Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica, in «Filone di Alessandria (a cura di R. Radice), Tutti i trattati del Commento Allegorico alla Bibbia», Bompiani, Milano 2011, IV, p. LXX-LXXXVII.

 

2 P. Carus, Gnosticism and its relation to Christianity, The Monist, 8 (4) 1989, 502-546; Julio Meinvielle, Influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 1995; Luigi Moraldi (a cura di), Pistis Sophia, Adelphi, Milano 2014; Solomon Schlechter, “Some rabbinic parallels to New Testament”, The Jewish Quarterly Review, 12 (3) 1900, 415-433; Jean Daniélou, Origene. Il genio del Cristianesimo, Arkeios, Roma 1991, I, I p. 23-48, I, IV p. 121-129.

 

3 Reale, Radice, La genesi e la natura…, cit., I, p. XVII-XXXVIII, IV, p. LXX-LXXXVII.

 

4 M. Idel, Eros e Qabbalah, Adelphi, Milano 2007; G. Scholem, La Cabala, Mediterranee, Roma 1982.

 

5 V. Nuzzo, Sophia. La Sapienza divina, la Donna, l’Anima e il Corpo, Victrix, Forlì 2017.

 

6 G. Reale, R. Radice, La genesi e la natura … » cit., IV, p. LXX-LXXXVII, V, p. CX-CXI.

 

7 Ibid., III, p. LVII-LXIX.

 

8 Ibid., p. XX-CLX.

 

9 Non a caso sorprende non poco il lettore il fatto che Filone sembra attribuire a Mosè stesso la paternità del testo del Genesi.

 

10 Reale, Radice, La genesi e la natura … » cit., V p.  CVI-CXI.

 

11 P. Wust, Die Auferstehung der Methaphysik, Fromm Verlag, Beau Bassin (Mauritius), p. 1-17.

 

12 Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, in: G. Reale, R. Radice, La genesi e la natura … » cit., I, 1- 6 p. 13.

 

13 Reale, Radice, La genesi e la natura … » cit., V p. CVI-CVII.

 

14 Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, in «Filone di Alessandria» (a cura di R. Radice), Tutti i trattati... cit., XIV 45-46 p. 27-29.

 

15 Filone, I cherubini, in «Filone di Alessandria», cit., I-X, 1-34 p. 323-333; Filone, La migrazione di Abramo, in «Filone di Alessandria», cit., XXXII-XXXIX, 176-225 p. 1179-1193; Filone, I giganti, in «Filone di Alessandria» cit., XIII-XV, 38-66 p. 657-659.

 

16 Reale, Radice, La genesi e la natura …, cit.,III-IV p. LVII-LXXXVII.

 

17  Ibid., III p. LVII-LXIX.

 

18  Ibid., V p. LXXXVIII-CXI.

 

19 Filone, I giganti, in «Filone di Alessandria»,  cit., I-XV, 1-66 p. 643-659.

 

20 Filone, La migrazione di Adamo, ibid., IX, 43-52 p. 1139-1143.

 

21 Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibid., XXIII, 69-71 p. 39; Filone, I cherubini, ibid.,  I-X, 1-34 p. 323-333; Filone, I giganti, ibid., XIII-XV, 38-66 p. 657-659.

 

22 Gregorio di Nissa, Grande discorso catechetico, in C. Moreschini, Gregorio di Nissa. Opere dogmatiche, Bompiani, Milano 2014, 1, 1-6 p. 205-207, 5, 1-11 p. 217-227, 8, 1-20 p. 239-251; Vangelo della Verità, in M. Craveri, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990, 11-14 p. 552-554, 34-39 p. 562-563; Vangelo di Filippo, ibd. 22-24 p. 514-515, 79-80 p. 528, 102-107 p. 532-533; Vangelo di Tommaso, ibd. 20-22 p. 488, 29 p. 490; L. Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, II, I, V, Ip. 195-199; LMA Viola, La Gnosi cristica integrale, Victrix, Forlì 2008, I, IVb p. 49-53; J. D.Dunn, Window of the Soul. The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008, p. 55-60; G. Scholem, La Cabala…cit., I, 3 p. 140-144, I, 3 p. 156-168; Moshe Idel, Eros e Qabbalah... cit., Introd. 1 p. 25, 1, 2 p. 36-39, 3, 1 p. 147-152.

 

23 Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibid., , XLIII-XLVII, 128-138 p. 65-69.

 

24 Reale, Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica, in «Filone di Alessandria» cit., V p. XCIX-CI, VI, p. CXII-CXXIV; Filone, Le allegorie delle leggi, ibd. I, XIII, 33-42 p. 129-131.

 

25 Ibid.,  V, II p. LXXXIX-XCIV, V, VII p. CII-CV, VI p. CXII-CXXIV; Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibd. XXI-XXII, 64-68 p. 37-39, XLIII-LII, 128-150 p. 65-75; Filone, Le allegorie delle leggi, ibd. III, LVI-LXXII, 162-178 p. 253-259.

 

26 L.  Montoneri, Il problema... cit., I, IV, 1 p. 96-97; P. Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, I, I p. 26-31, I, I, III p. 81-89

 

27 Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, in «Filone di Alessandria», cit., XLIII-XLVII, 128-138 p. 65-69.

 

28 Filone, Il malvagio tende a sopraffare il buono, ibid., I-IV, 1-12 p. 469-473.

 

29  Ibid., ., V, 13-14 p. 473.

 

30 Ibid., XIV-XX, 45-78 p. 485-497.

 

31 Filone, L’immutabilità di Dio, ibid., V-XI, 20-56 p. 687-697.

 

32 Filone, L’allegoria delle leggi, ibid., III, XXIII, 73-76 p. 219-221.

 

33 Filone, Il malvagio tende a sopraffare il buono, ibid., X-XI, 32-37 p. 479-481.

 

34 Reale, Radice, La genesi e la natura … cit., V p. LXXXVIII-CXI.

 

35 Reale, Radice, ibid., III p. LVII-LXIX.

 

36 J. D. Dunn, Window of the Soul… cit., p. 19-24.

 

37 Reale, Radice, La genesi e la natura …, cit., V, VIII p. CVI-CXI.

 

38 R.  Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016, VI, 2 p. 497-504.

 

39 Il pensatore afferma insomma che si tratta in entrambi i casi del discorso intorno ad un Dio compromesso con l’essere ben aldilà di quella che è la Sua vera natura [Filone, Il mutamento dei nomi e perché avviene, in «Filone di Alessandria»,  cit., I-IX, 1-68 p. 1547-1563]. Infatti il Dio Trascendente manifestato si presenta come Signore ai malvagi (che devono temerlo), e come Dio a chi è invece sulla via della perfezione. Infine Egli si presenta come Signore-Dio solo a chi è già perfetto, ossia chi abbiamo precedentemente constatato essere un uomo di Dio. Ma questo Signore-Dio corrisponde abbastanza precisamente al Logos stesso, in quanto Dio, così come ci viene presentato dal Prof. Romano, ossia un “Cristo-Dio” [V.Romano, L’uomo e il Cristo nel 1° racconto della creazione. I quaderni di Vincenzo Romano, n° 3].

 

40 Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibid., XLIII-XLVII, 128-138 p. 65-69.

 

41 Filone, ibid.,XI, 38-39 p. 25.

 

42 Filone, Le allegorie delle leggi, ibid., III, LVI-LXXII, 162-178 p. 253-259.

 

43 Reale, Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica, ibid.,V, VI p. XCIX-CI.

 

44 Ibid., V, VII p. CIICV.

 

45 Ibid., VI p. CXII-CXXIV.

 

46 Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibid., XIV-XVII 45-57 p. 27-33.

 

47 Ibid., LIII, 151-172 p. 75-85.

 

48  Filone, Le allegorie delle leggi, ibid., I, I, 1 p. 117.

 

49   Ibid., I, VIII-XIII, 19-42 p. 131.

 

50 F. Schuon, Logica e Trascendenza, Mediterranee, Roma 2013, 2-3 p. 23-52.

 

51 In una nostra ricerca [Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018] abbiamo tentato di descrivere tale presa di posizione filosofico-metafisica analizzando il pensiero di Edith Stein. Su questa base abbiamo mostrato come il tipico idealismo della filosofia moderna (incentrata tutta nella sola questione teoretico-conoscitiva scapito di quella ontologica) può venire almeno moderato dal realismo tipico dell’antica onto-metafisica; ossia quella presa di posizione filosofica nella quale viene presupposto un «mondo fuori di noi» (mondo di oggettualità esteriori) che trascende qualunque coscienza soggettuale onto-costituente.

 

52 Filone, Le allegorie delle leggi, ibid., I, XXIX-XXXIII, 90-107 p. 149-155.

 

53  Ibid., II, I-VI, 1-18 p. 157-163.

 

54 Ibid., III, IX-XV, 28-48 p. 205-211.

 

55 Filone, I cherubini, ibid., I-X, 1-34 p. 323-333.

 

56 Reale, Radice, La genesi e la natura, cit., V, IV p. XCVI-XCVIII.

 

57 Ibid., V, V p. XCVIII-XCIX

 

58 Ibid., V, VI p. XCIX-CI.

 

59 Filone, Le allegorie delle leggi, ibid., I, XIV-XXVIII, 43-89 p. 131-149.

 

60 Tale dottrina insinua infatti che l’azione usurpatrice del Dio biblico (ossia il Dio Personale stesso) nella veste di Demiurgo sarebbe consistita proprio nel suo presentarsi nelle sembianze del Serpente tentatore [LMA Viola, La Gnosi cristica... cit., I, IVb p. 53-54]. Sarebbe dunque opera sua l’occultamento del vero e proprio ”Albero della Scienza” sotto le sembianze distorsive del binomio Albero della Conoscenza / Albero del Bene e del Male. Occultamento che nello Zohar si presenta invece (molto più propriamente) come “rovesciamento” (dell’Albero della Vita in Albero della Morte) e poi nella Cabala lurianica come penetrazione delle leggi esteriori della Natura entro la perfetta interiorità divina [G.Busi, Zohar. Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 349-351; J. D.  Dunn, Window of the Soul...cit., p. 43-45].

 

61 M. Eckhart, Commento alla Genesi, in M. Vannini, Meister Eckhart. Commenti all’Antico Testamento, Bompiani, Milano 2013, III, 201-204 p. 291-297, II, 84-88 p. 531-537.

 

62 J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014, IV, 29 p. 119-122, IV, 32 p. 140-148.

 

63 Reale, Radice, La genesi e la natura … cit., V, VII p. CII-CV.

 

64 Filone, La creazione del mondo. La creazione del mondo secondo Mosè, ibid., VIII, 30-31 p. 21-23.

 

65 Ibid., LIII, 151-172 p. 75-85.

 

66Guardini, Der Herr… cit., VI, 1 p. 489-497.

 

67 Filone, Le allegorie delle leggi, ibid., I, X, 24-27 p. 125.

 

68 Ibid., I, XIII-XXXIII, 33-107 p. 129-155.

 

69 M. Burkhard, Dietrich von Freiberg. Abhandlung über den Intellekt und den Erkenntnisinhalt, Meiner, Hamburg 1980.

 

70 M. Eckhart, Commenti all’Esodo, in Vannini, Meister Eckhart... cit., III, 8-21 p. 747-763.

 

71 Filone, Le allegorie delle leggi, ibid., II, VII-XIII, 19-48 p. 163-169.

 

72 Ibid., III, XXXII-XXXIII, 97-103 p. 229-231.

 

73G.  Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012.

 

74 Filone, I cherubini, ibid., XII-XIV, 40-50 p. 335-337.

 

75 Filone, Il malvagio tende a sopraffare il buono, ibid. VI-XIX, 15-31 p. 473-479.

 

76 Filone, L’immutabilità di Dio, ibid., V-XI, 20-56 p. 687-697.

 

77 Radice, La vita di Filone, in «Filone di Alessandria» cit., p. CLVII-CLX.

 

 

 

 

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