Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il Gesù di Guardini ed il Logos cristico di Edith Stein

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Il libro di Guardini dal titolo Der Herr può aiutarci a chiarire criticamente non solo alcuni aspetti della riflessione metafisico-religiosa di Edith Stein, ma anche la forma complessiva che essa assunse.1

La nostra vuole però essere tutt’altro che una critica distruttiva; dato che ciò che ci interessa è semmai approfondire e precisare il senso del complessivo discorso filosofico-religioso che venne sviluppato dalla pensatrice. In particolare ci interessa capire meglio in che modo esso possa venire appropriatamente collocato entro la filosofia religiosa del nostro tempo, ed ancor più in che modo esso possa venire collocato entro il complessivo pensiero cristiano.

La necessità di comprendere questo ci sembra che stia in stretta correlazione con la grande originalità del pensiero steiniano. Il quale effettivamente (come poi verrà confermato entro questa indagine) ambì a gettare un ponte tra filosofia e teologia, concorrendo così a superare la divaricazione avvenuta nel tempo tra le due discipline.

Ma comunque, per volontà espressa della stessa pensatrice, il suo non volle essere né un pensiero integralmente religioso (e tanto meno anti-filosofico) né un pensiero integralmente laico (o addirittura anti-religioso).2

 

Il suo volle essere invece un pensiero integralmente filosofico che raggiungesse il proprio congeniale scopo (ossia la verità più piena possibile) servendosi del valido aiuto della teologia; ossia servendosi dell’aiuto di un pensiero sviluppato integralmente sulla base della Rivelazione. In questo senso quindi la costruzione di ponti tra questi due generi di pensiero doveva per la Stein andare di pari passo con il mantenimento della distinzione rigorosa tra l’ambito filosofico e quello teologico. 

In questa indagine costateremo però che il pensiero propriamente teologico (che Guardini sembra far suo davvero integralmente) sembra riuscire a cogliere la specifica verità cristiana (ossia quella insita nell’insegnamento di Gesù Cristo) molto meglio e più compiutamente di quanto riesca invece ad un pensiero senz’altro religioso-cristiano (come quello della Stein) il quale intenda però restare genuinamente filosofico.

Tutto ciò evidenzia pertanto la tendenziale problematicità di un approccio filosofico-religioso (com’è quello steiniano) che rilutti a muoversi sullo stesso piano sul quale si muove la teologia.

Ed il principale problema in questo senso (come poi vedremo) appare essere costituito dalla fatale divaricazione che si viene a stabilire tra il tipico logos filosofico (con la sua terminologia specifica ed ancor più con la sua quasi inaccessibilità ad un’ampia comprensione) e l’esperienza religiosa viva e vegeta. Ciò che si viene a creare è insomma una distanza quasi insuperabile tra il linguaggio ed il pensare del filosofo religioso, e quell’esperienza religiosa che intanto si presta a venire vissuta in particolare dall’uomo comune. E questo aspetto diviene davvero drammatico nel caso dell’esperienza religiosa di tipo cristiano.

Uno degli aspetti centrali di quest’ultima − come sottolineato continuamente da Guardininel giustificare il fenomeno assolutamente centrale rappresentato dal rigetto umano del messaggio di Gesù – è proprio la netta linea divisoria, istituita da Dio stesso, tra i «piccoli» (uomo comune) e i «grandi» (dottore in teologia e filosofo).3

Ai secondi sembra infatti costituzionalmente preclusa (e per loro stessa volontà) la capacità e la possibilità di comprensione dell’incarnazione divina e del progetto divino di salvezza. Sono stati infatti proprio loro quelli che hanno in primis rigettato il messaggio di Gesù, ossia non hanno voluto riconoscere in Lui il Dio stesso che si manifestava in terra e tra gli uomini.

Il pensatore sottolinea infatti con forza il fatto che il messaggio di Gesù si offre sì pienamente alla comprensione (ed anzi la sollecita espressamente nella forma di «sapienza» ispirata dallo Spirito), ma solo nella forma di pieno mysterium fidei.4

Quest’ultimo è cioè un corpus di sapere che resta ermeticamente chiuso se ad esso si pretende di applicare unicamente l’intelletto umano e naturale, a sua volta dogmaticamente chiuso in sé stesso e indisponibile così alla pur necessaria apertura.

Ebbene la filosofia (molto spesso anche quando è religiosa), allorquando pone sé stessa come un campo di sapere legittimamente autarchico, sembra per definizione assolutamente incapace di penetrare questo mistero.

Ma Guardinici mostra spesso che la stessa teologia moderna (allorquando essa si allinea acriticamente proprio a questo genere di filosofia) appare essere incapace di tale profonda comprensione del mistero.5

Pertanto, a causa di questa serie di considerazioni, va detto che la lettura del nostro pensatore autorizza legittimamente il sospetto che questa serie di problemi possano sussistere anche per il pensiero di Edith Stein. E per questo motivo ci siamo sentiti spinti a tentare questa investigazione.

 

1- L’ontologia di Gesù Cristo e l’ontologia cristo-centrica steiniana

 

Senz’altro uno dei punti più importanti del raffronto Guardini-Stein riguarda l’ontologia cristica (definita da alcuni autori più o meno direttamente come «ontologia cristo-centrica»)6 che la pensatrice delineò specie nelle ultime fasi del suo pensiero maturo nel testo dal titolo Endliches und ewiges Sein (EES).7

Guardini pone molto l’accento su questo stesso aspetto nel sostenere che il nucleo del messaggio di Gesù consiste nel suo presentarsi ontologicamente (come un complessivo Dasein umano-divino che è da considerare, allora ed oggi, estremamente concreto e tangibile) ed inoltre nel Suo voler introdurre una del tutto nuova ontologia, ossia quella del Regno dei Cieli.8

Quest’ultima corrisponde poi ad un progetto di trasfigurazione del mondo che, come il pensatore sottolinea, intende essere in via di principio effettiva e storica.

Infatti soltanto il rifiuto umano opposto a Dio interviene a modificare l’inizialmente previsto corso delle cose; sospingendolo così verso la necessità della morte sacrificale di Gesù, quale unico presupposto possibile per una trasfigurazione verso la quale l’uomo resiste per natura.

Si potrebbe insomma pensare ad una sorta di vero e proprio «piano B» (cioè un piano successivo a quello iniziale), al quale Dio sarebbe stato costretto nonostante le sue originarie intenzioni − anche se è ovvio che questa può essere solo la rozza approssimazione dell’intelletto ad una verità che deve invece essere molto più alta.

Proprio a causa del peso che ha l’ontologia in tutto questo, l’etica che ne scaturisce diviene qualcosa di inevitabilmente secondario; in quanto essa è per definizione sempre ben più astratta dell’essere. Infatti dice Guardini, l’«etica di Gesù» corrisponde totalmente al suo stesso Dasein così come anche alla stessa nuova ontologia da Lui auspicata in quanto effettiva «realtà».9

Conseguentemente si tratta pertanto di un’etica totalmente sovrannaturale e sovrumana – nel cui contesto tutto (i «nuovi valori») viene soltanto dall’alto, e cioè dall’essere divino stesso. E quest’etica sovrumana non conosce alcuna distinzione tra «norma» ed «essere», così come tra «possibilità ideale» e «realtà attuale» − discrepanza che invece esiste drammaticamente nel mondo umano.

Ebbene colpisce subito la consistenza teologico-fideistica di questa serie di concetti, una volta posta a confronto con quella certa evanescenza filosofico-metafisica che è invece propria dell’ontologia cristica delineata dalla Stein. Con quest’ultima ella intende infatti illustrare una realtà piuttosto composita e complessa dal punto di vista filosofico; la quale rappresenta poi il punto di arrivo di una riflessione che prese le mosse dall’idealismo realista fenomenologico (ossia il progetto di mostrare le cose del mondo nella loro effettiva realtà di essenze) e pervenne infine ad un’onto-metafisica.10

Una volta giunta a questo punto la pensatrice volle dare una veste metafisico-religiosa al «mondo di essenze ideali» che era stato già configurato dalla Fenomenologia. Ed il concetto e nome sintetico di questo «mondo delle essenze ideali» religiosamente concepito, era di fatto quello di Gesù Cristo, ossia il Logos, ovvero l’idea delle idee.

Naturalmente anche in questo progetto interferirono molto tangibilmente concetti genuinamente teologici. Ma intanto l’aspetto complessivo del discorso appare dominato dallo sforzo di mostrare l’incarnazione di un Logos (il Logos cristico) che viene considerato di fatto equivalente alla stessa essenza ideale alla quale fa riferimento il logos filosofico specificamente fenomenologico.

Lo spirito del discorso guardiniano è invece sensibilmente diverso, anche se è chiaro che la Stein lo condividerebbe in pieno.

Il nostro pensatore intende infatti parlarci molto più di Gesù (prima ancora perfino di Gesù Cristo stesso) che non del Logos quale suprema Idea.

E più precisamente egli intende parlarci di Gesù come quell’essere pienamente umano-divino, del quale – almeno in relazione al suo messaggio – appare del tutto secondaria la natura di essenza ideale trascendente delle cose. Pertanto in questo senso a Guardini sembra stare a cuore porre in luce un’effettiva ontologia (ovvero quella teologica ed ancor più fideistica) e non tanto invece un’ontologia filosofica, ossia un’ontologia connotata essenzialisticamente (o anche sostanzialisticamente).

Tutto ciò va pertanto a convergere con la serie di precisazioni che abbiamo fatto recentemente sul discorso steiniano basandoci proprio su Guardini, oltre che su Maritain.11

Si approssima comunque maggiormente alla prospettiva steiniana solo quanto il pensatore dice in riferimento a quanto di Gesù può venire considerato davvero equivalente ad una vera e propria «Possibilità ideale originaria».12

Qui si tratta in particolare della potenza creatrice e rinnovatrice dello Spirito. E pertanto anticiperemo qui un solo aspetto di una problematica che poi riprenderemo più avanti.

Il pensatore tedesco sottolinea infatti che la «seconda nascita» procurata dal battesimo in spirito è ciò che restaura una condizione ontologica caratterizzata dalle «infinite possibilità» (unendliche Möglichkeiten).

Ed è così che si verifica quella nascita allo spirito, la quale configura una nuova ontologia, quella umano-spirituale. Essa era invece prima del tutto assente, dato che fino a questo momento l’uomo era sempre nato appena nella carne.

A tale proposito vi è quindi da chiedersi se sia giustificata la così netta affermazione steiniana dell’onto-spiritualità umana, in quanto essa procederebbe dall’essenza stessa di tutto ciò che è «uomo».

E di nuovo va qui osservato che la pensatrice afferma questo sul piano di un discorso che è sì metafisico-religioso ma comunque è soprattutto squisitamente filosofico. Non a caso ella si rifà all’intendimento fenomenologico dello spirito (nel contesto del quale è assente qualunque carattere religioso); e proprio Guardini sottolinea più volte (qui ed altrove) quanto lontano sia tale intendimento da quello religioso e quindi metafisico-teologico.13

Tuttavia, diversamente dalla Stein, il nostro pensatore si rifà in primo luogo proprio alla teologia, e cioè si rifà all’atto sacramentale del battesimo. È del tutto ovvio il fatto che la Stein non ignora il legame tra questo aspetto e la spiritualità umana, ma comunque non è certo di questo che ella parla quando sostiene che l’uomo «è spirito».

Ella sostiene invece che l’onto-spiritualità sarebbe un dono che all’uomo proviene per nascita esattamente «in quanto è uomo». E questo collima perfettamente con ciò che sembra suggerire anche l’umanesimo filosofico così fortemente criticato da Guardini.

Alla luce del discorso di quest’ultimo le cose non sembrano invece stare affatto come per la Stein; e ciò avviene in stretta relazione con i contenuti della Scrittura. In tale contesto, infatti, non si tratta affatto di un dono che avvenga naturalmente nel momento della nascita, ma si tratta invece di un dono che avviene alla nascita soltanto nel contesto di un atto rituale che lo stesso Gesù ha istituito nell’intento di trasformare la nascita naturale in quella sovrannaturale.

Ora è possibile che questa serie di ultimi significati siano in fondo impliciti anche nello stesso discorso steiniano.

Tuttavia non possiamo avere alcuna certezza in tal senso, dato che semplicemente ella parla di tutt’altro. Quello che è certo è invece che la natura filosofico-metafisica del suo discorso rende piuttosto lontano questo intendimento della nascita in spirito e dello spirito stesso.

Un ulteriore riferimento di Guardini alla Possibilità ideale si ritrova poi laddove egli illustra la corporalità spirituale di Gesù (che poi discuteremo più avanti a proposito del fenomeno dell’«andare-venire»).14

Questa caratteristica ontologica cristica risale al nucleo stesso dell’«in principio», e cioè al fatto che il Logos è il «primo nato» (Erstgeborene) in assoluto. Ossia è il Primogenito nel senso specifico di costituire il «prima» assoluto («prima di tutto», vor allem), per mezzo del quale tutto deve venire creato.

Egli è l’Origine. E vedremo alla fine quale immenso significato ha questo per l’intera ontologia. Infatti, proprio come tale, il Logos-Figlio è rispetto al Padre l’effettivo Dio dell’Essere, e cioè tutto quanto può esistere. In questo senso Egli è la Possibilità ideale assoluta di ogni cosa.

E bisogna osservare che a questo proposito la convergenza del discorso con la riflessione steiniana è perfetta. Tuttavia questo avviene perché in questa sede anche Guardini si avventura per le vie di quella metafisica giovannea che egli intanto considera troppo alta per poterci davvero lasciare intendere l’estrema concretezza dell’ontologia di Gesù.

 

2- Una morale dell’interiorità

 

L’altra serie di possibili rilievi riguarda l’etica del comportamento con tutti i suoi relativi risvolti interiori. Tema questo che è stato sviluppato molto intensivamente da Edith Stein.

Ebbene l’interpretazione guardiniana del «si si, no no» cristico ci offre un’integrazione di quanto la pensatrice sostiene relativamente a quella presa di posizione verso le cose del mondo che esige in primo luogo l’assenso ad esse (in quanto espressione di valori positivi) oppure invece il rigetto.15

Quanto Gesù propone è infatti una fedeltà rigorosa alla Verità divina che intende però essere leggera, e non invece pesante.

E quindi intende fare a meno di quel pesante apparato della Legge, che a tale proposito di presenta nella forma del giuramento in nome della verità. Cosa che però è  impossibile all’uomo, dato che egli mente sempre a paragone di Dio; il quale è il solo a non farlo mai.

Ma la fedeltà leggera alla verità, facendo a meno dell’apparato esteriore della Legge, si rifà necessariamente solo all’interiorità. È infatti in questa sede che la verità viene custodita; esattamente nello stesso luogo in cui Dio stesso si rende presente in maniera del tutto invisibile.

E va detto che a questi punti di orientamento si ricollega anche la Stein.

Esattamente con questa complessiva dimensione, presso Guardini (vedi nota 13), sta in relazione anche la prassi dell’auto-dominio nel campo di quelle emozioni desideranti, la cui violenza rischia sempre di travolgere, insieme a noi stessi, anche non solo la legge morale oggettiva (in quanto ordine) ma soprattutto il rispetto per il prossimo.

Siamo qui nel complesso dei nuovi comandamenti emanati da Gesù nel famoso Discorso della Montagna, e che qui vertono in particolare sul «non desiderare la donna d’altri».

Ed ancora una volta ciò che in tal contesto per lui deve prevalere non è il rispetto timoroso di una norma esteriore oggettiva, bensì invece quella scelta interiore del Bene che ci pone su un piano di intensa partecipazione volontaria alla Legge.

Guardini precisa al proposito che si tratta di affermazione dell’unità dell’uomo − nel senso che in tal modo intenzione ed atto divengono una sola cosa (in maniera che il cuore domini sempre sulla mano).

Ma va notato che tutto ciò configura una morale incentrata nell’interiorità alla quale la psicologa moderna ha voluto opporsi tentando di far prevalere invece una morale incentrata sulla sola esteriorità; e precisamente sulla sola efficacia dell’atto ai fini dell’adattamento dell’individuo all’ambiente. Parliamo qui soprattutto della moderna psicologia del comportamento. Tuttavia l’irrisione della morale interiore (il cui ultimo atto è stato l’imperativo categorico kantiano) da parte di quest’ultima trova una chiara eco nell’intera psicologia moderna.

Del resto quest’ultima giudica l’appropriatezza dell’atto sì in relazione all’interiorità, ma in termini negativi; dato che quest’ultima (in quanto profondo inconscio) condiziona l’atto cosciente proprio in senso negativo.

E la Stein, come Guardini, si tiene ben lontana da questo tipo di psicologia proprio ponendo anche lei un fortissimo accento sull’interiorità.

A tale proposito, quale frutto della morale incentrata sull’auto-dominio, il pensatore tedesco pone tra l’altro in evidenza delle conseguenze che si pongono entro lo stesso identico ordine di valori sostenuto dalla Stein, e cioè il prevalere di un’azione ispirata al «darsi» (sich hingeben), oppure (in caso contrario) al «negarsi» (verweigern).

Siamo con ciò insomma nuovamente all’assenso o rifiuto rispetto alle cose viste come valori. Ma Guardini intende con ciò esautorare anche la stessa presa di posizione kantiana (la cui lontana radice ci viene da lui qui indicata addirittura in Platone), dato che essa configura una morale dominata dalla sola «ragione»(Vernünftigkeit), e precisamente dal criterio della «misura» (Maß) nell’agire (che poi starebbe unilateralmente in relazione con la giustizia).

A tutto questo egli oppone l’impietosa constatazione dell’ineluttabile inclinazione umana al male, cosa che rende pertanto l’uomo in sé del tutto incapace di giustizia.

Secondo Gesù la giustizia può infatti sussistere solo nella sua pienezza davvero radicale, e quindi solo come amore.

Ed ecco che proprio quest’ultimo si presenta come il criterio che sottostà a tutto quanto abbiamo appena evidenziato − in luogo di ragione, misura e perfino efficacia adattativa dell’azione.

Il pensatore (assumendo così una posizione decisamente anti-platonica) parla quindi qui di un Amore che decisamente si pone al di sopra dello stesso Bene.

Ebbene, con tutto ciò la visione etica steiniana è senz’altro convergente.

E tuttavia manca in essa la delucidazione dello scenario teologico-scritturale al quale invece Guardini non si fa alcuno scrupolo di riallacciarsi. E questo distingue di nuovo nettamente due pensatori che furono comunque entrambi dei religiosi a tutti gli effetti.

Anzi la Stein lo fu ancora di più, essendo una monaca di clausura, rispetto all’altro che era invece appena un sacerdote. Pertanto di nuovo riemerge qui come fattore dirimente la veste esplicitamente ed unilateralmente filosofica che ebbe il discorso steinano rispetto a quello guardiniano.

Essa evidentemente fa sentire il suo effetto anche laddove i due discorsi sono fortemente convergenti; laddove tale convergenza avviene evidentemente sul piano filosofico- ed etico-religioso. Ciò significa però, almeno da un determinato punto di vista, che evidentemente, anche quando ha pregevoli contenuti, il discorso filosofico-religioso finisce per divenire incompleto se non riduttivo se esso intanto non riconosce costantemente un fondamento teologico-fideistico.

Non può meravigliarci quindi che, una volta riportato alle riflessioni di Guardini, il discorso steiniano acquisti una ben maggiore chiarezza e profondità anche in un altro campo molto prossimo alla valorizzazione dell’interiore. Si tratta del discorso circa l’empatia – sviluppato dalla pensatrice nell’opera specifica da lei dedicata a questo tema−, entro il quale emerge poi il vero elemento chiave della presa di posizione etica di fronte al mondo.16

Tale elemento è quello rappresentato dal venire «toccati» profondamente dai valori incarnati dalle cose, nel contesto di una relazione con il mondo in cui il sentimento non solo prevale sulla dimensione puramente teoretica ma assume anche una valenza specificamente etica.

Ebbene i chiarimenti offerti da Guardini circa il Discorso della Montagna culminano proprio nell’emersione di quello che è il valore dei valori (secondo il messaggio di Gesù), e cioè l’assoluta primarietà dell’altro.17

Ciò avviene quando inizia a vigere il principio del «non fare ad altri ciò che non vorresti sia fatto a te...» (ossia non giudicare, avere misericordia, perdonare etc).

Ma intanto, affinché l’attenersi a tale criterio sia davvero possibile all’uomo, è necessario che egli si dia ad un profondo ed empaticissimo sentire non più in alcun modo ego-centrico – e culminante nel «sentire l’altro» (mitfühlen) invece di restare concentrati unicamente su sé stessi (Selbstsucht).

In forza di tale sentire non è più assolutamente concepibile il così pilatesco «mi dispiace di ciò che gli accade ma questo non tocca me...».

Occorre invece la profonda convinzione (tradotta poi in concreto agire) che in verità l’altro non esiste affatto fuori di me – come invece il sentire naturale prepotentemente ci suggerisce.

E ciò implica l’altro elemento chiave dello stesso discorso steiniano sull’empatia, ossia la capacità di porsi emozionalmente nella stessa posizione interiore che l’altro sta vivendo in quel momento – che è poi in soldoni quanto la moderna psicologia conosce come la capacità di «assunzione della prospettiva altrui».18

Dunque bisogna divenire capaci di sentire il dolore dell’altro come se fosse il proprio; e ciò esattamente come se si fosse intimamente uniti all’altro.

E quindi si tratta di riconoscere totalmente l’altro nel suo assolutamente primario diritto di esistere. Il quale viene pertanto da noi riconosciuto come di gran lunga precedente il nostro diritto ad esistere – che invece si presenta sempre con tutto il corredo di quelle sue esigenze naturali le quali ci spingono a sentire il nostro egocentrismo non solo come pienamente legittimo ma anche come l’unico atteggiamento psicologico che sia per davvero sano.

Non a caso la moderna psicologia pone fortemente l’accento su questo assoluto criterio di igiene mentale – così liquidando e svalutando come patologica (o almeno sospetta) qualunque tendenza che si muova in senso contrario.

Ecco che proprio in questo ci viene rivelato che l’Amore supera di gran lunga qualunque gradazione del Bene.

Ed ecco che, come sottolinea Guardini, il nucleo nel messaggio di Gesù consiste proprio nell’esprimere con forza intransigente tale aspettativa – insomma non ci si può illudere di amare davvero se non si è capaci di tutto questo.

Solo quello appena illustrato è dunque l’amore nella sua pienezza, ossia quell’amore donativo che chiaramente ricalca il paradigma della dinamica inscindibilmente unitaria della Trinità.

Ancora una volta constatiamo a tale proposito una profonda convergenza tra la riflessione steiniana e quella guardiniana. E peraltro nelle fasi culminanti del suo discorso metafisico-religioso (cioè in EES) la Stein prende a modello proprio la dinamica trinitaria quale paradigma di Amore ed insieme Vita. Tuttavia anche qui emerge una tangibile discrepanza.

La nostra pensatrice infatti sembra volerci suggerire che l’interiorità umana sia modellata sulle capacità straordinarie appena illustrate come se essa fosse stata dotata in tal senso da un «dono» divino che configuri la «natura umana» stessa.

Quanto invece posto in luce da Guardini ci mostra che noi uomini siamo naturalmente del tutto sprovvisti di tali capacità. E quindi, se noi le possediamo, ciò avviene soltanto perché siamo «arrivati a» possederle – il che avviene nel contesto della nostra ferma e definitiva«decisione» a sposare integralmente il contenuto del Discorso della Montagna.19

La nascita ha naturalmente anche in questo caso la sua importanza (dato che il Battesimo cristiano ci pone in questa condizione).

Ma questo status ontologico ottenuto per via rituale è solo potenziale, dato che esso attende ancora di venire attualizzato.

Il che avviene nella decisione personale responsabile.

Tuttavia nemmeno questo potrebbe mai bastare se intanto non intervenisse l’elemento davvero decisivo per il possesso di cotanta dotazione, e cioè ancora una volta l’ontologia di Gesù. Infatti solo se noi ci apriamo totalmente a quest’ultima, solo se nella fede noi ci uniamo totalmente a Gesù come presenza personale (unica in grado di elevare la Natura al Sovrannaturale), solo in questo caso noi veniamo in possesso del dono.

È evidente che, al cospetto di questo, non si può parlare di alcuna «natura umana» costituita come tale dal dono divino fin nelle radici del suo essere. L’uomo, sottolinea con forza Guardini, è infatti di per sé«mondo», e solo «mondo».20

Ecco allora che − sebbene (nelle fasi conclusive della sua riflessione, e cioè in EES) anche la Stein finisca per fondare questo intero discorso sul Logos cristico inteso come paradigma ontologico assoluto del mondo ed ancor più dell’Essente umano quale specchio dell’Essente divino – riemerge di nuovo la grande discrepanza che sussiste tra una comprensione onto-essenzialistica ed invece davvero pienamente ontologica di Gesù Cristo.

Nel primo caso, cioè, prevale il paradigma di essere in quanto «possibilità ideale assoluta» (ossia in definitiva come purissima «potenza di essere»), mentre nel secondo caso prevale invece l’effettivo «atto di essere».

E questa costatazione converge fortemente con quanto abbiamo potuto evidenziare nel paragonare la visione steiniana con quella maritainiana (vedi nota 11).

Ebbene prendere in considerazione Gesù Cristo come «atto di essere» (come ci sembra faccia solo Guardini) non pone affatto in discussione la sua natura di Logos, ma comunque pone in immediato primo piano il totale mistero della sua umano-divinità. E questo si presenta a noi nella forma di un’ontologia che resta del tutto impermeabile a qualunque comprensione e categorizzazione filosofica.

Non a caso proprio il nostro pensatore ci mette in guardia dalle eccessive sofisticazioni metafisiche del discorso circa Gesù.21

Il che lascia di nuovo venire in primo piano la dimensione teologico-scritturale in tutta la sua portata prima di tutto fideistica, ossia come piano sul quale sviluppare quella che è molto più esperienza che non invece pensiero.

Ebbene, il porsi senza intermediazioni davanti al mistero diviene in tal modo (come poi vedremo meglio più avanti) l’autentico ago della bilancia dell’intera questione. La filosofia infatti, per quanto religiosa e/o perfino cristiana, si ricusa sempre e per definizione di abbandonarsi a quest’atto. E per tutto questo ci sembrano davvero emblematiche le parole rivolte da Sant’Antonio Abate ai filosofi (peraltro pagani ma intanto religiosi), nel criticare la totale impotenza – al cospetto del mistero della Croce − dei loro metodi conoscitivi («ragionamenti dimostrativi» e «dimostrazioni razionali»), verso la invece così intellettualmente penetrante sapienza che proviene dall’«atto di fede».22

Tali parole contrappongono così radicalmente «filosofia»(conoscenza) e «fede» da far risaltare addirittura la superiorità del credente illetterato.

E peraltro egli dimostra quello che dice attraverso la sua capacità di guarire i malati per mezzo di Cristo, laddove invece i filosofi sono del tutto impotenti. Mai come qui, insomma, diviene chiaro l’immenso vantaggio addirittura conoscitivo che proviene dall’affondare la propria sapienza direttamente nella Rivelazione e quindi nella Scrittura – Antonio dice infatti che la fede «...manifestamente precede l’argomentazione razionale».  

Certamente però resta la profonda convergenza dei discorsi guardiniano e steiniano rispetto alla decisività del luogo interiore come punto di partenza di quella presa di posizione cristiana la quale non può essere autentica se non si pone in sintonia con la stessa più tipica attitudine divina, ossia quella amorevole.

Guardini dice infatti che, proprio in quanto Dio stesso guarda a mondo a partire dal profondo del cuore non solo proprio ma anche umano (cioè a partire dall’interiorità stessa dell’uomo), ogni infinitesima particella di essere mondano (dal granello di sabbia al più infinitesimo attimo) ha per lui un’importanza cruciale, ossia un senso assoluto.23

E questi infinitesimi particolari hanno per Lui un’importanza di gran lunga maggiore di qualunque grandioso sistema cosmico.

In altre parole Egli guarda al mondo partendo dallo stesso identico punto di vista umano, secondo il quale ciò che in quel momento sta accadendo al suo protagonista (in assoluto una mera inezia, che nessuna importanza ha nel contesto dell’Ordine cosmico) è di importanza capitale. Sta qui dunque la radice dell’attitudine di Gesù a sentirsi profondamente

«scosso» (erschüttert) dal dolore umano. È pertanto evidente che Dio è per il cristiano solo e soltanto Colui che ama; non invece quel «dio astronomico» che poi nella religione non giudaico-cristiana è il garante massimo della Giustizia assoluta come indifferenza alle così insignificanti vicende umane. Insomma, ne conclude Guardini, quello cristiano non è affatto (se non relativamente) il dio della «maestà» (Herrlichkeit) intangibile, né tanto meno è l’«assoluto» dei filosofi.

Egli è semmai Colui che si interessa del destino umano (e lo determina perfino nel contesto del piano divino) dal punto di vista specifico del dolore.

 

3- Amore e Verità

 

Inevitabilmente, una volta posta così in primo piano la dimensione dell’Amore, la dimensione della Verità finisce per assumere (almeno nel contesto delle nostre umane possibilità di comprensione) un luogo di secondo piano. Ed anche questo segna fatalmente una certa piuttosto netta linea di demarcazione tra la riflessione steiniana e quella guardiniana.

Lo possiamo constatare a proposito di diversi aspetti del discorso del nostro pensatore.

Uno di questo è quello che riguarda quell’attitudine a fare la volontà del Padre nella quale Gesù è da considerare un assoluto paradigma.24

Secondo Guardini Gesù si presenta a noi come Parola ed insieme Verità assoluta dell’essere proprio perché Egli ci indica quest’ultima esattamente nell’Amore.

Laddove poi la necessità dell’Essere (quale Verità) in forza dell’Amore generativo (creativo) si rivela costituire lo stesso più profondo «mistero della volontà di Dio».

Tutto ciò significa allora che la prima e più rilevante delle verità circa l’Essere consiste proprio nell’Amore divino che prepotentemente porta l’essere stesso allo scoperto (differenziandolo in tal modo dal Nulla).

Ed in tal modo sotto il nostro sguardo viene in primo piano quella Volontà che è insieme Amore e Verità, in quanto è sempre Vita infinitamente donante sé stessa. Ecco che quindi, come dice Guardini, l’essenza stessa del mistero della Volontà divina consiste in quell’«unità della vita» che è appunto Amore e nello stesso tempo Verità, perché essa mette capo ineluttabilmente alla necessità di un Essere, il quale (una volta colto nella sua pienezza) coincide totalmente con l’essenza divina, ossia la Vita generante.

Non si tratta dunque affatto di un Essere qualsiasi, o anche dell’essere necessario in quanto casuale e indifferente che la scienza naturale è andata man mano concependo. No! Si tratta invece esattamente dell’Essere divino stesso. La Volontà divina è l’Essere divino stesso in quanto Vita amorevolmente auto-donantesi. E sta dunque soltanto in relazione a questo quella che è la più alta delle Verità − «la verità è che...» l’Essere è solo Amore, e quindi è Dio.

Appare pertanto del tutto evidente che questa non è affatto la verità inseguita dalla filosofia.

Lo prova in primo luogo il fatto che essa è ontologicamente del tutto secondaria, e pertanto non fonda affatto l’Essere, ma semmai ne è fondata. Ecco allora che l’Essere (e precisamente quello divino) assume il primato assoluto su ogni genere e grado di Conoscenza. E con tale costatazione indubbiamente vacilla paurosamente l’intero edificio della Filosofia.

Se allora, entro il più profondo messaggio di Gesù, tutti questi elementi si presentano a noi sotto il segno della «volontà», ciò significa che il compito (da Lui a noi assegnato) di fare la volontà divina consiste nell’Amore in Persona colto nell’atto di chiederci di «compiere» (vollbringen) ciò che in verità non è affatto nelle nostre capacità umane. Siamo insomma di nuovo all’accento posto sulla natura sovrumana della capacità di amare colta nella sua vera pienezza.

La Stein si sofferma molto su questo insieme di significati nel corso di quella sua riflessione sulla Trinità, con la quale di fatto viene a compimento il suo intero percorso filosofico prima di sprofondare nell’ultimissima fase mistica. L’intera seconda parte di EES è infatti dedicata proprio a questo tema, ed in essa emergono formalmente gli stessi elementi posti in luce da Guardini una volta colti nella loro intima correlazione – Amore, Vita, Verità.25

Ma la nostra pensatrice intende con tutto ciò pervenire al culmine metafisico-religioso di un discorso che aveva preso le mosse dal senso dell’essere, così come era stato indagato dalla Fenomenologia husserliana, ed era poi anche ormai già passato per il concetto tomista di «verità dell’essere».

E l’elemento che le permette di rinsaldare i due aspetti qui coinvolti − «senso» (Verità, o Conoscenza) ed «essere» − è ancora una volta squisitamente filosofico, oltre che teologico-metafisico, ossia è il Logos cristico. Quest’ultimo è per la precisione l’«essenza» ideale ultima nella quale risiede la radice di ogni «essere»; ossia quella «verità» che presiede alla ragione di essere di qualunque ente cosale-oggettuale, e cioè il suo «senso». Naturalmente in tal contesto sono essenziali gli aspetti teologici prima posti in luce (Amore-Vita), e che alla Stein provengono in questa fase soprattutto da Agostino (oltre che in parte da Paolo).

E tuttavia l’intima cogenza che guida il suo discorso è quella squisitamente filosofica della Verità. Laddove abbiamo poc’anzi constatato quanto tale cogenza sia invece relativa.

Inevitabilmente, dunque, passa così in secondo piano quell’aspetto che invece il Guardini pone al centro stesso della questione (contrassegnata dagli elementi Amore-Vita), e cioè quella Volontà della quale ciò che più importa è la prassi. Prassi sovrumana le cui linee-guida ci vengono dettate da Gesù, e che ancora una volta esige la totale identificazione volontaria dell’uomo con la Sua ontologia. Ciò che ci viene richiesto è insomma, in poche parole, la nostra capacità di «fare la volontà del Padre» sull’esempio e modello di Gesù; ossia quel Figlio che è poi anche (quale Logos) la Verità dell’Essere stessa in persona. Proprio in tal modo appare però evidente quanto la Verità sia condizionata all’Essere divino.

In altri termini, comunque, ciò che qui sta in primo piano è il «fare» e non invece il «comprendere».

Ed ecco allora che risulta chiaro il perché della restrizione del discorso steiniano, nonostante l’evidente sua condivisione di quel «fare» sul quale qui Guardini pone l’accento.

Il suo discorso insomma era rivolto al consesso dei filosofi e non invece all’uomo comune. Esso putava infatti primariamente alla Verità, ossia alla Conoscenza, sebbene (molto coraggiosamente) si era appena misurato (specie per mezzo di Tommaso) con la pienezza dell’essere.

E proprio per questo esso, dunque, il discorso steiniano non si muoveva affatto in primo luogo sul piano teologico-fideistico.

Certo è comunque che il discorso guardiniano – nel suo sforzo di esplicitare cosa sia concretamente il «fare la volontà del Padre» (ossia un reiterare umano entro la storia la «catena sacra» unente Padre e Figlio nell’atto del«mandare», per mezzo del mandato affidato da Gesù ai discepoli e per mezzo della loro continuazione di tale opera in relazione a tutti gli uomini del mondo) – pone in evidenza quel binomio «Amore-Vita» (quale nucleo dell’esondante dinamica amorosa intra-trinitaria) che indubbimente anche per la Stein è punto di riferimento fondamentale (specie sulla base della riflessione di Agostino sulla Trinità).26

Infatti il nucleo stesso della sua riflessione sulla Trinità consiste nell’equivalenza da riconoscere tra «Amore»(Liebe) e «Vita»(Leben) – laddove la lingua tedesca esprime davvero alla perfezione l’equivalenza addirittura semantica esistente tra le due realtà (Liebe – Leben).

Ecco che allora entro tale dinamica domina la Vita come Amore sostanzialmente perché il «comandamento» (Gebot) insito nell’atto di missione è quello del «restare nell’amore» così come, nella complessiva dinamica, il Figlio resta nel Padre – amare il Padre così come amare Cristo (il Figlio) si manifesta proprio nel serbare e mettere in pratica il comandamento dell’amore. E se così non è, allora si tratta di un amore falso e farisaico. Quello di Guardini è dunque a tale proposito un discorso estremamente concreto. Esso punta infatti direttamente alla prassi che scaturisce dalla conoscenza. Quello steiniano non è invece decisamente di questo genere.

 

4- Cos’è davvero lo «spirito»?

 

Ebbene proprio per questa via noi possiamo approssimarci ad uno dei più sensibili indicatori della possibile discrepanza esistente tra il discorso guardiniano e quello steiniano, ossia il tema dello Spirito.

Infatti l’intera dinamica della missione – che rinsalda l’essere ed agire umani all’essere ed agire divino (o Trinità) − si svolge entro la dimensione che Guardini definisce come l’«in spirito».

E con ciò egli riferisce ad un insieme complesso di significati i quali pongono in primo piano l’estrema sottigliezza della presenza divina – così come essa si manifesta agli uomini per mezzo del Figlio, e così come essa poi si manifesterà al mondo per mezzo dell’azione degli uomini ormai decisisi alla fede (ossia pronti ad eseguire il mandato divino).

Sebbene paradossalmente, insomma, qui più che mai Dio si manifesta come un Invisibile che rasenta realmente l’impercettibilità, e quindi provoca la fede umana davvero ai limiti della sopportabilità.

Tutto ciò prende specificamente corpo nella volontaria «debolezza» con la quale Dio, ossia lo Spirito, sceglie volontariamente di manifestarsi; sebbene sia alla Sua portata il potere di schiacciare il mondo e l’uomo con una Verità (la Luce) che assolutamente non sarebbe possibile rifiutare.

Se però Dio facesse questo, verrebbe fatalmente in primo piano quella sua insostenibilità ontologica che inevitabilmente annienterebbe il mondo e l’intero Essere. Il che sta poi in conflitto radicale con il ben più essenziale Amore divino. Dio insomma ritornerebbe ad essere il Dio del Diluvio.

Ed il Vecchio Testamento stesso attesta che Egli aveva giurato di non tornare mai più a presentarsi in questo modo così spaventevole – insomma, nonostante la così ostinata protervia umana (chiaro esito del Peccato), le ragioni dell’Essere avevano in Lui prevalso per sempre su quelle del Nulla.

È in ragione di tutto questo che Dio sceglie di manifestarsi come servo e povero; esponendosi quindi inevitabilmente al venire schiacciato da quella sprezzante violenza che il mondo è aduso impiegare sempre e per definizione verso gli indifesi e gli ultimi.

Sta dunque proprio in questo il nucleo orribile del mandato divino. Esso vale cioè per Lui stesso prima che per chiunque altro.

Ed infatti gli stessi discepoli ed apostoli dovranno venire «mandati» da Gesù come pecore in mezzo ai lupi.

In tutto questo l’Amore divino si manifesta pertanto con una pienezza ed insieme delicatezza che tradiscono intanto una Sapienza davvero inarrivabile per l’uomo. Infatti, sottolinea Guardini, «forse è proprio la debolezza dell’uomo, ciò che rende Dio debole».

Dio sa insomma che non vi è altro modo per manifestarsi senza intanto schiacciare l’uomo sotto la sua Potenza. E così avviene che quanto è più provocatorio per la fede (l’invisibilità divina) si rivela essere invece il culmine della delicata, profondissima e soprattutto amorevolissima Sapienza divina − noi non vediamo Dio non solo perché siamo diversi da Lui ma anche perché Lui, nel manifestarsi, deve farsi debole per non schiacciarci.

Inevitabilmente la dimensione dello Spirito si delinea proprio qui in uno dei suoi aspetti più drammatici nel contesto dell’esperienza di manifestazione divina per mezzo di Gesù. Si tratta insomma del fatto di far comprendere agli uomini religiosi (qui esemplificati dagli Ebrei) che noi abbiamo in Dio il «Padre» solo e soltanto appunto «in spirito», e cioè del tutto in apparentemente.27

Non invece manifestamente nella carne, come avviene nella razza (e storia di un popolo) che pretende di risolvere in sé il del tutto sublime concetto di «popolo eletto»!

Gesù cerca insomma di far capire che noi non siamo figli di Dio appena in Abramo, e che è quindi riduttivo pensare che realmente Abramo sia il nostro Padre. In altre parole è solo «in spirito» che noi «abbiamo solo un Padre, Dio!»

Eppure è esattamente in nome di tutto ciò che Gesù viene rifiutato dagli Ebrei, e cioè in definitiva dall’uomo in generale.

Ma la modalità del rifiuto ci conduce intanto davanti ad un tema di importanza cruciale, e cioè quello dell’effettivo credo nell’immortalità. I dottori infatti contestano a Gesù che, se Abramo stesso (ossia l’uomo più prossimo a Dio) è stato soggetto alla morte, è allora assolutamente blasfemo sostenere che Gesù, presentandosi come la Parola salvatrice, possa salvare l’uomo dalla morte.

Ed a questo Gesù obietta che Egli è la Vita stessa proprio in quanto (esistendo da molto prima di Abramo) è venuto a portare all’uomo il divino stesso nella sua immediata prossimità – e non invece solo indirettamente, come era avvenuto entro il patto stipulato da Abramo con Dio. Egli è pertanto la manifestazione tangibile di quel Padre che noi intanto possiamo cogliere solo inapparentemente.

Egli è insomma venuto a portare all’uomo l’immortalità stessa. Ma sta di fatto che l’uomo religioso perso nell’immanenza (qui l’Ebraismo religioso) arretra con orrore davanti a questa offerta proprio perché egli aveva preteso di trasformare in un discorso umano-naturale (cioè razionale) un discorso che invece è soltanto divino e sovrannaturale.

E a tale proposito lo studioso di Edith Stein non può che restare estremamente colpito, dato che la pensatrice addusse a motivo della sua conversione tra l’altro proprio la sua costatazione dell’assenza di un vero credo nell’immortalità entro la religiosità ebraica.28

È chiaro che con ciò ella si riferisce per lo più alla religiosità rabbinico-essoterica, e non invece a quella esoterica (entro la quale invece il concetto di immortalità è molto ben delineato).

Tuttavia questo aspetto sottolinea le urgenze esattamente teologico-fideistiche che comunque sorressero sempre il suo percorso filosofico-metafisico. E quindi ciò sembra confermare che tutto quanto è presente nel discorso guardiniano, e non invece nel suo, deve evidentemente restare solo sullo sfondo piuttosto che mancare per davvero.

Ma il motivo di ciò è evidentemente di nuovo la primaria preoccupazione filosofica che guidò la sua riflessione. In ogni caso comunque, siccome tutto ciò sta in intima relazione con un concetto di «spirito» che è genuinamente cristiano e non invece ebraico, si viene colti dal sospetto che i limiti ai quali sembra andare soggetto il relativo concetto steiniano (e che illustreremo tra poco) possano essere dovuto non solo alla natura filosofica del suo discorso ma anche all’eredità religiosa che le proveniva dall’Ebraismo.

Tuttavia la principale limitante storico-filosofico e storico-teologica non è affatto l’Ebraismo.

Infatti a tale proposito Guardini pone molta cura nel differenziare il concetto di «spitito» autenticamente cristiano da quello che viene ritrovato entro la tradizione filosofico-metafisica occidentale.29

Ma non a caso egli inizia questo discorso proprio dall’Ebraismo, e cioè dalla difficoltà, da parte di Nicodemo (l’unico fariseo che abbia intuito la natura divina di Gesù), di comprendere il potere di rigenerazione vitale che è in possesso dello Spirito.

Egli insomma si rifiuta di accettare che sia possibile, a lui ormai vecchio, una rigenerazione ontologica (per mezzo dello Spirito) che corrisponde poi (secondo il discorso di Gesù) ad una vera e propria rinascita. Egli insomma si rifiuta di ammettere la possibilità che Gesù, cioè Dio, sta realmente offrendo all’uomo l’immortalità.

Guardini ci mostra però che la trappola intellettuale consiste a tale proposito proprio nell’immanentismo della concezione dell’uomo. Proprio qui egli sottolinea infatti che, secondo l’insegnamento di Gesù, l’uomo va considerato soltanto«mondo».

Il che significa che, se noi possiamo attenderci una così radicale trasformazione della nostra natura (ossia la perdita di quella mortalità che è ineluttabile ed incancellabile conseguenza del Peccato), ciò può avvenire in verità solo e soltanto «dall’alto» (von oben her).

Può avvenire insomma solo a partire da uno Spirito del quale va fortemente sottolineata la trascendenza.

Solo così è possibile quello che è per davvero un «nuovo inizio»− e che Nicodemo stenta molto ad accettare perché contraddice frontalmente non solo le leggi ineluttabili della Natura, ma anche una Rivelazione (quella ebraica) che (almeno così come era stata intesa storicamente) non ha mai per davvero affrontato tali leggi.

Ebbene proprio questa è l’azione dello Spirito. Che quindi va considerato un’ontologia in sé unicamente trascendente, e che però non esita ad interagire concretamente con la dimensione corporale-materiale, a sua volta ineluttabilmente soggetta alla temporalità.

Proprio essendo trascendente, dunque, lo Spirito ha il potere di trasfigurare totalmente la corporalità; il che avviene assimilandola alla propria stessa ontologia. Ma ciò non avverrebbe affatto se lo Spirito (nella sua trascendenza) stesse in radicale opposizione alla corporalità, e cioè all’immanenza ontologica.

E questo è esattamente quanto è stato sempre presupposto nella tradizione filosofica.

Guardini chiarisce quindi che lo «spirito» (così come viene inteso da Gesù, e quindi così come vi viene presentato nelle Scritture del Nuovo Testamento) non è in alcun modo immanente, ma è invece solo divino e trascendente, cioè Padre (Trinità) e quindi è realmente Pneuma. Ma a questo punto egli si vede costretto a constatare che lo «spitito oggettivo»,  così com’è stato concepito dalla filosofia occidentale (specie dal XIX secolo in poi), è esattamente uno spirito inteso come ontologia radicalmente opposta alla corporeità. Anzi esso è stato di fatto concepito come non-ontologico.

E precisa inoltre che tale intendimento è quello che, entro la tradizione filosofica più distante dalla religiosità, ha voluto identificare lo spirito oggettivo con la «cultura»(opposta a sua volta alla Natura).

Resta insomma quell’intendimento trascendente dello Spirito che è in fondo presente anche nel Cristianesimo – ossia come ontologia che trascende l‘uomo inteso intanto solo come «mondo» e «carne».

Ma si tratta di una trascendenza inconciliabile, nel contesto della quale non può in alcun modo venir concepita quell’azione rigenerante dello Spirito della quale le Scritture parlano invece esplicitamente (manifestando in tal modo il nucleo stesso del messaggio di Gesù).

Ed infatti Guardini sottolinea con molta forza il concetto paolino (Corinzi) secondo il quale del tutto «vana» è la fede cristiana in assenza del credo nella Resurrezione.30

Peraltro al cospetto di tutto ciò va constatato anche che in definitiva, entro il tradizionale discorso filosofico, finisce per prevalere un concetto solo riduttivo dell’ontologia spirituale – essa è infatti «cultura» (ossia è «conoscenza», «verità», «senso»), e cioè è quanto di più evanescente possa mai essere dato, visto che si tratta dell’esatto contrario di ciò che è «essere», ossia il «mondo».

Orbene qui come non mai si delinea il criterio della Scrittura come elemento di radicale dirimenza.

L’intera argomentazione di Guardini si incentra esattamente sul fatto che, per comprendere cos’è «spirito» in senso cristiano, bisogna attenersi scrupolosamente a quanto risulta nelle Scritture.

Ma, come abbiamo visto, ciò pone inevitabilmente tra parentesi quanto è presente entro il discorso filosofico.

A tale proposito il nostro pensatore si riferisce in particolare al pensiero laico, e cioè di fatto al concetto idealistico di Spirito che si affermò dall’Idealismo tedesco in poi. Tuttavia, se teniamo presente che il concetto di «spirito oggettivo» è stato uno dei cardini della riflessione steiniana nella sua fase più matura, allora ciò significa che quanto Guardini critica fu ben presente anche entro la filosofia religiosa moderna.

A onor del vero va detto che la Stein si sforzò molto di collocare questo così riduttivo concetto di Spirito nel contesto di un grande disegno filosofico-metafisico, il cui elemento fondamentale era proprio l’intima interazione dinamica da riconoscere tra Spirito e Materia – per l’approfondimento di tale aspetto rimandiamo però al nostro saggio sintetico (vedi nota 10).

Tuttavia ella impiegò comunque molto largamente il concetto di «spirito oggettivo»; e peraltro non esitò affatto a considerarlo anche lei come «cultura»(specie restando in continuità con lo sviluppo che ella aveva dato a questo concetto sulla base della Fenomenologia husserliana nelle sue prime opere).

E Guardini (qui ed altrove) definisce questa tendenza filosofica come uno «spiritualismo» che è sostanzialmente lontano dalla dottrina cristiana proprio in quanto è unilateralmente filosofico.31

Non a caso la piena concezione dell’ontologia di Gesù viene per lui fortemente ostacolata da questa presa di posizione.

Qui insomma la complessiva presa di posizione steiniana appare essere davvero molto fortemente in linea con la filosofia moderna.

E quindi sembra davvero fortemente a rischio di condividerne il riduzionismo e perfino la coartazione di quel concetto di Spirito che (almeno sul piano puramente metafisico-religioso) trova invece nel Cristianesimo un paradigma pressoché perfetto. E questo pone di nuovo in evidenza il paradosso, comportato per una pensatrice religiosa e profondamente cristiana, dal fatto di non fare direttamente riferimento alle Scritture.

E siccome qui ne va in definitiva dell’ontologia spirituale, non è affatto un caso che la discrepanza addirittura aumenti se si passa ad esaminare aspetti più prossimi proprio all’ontologia.

Ciò può avvenire laddove Guardini si dedica al chiarimento di ciò che è l’autentico «vedere» secondo il messaggio di Gesù.32

Egli chiarisce che proprio su questo vertè uno dei più violenti conflitti che insorsero tra Gesù e Farisei − dato che la Sua opera terapeutica sui malati (miracoli) riguardò non a caso i ciechi quali paradigmi di quegli infimi che, entro l’ordine religioso ebraico, venivano considerati esclusi dalla purezza e rettitudine (propria invece solo degli eletti, ossia i profondi conoscitori della Legge).

Esattamente costoro si rifiutarono però di accettare la venuta di Dio in Gesù; e non a caso ciò avvenne proprio nel rifiutare la natura divina della sua azione terapeutica.

Al netto delle conseguenze, accadde quindi che i ciechi finirono per vedere mentre invece i vedenti mostrarono tutta la loro cecità. In tal modo emerge quindi la fatale cecità dell’uomo, che è paradossalmente massima nel momento in cui egli (nel dichiararsi sommamente religioso, ossia vedente al grado massimo possibile) ritiene di essere in possesso del dono della vista in maniera addirittura paradigmatica.

Ecco allora che l’autentico e sano uomo «cieco» è alla fine soltanto chi sa bene che con la sua umanità (e tutto il connesso sapere) resta comunque nel buio rispetto a Dio. Ebbene Gesù ci mostra che solo quest’uomo riceverà in dono la Luce.

Si tratta insomma di quei «piccoli» ai quali è stato rivelato dal Padre il Regno, in concorrenza con quei «grandi» nei quali Gesù stesso riconosce piuttosto scopertamente proprio i sapienti per eccellenza, ossia non solo i dottori della Legge ma anche i filosofi.

Questa estensione di significato diverrà del resto evidente prima in Paolo e poi in tutta la tradizione dei pensatori cristiani.

Ma con tutto questo Guardini pone allo scoperto una presa di posizione che alla fine è essa stessa filosofica, ossia un vero e proprio realismo.

Egli chiarisce infatti che chi davvero vede (perché vuole davvero vedere) è per la precisione chi si espone come uno «specchio» alle cose reali esistenti (per quanto invisibili), e quindi si sottomette pienamente al loro «influsso»-

E ciò pone in evidenza da un lato la cosa come «fenomeno» e dall’altro lato la pienezza dello «sguardo» che la coglie – i due elementi risultano infatti convergenti in un realismo estremamente radicale. In tal contesto, insomma, il «vedere» sta in intima relazione con il «veduto» in maniera tale che diviene vedente solo chi sceglie di vedere. E solo così gli si rivela la «pienezza dell’oggetto» (Gegenstandfülle).

Ebbene se c’è un elemento che ricorre in tutto il pensiero steiniano questo è proprio quello che poi la spinse irresistibilmente verso la Fenomenologia husserliana. È cioè la possibilità di ritrovare per via filosofica quella pienezza delle cose che si era dissolta ad opera del positivismo e della scienza empirica – la cosa era stata infatti scomposta nei suoi elementi costituitivi, e quindi ne era divenuta inaccessibile quella pienezza (ossia l’essenza) che è rintracciabile solo per via filosofica.

Più avanti questo interesse della pensatrice per le cose nella loro pienezza si era spinto sempre più sul piano di un’ontologia, entro la quale finì per emergere un realismo che invece era sempre stato assente nella Fenomenologia husserliano. E questo può venire considerato vero anche se il pensiero steiniano restò sempre (proprio in quanto essenzialista) un «idealismo realista» − come abbiamo mostrato nella nostra tesi di dottorato.33

Eppure quanto viene evidenziato dal Guardini ci mostra che nemmeno lei pervenne mai al così radicale realismo che è desumibile dal messaggio di Gesù in relazione al «vedere».

In altre parole la vera soddisfazione della domanda fenomenologica (circa il senso delle cose) si ottiene proprio entro quel realismo che la fede in Gesù autorizza e la filosofia invece rigetta.

Di nuovo emerge quindi l’ostacolo rappresentato dalla filosofia sul cammino di un pensiero che per davvero si lascia illuminare integralmente dalla Scrittura. In esso infatti perfino le prese di posizione filosofiche emergono esulando in fondo dalla tradizione del pensiero umano; e si costituiscono così invece solo e soltanto sotto la spinta delle sollecitazioni esercitate dal messaggio di Gesù.

E ciò avviene sostanzialmente in quanto la così radicale etica, comportata dalla prospettiva del Regno dei Cieli, sta in assoluto primo piano. Il che ha poi tutte le possibili conseguenze, inclusa una visionarietà che decisamente prescinde dal così rigoroso «buon senso ragionevole» che nessun filosofo oserebbe mai dismettere.

Qui insomma la pienezza dell’oggetto – ossia quel “Gegenstand” intorno al chiarimento del quale si era affannata l’intera Fenomenologia del XX secolo (da Husserl, a Stein, a Scheler ed a Heidegger) – emerge proprio per questa via etico-visionaria. Per questa via si vedono infatti addirittura «le cose del Regno di Dio» (die Dinge des Reiches Gottes).

E quindi il realismo radicale risultante da tutto questo, è ciò che è esattamente in quanto esso è filosofico solo nella misura in cui in verità non lo è affatto. Ed a questo genere di realismo la Stein obiettivamente non approdò mai.

Ne è del resto prova il fatto che (stando al Guardini), nell’assumere in pieno la prospettiva visiva proposta da Gesù, tutto ciò che è definibile come «volontà di vita» diviene totalmente secondario.

Essa cessa insomma di pretendere di porsi al di sopra dello sguardo e addirittura batterlo.

Ciò che ne scaturisce è pertanto uno sguardo davvero pieno, in quanto totalmente aperto, che sopravanza qualunque «presa di posizione» (Stellungnahme).

E con quest’ultima va evidentemente intesa una condizione nella quale − nonostante la straordinaria carica emozionale che in essa può esservi (cosa sottolineata proprio dalla Stein) – il distaccato pensiero prevale comunque sull’intensa partecipazione alle cose (secondo il progetto di trasfigurazione proprio della dottrina del Regno dei Cieli).

Per quanto possa apparire paradossale, dunque, tale distaccato pensiero si rivela essere una sola cosa con la «volontà di vita» e cioè una presa di posizione che, pur volendo essere filosofica (e quindi per definizione serena), reca fin troppi dei tratti che sono invece propri della così vitalistica «volontà di potenza».

Peraltro quanto qui stiamo constatando collima anche con quanto abbiamo dovuto constatare (a detrimento dell’essenzialismo steiniano) in un ambito propriamente filosofico, e cioè a confronto con la pienezza dell’«atto di esistere» posto in primo piano da Maritain (nota 11).

Questo elemento filosofico relativizza totalmente la conoscenza all’obiettività oggettuale («esistente»), ma intanto in questo modo la potenzia straordinariamente proprio nel sottrarla alle così pesanti ipoteche gettate su di essa dalla soggettività.

Ed in tal modo si configura quindi anche sul piano filosofico quel realismo davvero pieno al quale la nostra pensatrice non era mai voluta pervenire. Nella nostra tesi di dottorato (nota 33) avevamo definito quest’ultimo come «realismo religioso».

E Guardini ci conforta alquanto in questa nostra definizione.

In tale contesto emerge del resto una problematica filosofico-metafisica molto ampia e dibattuta, che ha sempre toccato molto da vicino la dottrina religiosa cristiana.

Il che è avvenuto esattamente perché nel suo contesto è assolutamente impossibile non concepire un realismo per il semplice fatto che essa (come del resto anche la dottrina religiosa giudaica) prende le mosse dall’evidenza ineluttabile di una creazione divina in assenza della quale non vi è altro che il Nulla.

Riprenderemo poi questo tema a proposito del concetto di Dio-Essere.

La problematica della quale parliamo è quella della relazione tra idealismo e realismo. A tale proposito vi è da constatare che il pensiero umano ha conosciuto un idealismo molto estremistico quasi solo nella Tradizione orientale. Infatti nemmeno l’idealismo platonico è mai pervenuto agli eccessi dell’idealismo orientale.

Ne abbiamo parlato in alcuni nostri articolidedicati al pensiero antico.34

Ma ancora oggi la filosofia indiana contemporanea ha ribadito questa posizione nel contesto della «psicologia trascendentale» di Batthacharyya.35

Tale dottrina, infatti, rielaborando proprio l’antico Vedanta, ritiene che ogni cosa vada riportata ad un «Se» che travalica perfino l’Io del classico idealismo trascendentale di stampo kantiano, e quindi costituisce una presenza ontologica talmente iper-soggettuale da non poter venire in alcun modo considerata come un effettivo «oggetto» di conoscenza. Entro l’auto-conoscenza, infatti, il Sé unicamente si «rivela» a noi stessi nel contesto di una «fede» e non di una conoscenza – esso insomma viene conosciuto pienamente anche se (come riteneva Kant) sta del tutto al di là di qualunque esperienza. Se però confrontiamo tutto ciò con una delle più idealistico-platoniche elaborazioni delle Scritture giudaico-cristiane, e cioè quella di Filone Alessandrino, dobbiamo qui constatare che (già prima che venisse formulata una metafisica cristiana) risulta impossibile concepire un soggetto costituente il mondo reale (ossia l’intelletto conoscente), senza che dall’altro lato si presupponga intanto un mondo oggettuale (incontestabilmente reale) che altro non è se non il mondo creato da Dio.36

Filone parla di questo commentando il luogo del Genesi in cui si parla di un intelletto che «irriga» (e quindi in qualche modo costituisce) le cose sensibili; ma ciò avviene solo nel senso di sollecitarle ad esercitare su di esso un influsso («impulso») per mezzo della sensazione.

Quindi in ambito giudaico-cristiano al massimo è concepibile un idealismo in equilibrio con un realismo; mai invece un idealismo estremistico.

Ecco insomma che (tenuto conto anche di ciò che abbiamo appena detto), dal confronto con la riflessione guardiniana, la Stein esce nuovamente piuttosto malconcia (insieme a tutto il suo tendenziale idealismo).

E ciò accade proprio in relazione a quell’elemento così cruciale (dal punto di vista etico-religioso) che è la presa di posizione.

Essa si rivela essere infatti molto meno carica sentimentalmente di quanto sembra a prima vista, si rivela inoltre essere molto più distaccatamente «filosofica» (cioè «puramente teoretica») di quanto sembra, ed infine si rivela essere addirittura fin troppo vitalistica (nel senso eticamente peggiore del termine).

Non a caso, quando essa è all’opera, viene di fatto a decadere (entro il discorso di Guardini) uno degli aspetti etico-religiosi cristiani più indispensabili per un autentico realismo cristiano.

Infatti con essa diviene impossibile vedere davvero quell’«uomo» (ossia il pieno Altro) che deve avere «influsso» su di me – io invece, a causa del mio naturale egoismo, sempre «lo vedo diverso»(anders) da ciò che esso davvero è in sé. Ecco allora che in tal modo «si chiude l’occhio».

E pertanto la disponibilità all’apertura dell’occhio si rivela essere il presupposto indispensabile per l’effettivo vedere, cioè lo sguardo nella sua pienezza. Solo quando ciò avviene, si verifica il “wahrnehmen” (la«percezione») cioè “das Auge nimmt das Dastehende auf” («lo sguardo recepisce pienamente ciò che sta davanti ad esso»).

In parole povere, insomma, ciò a cui la Fenomenologia più aspirava – ossia lo stare davvero incondizionatamente davanti all’oggetto – è cosa che per definizione avviene solo sul piano più «assiologico» possibile (cioè quello integralmente etico-religioso cristiano), ovvero laddove io svanisco totalmente davanti all’oggetto riconosciuto come radicale «altro da me».

Ciò non può avvenire invece affatto sul piano puramente «teoretico» − cioè in uno «stare davanti all’oggetto» che è totalmente condizionato addirittura dal mio guardare a me stesso («essere rivolto a me stesso» auto-riflessivamente) come supremo conoscente (il soggetto cosciente).

E pertanto, dato che la Stein in fondo non rinunciò a tale dottrina nemmeno fino alla fine della sua opera, bisogna allora dire che ella condivise in fondo lo stesso identico abbaglio (tipicamente filosofico) che aveva afflitto Husserl.

È quindi inevitabile che nel contesto della riflessione esegetica di Guardini emerga, a tale complessivo proposito, quel concetto di «corporalità spirituale» che viene implicato direttamente dal concetto di spirito così come da lui illustrato sulla base del messaggio di Gesù.

Tale elemento emerge nel corso dello sforzo guardiniano di chiarire uno dei fenomeni più misteriosi della vita cristica entro la narrazione evangelica, e cioè quel non raro svanire di Gesù per poi ricomparire di nuovo come d’incanto; che qui sintetizzeremo nell’espressione «andare-venire».37

E molto spesso accade che il trapasso da una forma all’altra di essere fu talmente inconcepibile per i sensi umani che questi (ossia i discepoli) colsero il Gesù ritornante come un vero e proprio alieno (etwas fremdes), ossia come uno spaventevole fantasma.

Il nostro pensatore chiarisce che il fenomeno è spiegabile con il fatto che l’ontologia cristica è connotata da una vitalità talmente assoluta da sfuggire totalmente ai limiti della spazio-temporalità.

Ma intanto essa sta anche alla radice della piena umanità di Gesù. E quindi ancora una volta, trattandosi di spirito, si tratta di un’onto-spiritualità che è ciò che è esattamente in quanto essa non è affatto separata dalla corporalità. Non a caso il Gesù risorto è ancora un uomo che si siede a mangiare e bere con i suoi amici. Inoltre anche in tale condizione (ormai puramente spirituale) Egli è ancora quell’uomo che prima della morte era stato accompagnato, visto e toccato dai discepoli.

Da tutto ciò Guardini deduce che ci troviamo in tal modo al cospetto della vera e propria evidenza schiacciante che è costituita dal Pneuma (Spirito) quale carne, e quindi ci troviamo al cospetto di quella corporalità spirituale che il Cristo incarna in pieno, presentandola a noi come il paradigma stesso di ogni corporalità. È dunque proprio in questo che a suo avviso il “corpo umano” si differenza radicalmente dal «corpo animale»(Tierkörper).

E ciò ci approssima ad uno dei caratteri dell’umanità di Cristo che anche la Stein aveva ha posto più in evidenza, ossia quella di paradigma universale di tutto quanto è «uomo» (il Logos cristico è infatti l’«idea di uomo» stesso nella sua pienezza).38

Egli è insomma null’altro che quel Pananthropos, o Uomo Cosmico, che del resto l’intera metafisica religiosa planetaria aveva da sempre riconosciuto.39 Ma soprattutto in tal modo siamo al cospetto di una definizione davvero molto forte di ciò che è essenzialmente «uomo» in quanto ricalca il paradigma di ciò che è «uomo divino», ossia di fatto l’«umano-divinità».

In tal modo dunque orbitiamo nuovamente intorno alla definizione steiniana dell’uomo come spirituale per essenza, e quindi per natura.

Ed a quest’ultima definizione la stessa pensatrice aggancia peraltro la costatazione metafisico-religiosa e filosofico-religiosa dell’Essente umano da intendere come immagine speculare della divinità.40  

Ossia riconosce in esso l’«umano-divinità» quale carattere essenziale. Sembrerebbe insomma che il suo discorso converga totalmente con quello guardiniano – e ciò peraltro nel contesto di una riflessione filosofica che indubbiamente (entro questi aspetti) si ricollega a contenuti vincolantemente teologici.

E tuttavia bisogna considerare a tale proposito ciò da cui Guardini ci mette severamente in guardia, ossia l’ignorare che di fatto, nel contesto della stessa moderna teologia cristiana − in linea anch’essa con la rigorosa distinzione filosofica tra spirito e corpo − è stato affermato che il «Cristo della fede» deve ragionevolmente venire distinto dal «Cristo della realtà» (Christus der Wirklichkeit).

A tale riguardo lo studioso però afferma che ciò sta molto stridentemente in contrasto con la Scrittura («La Parola è divenuta Carne»), e quindi con la conseguente umano-divinità di Gesù Cristo («dio e uomo simultaneamente»). Il che poi approssima paradossalmente questa serie di deviazioni filosofico-razionalistiche addirittura con alle contestazioni gnostiche all’umano-divinità di Gesù Cristo – secondo le quali, invece di essere«risorto», Gesù è semmai «divenuto» il Cristo. In tal modo risulta pertanto evidente che l’umano-divinità non vien compresa affatto se noi guardiamo a Dio in maniera puramente filosofico-religiosa.

Su questo piano insomma l’incarnazione diviene un fatto così razionalmente impossibile, da dover venire rigettato. E questo ci riporta alle prima menzionate considerazioni di Sant’Antonio Abate.

Tutto dipende insomma dal punto di partenza che viene scelto per la riflessione. Infatti solo se esso è rappresentato dalla Resurrezione come evidenza fattuale della fede (e quindi è rappresentato dalla Rivelazione e dalla Scrittura), allora l’umano-divinità di Gesù Cristo diviene qualcosa di talmente inoppugnabile da finire per essere del tutto ovvia. Del resto, come abbiamo visto, le Scritture sottolineano proprio la continuità ininterrotta esistente tra Gesù umano ed il Gesù risorto, ossia tra Gesù ed il Cristo che ormai (dopo la Resurrezione) torna a presentarsi chiaramente nelle vesti del Logos.

Ma intanto tutto questo, aggiunge il Guardini, ci impone anche di rivedere completamente l’idea di «uomo» così come viene da noi professata sulla base delle esigenze filosofico-scientifiche poste dogmaticamente dalla Modernità razionalistica, scettica ed infine anche fatalmente riduzionistica (specie allorquando essa applica la sua visione ai fenomeni religioso-spirituali). Infatti accettando l’idea di Cristo come uomo-dio, noi finiamo per vedere nell’uomo qualcosa di radicalmente diverso dalla divinità ma eppure ad essa simile.

E quindi mettiamo allo scoperto quel «mistero dell’umanità» che va molto oltre la Natura, e che è poi lo stesso mistero di Gesù Cristo.

Ecco allora che ancora una volta Gesù Cristo si presenta come lo stesso paradigma cosmico-universale dell’Uomo. A questo punto però l’uomo spirituale appare essere Cristo e solo Cristo; e ciò in quanto pieno uomo nonostante la sua divinità.

Insomma, una volta giunti a questo punto − dopo le così preziose considerazioni critiche storico-filosofiche di Guardini −, diviene di nuovo molto difficile affermare che il discorso steiniano si allinei davvero ad un discorso che effettivamente prenda le mosse dalla Rivelazione e dalla Scrittura.

Questo riferimento esiste senz’altro nella sua riflessione − altrimenti il discorso steiniano non si sarebbe mai evoluto da una dimensione filosofica sostanzialmente laica (sebbene affatto scettica) ad una dimensione molto intensamente metafisico-religiosa che ovviamente ha anche ben precisi risvolti fideistici.

E tuttavia è ormai venuto chiaramente allo scoperto il fatto che, sia nel parlare di uomo «essenzialmente spirituale» sia nel parlare di Cristo come Uomo Cosmico (ossia paradigma di tutto ciò che nel creato è «uomo»), la Stein resta in fondo in sintonia in primo luogo con una serie di elementi che erano tipici della riflessione filosofica del suo tempo (già a partire dal XIX secolo).

Questa serie di elementi era insomma presente in quell’«umanesimo» filosofico tipicamente moderno che il Guardini (in concordanza del resto con lo stesso Maritain) ritenne responsabile dell’annacquamento razionalistico (ed infine perfino scettico) di concetti altamente religiosi non solo in quanto metafisici ma anche e soprattutto in quanto teologico-fideistici.41

Del resto possiamo constatare molto bene – come abbiamo mostrato nel nostro saggio sintetico (nota 10) – come i concetti di uomo spirituale ed anche di Uomo cosmicamente paradigmatico erano già presenti nel pensiero steinano allorquando in esso la motivazione religiosa era molto sfumata e comunque era ancora totalmente secondaria rispetto a quella puramente filosofica.

Su questa base dobbiamo quindi relativizzare inevitabilmente anche un aspetto del pensiero steiniano che, in tale contesto, si ricollega nuovamente al tema dell’ontologia di Gesù.

Il Guardini infatti precisa che l’«andare-venire» di Gesù diviene davvero pieno solo allorquando Egli, abbandonando definitivamente il mondo («Io non sono più nel mondo...»), raccomanda i suoi mandati alla protezione amorevole del Padre.42

Proprio qui, dice il pensatore, lo stesso antecedente «andare-venire» del Gesù umano si rivela essere qualcosa che non può stare in relazione al mero«essere uomo», ma può invece stare solo in relazione ad un’umanità ben più alta.

Si tratta insomma dell’ontologia di quel Logos che sta sopra il tempo, soggiornando da sempre nell’eterno «in principio».

Intanto però nemmeno al cospetto di questo la sua dipartita può venire considerata temporalmente definitiva; e ciò perché il «prima» e il «dopo» non sono mai esistiti per Gesù Cristo in nessuna delle sue forme di manifestazione. Infatti il Suo atto di affidamento dei discepoli al Padre ha il senso di riaffermare la sua permanenza definitiva nel mondo, in quanto ormai pieno e puro Spirito ma anche nello stesso tempo «carne» definitiva del mondo.

Si tratta di quanto abbiamo già detto a proposito delle Sue paradigmatiche corporalità spirituale e umano-divinità (nota 37), e cioè si tratta di quanto Guardini dice menzionando il pensiero giovanneo sul Logos − «Dio è diventato uomo e tale è rimasto nell’eternità».

E qui va notato che lo stesso concetto viene sostenuto dalla Stein specialmente sulla base di una complessa riflessione che di nuovo ha al suo centro l’elemento genuinamente filosofico dello «spirito oggettivo».

È dunque in termini genuinamente filosofici che per lei il Cristo va considerato come equivalente al mondo stesso – ossia come quel Logos il quale si presenta quale essenza e senso delle cose ricalcando perfettamente l’Idea trascendente (ossia la «pura Possibilità ideale») come paradigma di qualunque oggettualità. Entro il discorso di Guardini non vi è invece il benché minimo riferimento né all’essenza né tantomeno alla stessa sostanza.

Quindi nel mostrarci nel Cristo-Spirito la carne stessa del mondo, egli intende di certo indicarci l’«essere» stesso nella sua pienezza immanente; ma senza intanto la minima intenzione di condurre un discorso filosofico su di esso. Semmai ancora una volta in tale contesto domina totalmente la sola ontologia etica introdotta da Gesù.

Il Cristo presente nel mondo è infatti null’altro che il mondo già trasfigurato da quel progetto del Regno dei Cieli che si è affermato, per mezzo della Morte e Resurrezione di Dio, perfino contro le stesse intenzioni umane. Egli è insomma null’altro che Dio ormai letteralmente presente nel mondo.

E ciò ci porta pertanto a relativizzare anche l’accento posto dalla Stein sul Cristo come soma pneumatikon sulla scorta di Paolo.

Quest’ultimo viene infatti menzionato anche dal Guardini, ma soltanto nel contesto di un discorso che, come abbiamo visto, è estremamente diverso da quello filosofico-metafisico.43

Ciò che egli sottolinea è infatti sostanzialmente quell’ «ogni volta» (so oft) che caratterizza il ritorno continuo del Cristo che è il Logos (e quindi è «alfa-omega» in quanto sfugge alla temporalità restando intanto però costantemente alla nostra portata di mano nonostante non si sia mai mosso dall’«alto»).44

E questo viene sottolineato dal fatto perfino ovvio e banale (in termini puramente rituali) dell’Eucaristia. Proprio tenendo conto di ciò, noi possiamo infatti realizzare che Egli non «ritorna» affatto«solo alla fine dei tempi», ma invece appunto «ogni volta» che noi ci poniamo in intimo contatto con Lui. Cosa che però può avvenire solo sulla base della definitiva offerta di Sé stesso che Egli ha fatto istituendo l’Eucaristia.

Ecco allora che in questo consiste per Guardini la vita in senso davvero cristiano.

La vita cristiana tiene infatti conto costantemente del momento del ritorno come il vero essere, un essere molto diverso da quello mondano-quotidiano-prosaico. Potremmo dire insomma che per il cristiano tutto accade in un mondo ideale parallelo; in modo tale che vivere intensamente è vivere distaccati dall’esteriorità soggiornando in questo mondo ideale.

Ed a tutto ciò va aggiunto un ulteriore aspetto posto in luce dal nostro pensatore.

Alla luce di quanto abbiamo finora detto, infatti, l’«andare-venire» è da intendere come qualcosa in cui i due termini sono simultanei − l’andare (svanire) presuppone inevitabilmente il venire (riapparire, tornare). Ed esattamente questa è pertanto la nuova forma di esistenza di Gesù (il più puro ed intenso onto-dinamismo spirituale) dopo quella antecedente statica (ancora in qualche modo spazio-temporale).

Più precisamente questa nuova forma di essere (non più spazio-temporale) è ormai interiore invece che esteriore – pertanto il Cristo-Mondo è per sempre un dio interiore.

Ma non per questo esso è evanescente, dato che si tratta della più piena «realtà» (Wirklichkeit) possibile. Il che è espressione di quella è sempre stata l’ontologia di Gesù.

In altre parole il mondo ideale parallelo che il cristiano costantemente sperimenta nella fede altro non è se non quella che costituisce la vera Realtà – ossia quella che i nostri sensi (obnubilati dalle apparenze) non colgono assolutamente.

E bisogna dire che, al cospetto di questo, noi finiamo per ritrovare il Guardini tendenzialmente platonico che abbiamo dovuto constatare in una nostra antecedente investigazione sui suoi testi (nota 11).

 

5- Il Dio-Essere

Una volta chiarito tutto questo vale la pena di rivolgere la nostra attenzione ad un concetto che a nostro avviso è davvero critico per comprendere a fondo il pensiero steiniano, e cioè il concetto di Dio quale Essere.

Nel nostro saggio sintetico (nota 10) abbiamo chiarito come sia stata per noi stessi una grande sorpresa lo scoprire quanto fosse centrale questo concetto entro il complessivo progetto filosofico della Stein.

Eppure successivamente siamo stati costretti a constatare che anche questa constatazione andava ridimensionata una volta che la visione della nostra pensatrice veniva paragonata a quella di pensatori cristiani che molto più direttamente hanno espresso il concetto di Dio-Essere (come ad esempio Maritain).

Ebbene tutto ciò che abbiamo detto finora ci permette di riprendere in esame questa questione sulla base della serie di precisazioni che il Guardini ci ha permesso. E qui esamineremo in particolare ciò che egli dice della morte di Gesù quale nucleo più intimo dell’intero testo evangelico.45

A tale proposito (molto significativamente per i nostri scopi) il pensatore ci invita ad andare molto oltre i limiti di qualunque discorso filosofico. Ma lo fa nel richiamarci comunque alla necessità del lasciarci toccare da quell’evidenza che (almeno entro la logica sublime del messaggio di Gesù) è così schiacciante da finire per costituire un’ovvietà di pensiero. Infatti, che la morte di Gesù rappresenti per noi addirittura la «liberazione» è per il pensiero e per la sensibilità umani una provocazione talmente intollerabile da rendere del tutto superfluo anche ricordare quanto scandalo tale idea abbia rappresentato ed ancora rappresenti.

Non a caso Guardini chiarisce senza alcuna remora che questo atto auto-distruttivo, il quale poi si presenta addirittura come il paradigma stesso di ogni fallimento esistenziale e storico, sfugge decisamente a qualunque genere di «perchè»umano.

Al suo cospetto infatti assumono un senso (essendo diretto verso un tangibile scopo) perfino quegli atti umani che ad esso più assomigliano in quanto in sé del tutto insensati – come, ad esempio, la scelta dell’eroe di dare la vita per la propria Patria.

Ebbene, le cose cessano però decisamente di stare in questo modo se noi consideriamo chi sia davvero Colui che è coinvolto in questo così folle ed insensato atto suicida. Costui non è infatti altri che quel Dio il quale è capace di una «creazione dal nulla» della quale nessun uomo è davvero capace.

Solo Dio, cioè, è capace di far esistere qualcosa laddove prima non vi era assolutamente nulla, ossia era assente perfino l’«essere» stesso quale presupposto per qualunque genere di «esistere». Ci sembra significativo che la Stein stessa prenda (quasi con stupore) atto di questo nel constatare (sulla base dell’ontologia tomistico-aristotelica) che a questo mondo non vi è alcuna materia che non sia essa stessa già «formata», e quindi di fatto creata.46

Ed eccoci dunque condotti già al cospetto della totale ovvietà di pensiero che qui si configura – tutto ciò che abbiamo appena visto accade infatti semplicemente perché l’Essere è Dio stesso.

È dunque solo Lui il vero presupposto di qualunque esistere. E naturalmente tutto questo sta in diretta relazione con quel Gesù Cristo che è Dio stesso nel senso che Egli costituisce l’«in principio», ossia ciò «in cui», «per cui» e «per mezzo di cui» tutte le cose vengono create, ovvero vengono ad esistenza. Risulta immediatamente evidente, quindi, perché questo assoluto Signore della Vita possa, per mezzo della Morte volontariamente scelta, porre in tal modo le uniche premesse possibili per la «liberazione» dell’uomo da quella mortalità alla quale egli stesso volle divenire soggetto a causa del Peccato.

Spostandosi poi su un piano più propriamente filosofico-argomentativo, ciò significa che l’uomonon è affatto essere in assenza di Dio.

A tale proposito infatti il Guardini ricalca la stessa riflessione di Maritain sul peccato da intendere come «nientificazione».47

Ed afferma infatti che l’unica capacità dell’uomo di porsi in contatto con il Nulla nell’atto di creare consiste nel porsi in relazione con il «nulla cattivo» (böse Nichts) – ossia il Peccato e Male stesso nella sua solo relativa ontologia −, invece che con il «nulla buono»(con il quale era in contatto Dio nella creazione).

Anche qui è immediatamente evidente l’effetto controproducente di tale atto – per mezzo di esso infatti l’uomo invece di auto-crearsi (come desiderava) non fa altro che auto-annientarsi.

Eppure, in forza dello straordinario Piano d’Amore divino, anche dopo la Caduta l’uomo persiste ontologicamente. E ciò avviene esattamente grazie al Dio-Essere che lo sostiene.

Ora, la Stein fece proprio questa stessa scoperta nel passare definitivamente dalla riflessione puramente filosofica (incentrata sull’Io quale essere fondamentale) alla riflessione filosofico-metafisica ed ontologica (entro la quale l’Io si rivela essere un nulla in assenza dell’Essere divino). Ella affermò infatti esplicitamente che il Dio-Essere fungeva da Fondamento per un Io costantemente esposto allo sprofondamento nel nulla.48

Dunque a tale proposito noi ci troviamo al cospetto di una serie di concetti che ci rendono impossibile dissociare il pensiero steiniano da quello guardiniano.

Possiamo però dire che ciò accade davvero coerentemente con quella serie di aspetti in forza dei quali siamo invece dovuti pervenire alla conclusione diametralmente opposta? Ebbene, la risposta a questa domanda non può che essere negativa.

E ci sembra che ciò sia giustificato dal fatto che la constatazione nel pensiero steiniano della centralità del concetto di Dio-Essere è di fatto dissociata dalla piega nuovamente essenzialistico-idealistica che esso prese poi (nella riflessione successiva al confronto della pensatrice con l’ontologia tomistico-aristotelica).

Con essa infatti la Stein sembrò in qualche modo tornata alla sua antecedente preoccupazione primaria per la Verità (sebbene ormai filtrata dalla densissima metafisica religiosa di origine teologica che ella mutuò soprattutto da Agostino).

Sui particolari di tutto questo ci siamo soffermati nel nostro saggio sintetico (nota 10), per cui non crediamo di dover dire di più.

L’unica conclusione che possiamo trarne è quindi che forse la pensatrice stessa rimase sorpresa per la sua scoperta del Dio-Essere. E questo può nuovamente venire spiegato sulla base della serie di precisazioni (limitanti e negative) che avevamo fatto prima confrontando il suo discorso con quello guardiniano.

Forse, insomma, questa sua sorpresa si giustifica proprio perché, al cospetto del concetto di Dio-Essere nella sua pienezza, la pura intuizione intellettuale deve decisamente prevalere (in quanto fulminante e profondamente penetrante per definizione) sul sempre fin troppo analitico logos filosofico (laddove la troppa analisi dissolve totalmente l’oggetto della conoscenza intellettuale intuitiva).

In altre parole è presumibile che la Stein stessa (nel pieno della sua sorpresa) abbia adottato esattamente quell’atteggiamento che il Guardini ritiene indispensabile per cogliere la pienezza del Dio-Essere al cospetto a sua volta della verità del tutto contro-razionale della Morte liberante del Cristo.

Detto questo è del tutto naturale e comprensibile che successivamente la pensatrice, preoccupata come fu sempre in primo luogo dal logos filosofico, abbia ripreso il «controllo» su sé stessa attenuando così l’equivalenza binomiale Dio-Essere per mezzo dell’equivalenza trinomiale Dio-Essere-Verità. E del resto, anche in senso cristiano, non può venire visto nulla di male in ciò.

Non per nulla questo trinomio si era sempre reso presente nel pieno della tradizione cristiano-platonica di pensiero. Certo è però che – come abbiamo sostenuto in un saggio dedicato all’ultimissimo momento del pensiero steiniano− quella appena illustrata non fu affatto la fase davvero finale della sua riflessione.49

Quest’ultima fu invece quella dedicata ormai alla mistica, e cioè al tentativo di immergersi definitivamente nel mistero di Dio come Persona e quindi anche come Essere.

Quindi è probabilmente solo in questa fase che venne ad autentica maturazione l’intuizione piena di stupore (e forse anche di imbarazzo tutto filosofico) che la Stein aveva fatto al cospetto del Dio-Essere.

Con questa costatazione possiamo quindi ritenere di essere pervenuti a quello che forse è il suggello di una serie di nostre riflessioni sul complessivo pensiero steiniano.

Esse infatti intendevano essere «critiche» solo nella misura in cui tendevano ad una comprensione profonda; e che, almeno da parte nostra, resta piena di un’illimitata ammirazione per questa straordinaria pensatrice. Infatti la presa in esame del così centrale concetto di Dio-Essere ha finito per permetterci di tirare le fila dell’intero discorso critico, pervenendo così infine ad una conclusione ben più positiva che non negativa.

 

Conclusioni

 

Grazie alla davvero ponderosa indagine filosofico-esegetica di Guardini su Gesù abbiamo potuto porre in evidenza una serie di elementi del pensiero steiniano, rispetto ai quali si sono rivelate necessarie alcune riflessioni critiche. E queste ultime sono giunte fino al punto di dover porre in discussione l’approccio della pensatrice come paradigma di una riflessione filosofico-religiosa che sia davvero in linea con le linee portanti più significative del pensiero cristiano.

Naturalmente questa costatazione deve venire presa con estrema prudenza, dato che essa potrebbe autorizzare (in maniera nel complesso del tutto illecita) l’idea che la Stein non possa venire considerata come una pensatrice autenticamente cristiana.

È evidente che ciò non può venire sostenuto. E ciò è tanto più vero se consideriamo che per alcuni aspetti (specie a proposito della morale interiore e della psicologia) abbiamo constatato una perfetta convergenza tra il discorso guardiniano e quello steiniano. Abbiamo inoltre constatato anche che a volte il riferimento teologico-fideistico viene addirittura in primo piano nella riflessione della pensatrice.

Ma intanto è altrettanto evidente che (come abbiamo visto) la primaria preoccupazione filosofica che guidò la pensatrice si è oggettivamente rivelata essere un tangibile ostacolo sulla via di una davvero appropriata riflessione filosofico-religiosa cristiana.

Che invece in Guardini sembra presente in una maniera esemplare proprio perché essa si offre a noi in una linearità di concetti che volontariamente sfugge alle asperità e complessità del tipico discorso filosofico ed anche filosofico-metafisico. Del resto è un fatto che il credente che cerchi nei libri della Stein argomenti utili alla sua fede si ritrova immediatamente al cospetto di un edificio filosofico di davvero estrema complessità e conseguente difficoltà di comprensione.

Non può stupire, quindi, che questo genere di lettore possa sentirsi presto scoraggiato nel suo studio della pensatrice. Egli dovrà quindi necessariamente giungere alla conclusione che il discorso steiniano è rivolto agli addetti ai lavori e non invece all’uomo comune.

E su questo non possono esistere dubbi di sorta.

Tuttavia abbiamo anche visto che il discorso della nostra pensatrice non solo non trascura affatto la dimensione teologico-fideistica (anzi attinge ad essa proprio per raggiungere la sua pienezza), ma inoltre, almeno tendenzialmente, non sceglie nemmeno di tenersi sdegnosamente lontano da quelle intuizioni fideistiche che per il Guardini sono di importanza davvero decisiva.

Anzi abbiamo visto che il nucleo stesso del pensiero steiniano, ossia il concetto di Dio-Essere, si muove esattamente su questo piano.

Al netto delle nostre complessive considerazioni possiamo quindi concludere affermando che il discorso steiniano va senz’altro considerato come in primo luogo filosofico-metafisico e solo in secondo luogo teologico-fideistico. E ciò significa allora che, se il credente vuole utilizzarlo allo scopo di rafforzare la sua esperienza di fede, deve tenere strettamente conto di questo ben preciso limite.

 Con questo non viene però assolutamente affermato che la Stein debba venire esclusa dal novero degli autentici pensatori cristiani. Il suo è infatti un approccio alle verità di fede la cui ambizione fu in primo luogo quella di mantenersi nell’ambito del discorso filosofico. E con questo ella ha senz’altro reso un enorme servigio a quel pensiero cristiano che già al suo tempo (nonostante il grande revival che stava intanto conoscendo) era entrato definitivamente in conflitto con la Filosofia prevalente, ossia quella praticata entro le Accademie.

E con questa costatazione possiamo dunque ritenere definitivamente conclusa la nostra indagine.

 

 

 

Note

1 R. Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016.

2 E. Stein, Was ist Philosophie? Ein Gespräch zwischen Edmund Husserl und Thomas von Aquino, in: E. Stein, Erkenntnis und Glaube, Herder, Freiburg Basel Wien 1993, XV p. 19-48; E. Stein, Husserls Phänomenologie und die Philosophie des heiligen Thomas v Aquino. Versuch einer Gegenüberstellung, in: «Husserl zum 70. Geburtstag», N. Niemeyer Verlag, Tübingen 1929, p. 315-338; E. Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, I p. 9-36.

3 Guardini, cit., II, 6 p. 122-127, III, 1 p. 175-182, V, 1 p. 373-379, V, 8 p. 428-436, V, 10 p. 444-452.

4 Guardini, cit., V, 10 p. 444-452.

5 Guardini, cit.,V, 6 p. 413-419, V, 10 p. 444-452, VI, 2 p. 497-504.

6 D. L. Wallenfang, Awaken, o Spirit : the vocation of becoming in the work of Edith Stein,  Logos, 15 ( 4), 2012, 57-74; D. L. Wallenfang, The hearth of the matter : the substance of the soul, Logos, 17 (3) 2014, 118-142 ; J. Duran, E. Stein, Ontology and belief,  Hey. J.,XLVIII, 2007, 707–712; A. W. Astell, From ugly duckling to swan: education as spiritual transformation in the thought of Edith Stein”, Spiritus, 13 (1) 2013, 1-6; S. R. Borden, Introduction to Edith Stein's 'The interiority of the soul: from finite and eternal Being, Logos,  8 (2) 2005, 178-182; S. Borden Sharkey, Thine own self. Individuality in Edith Stein’s later writings, The Catholica University Press, Washington 2010, 1 p. 16-25, 2 p. 44-48, 2 p. 54-58; P. Secretan, Essence et personne, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 26, 1979, 481-504; P. Secretan, L’homme spirituel et la Creation, Carmel, 117 (10) 2005, 45-63; C. Beauvais, E. Stein et E. Przywara, La reconciliation du noetique et de l’ontique, Laval théologique et philosophique, 61 (2) 2005, 319-335.

7 E. Stein, Endliches,  cit., VII, 8 p. 358-360, VII, 9 p. 360-391, VIII, 3 p. 422-441.

8 Il Guardini [Op. cit.,I, 8 p. 48-53, II, 3-4 p. 100-115, II, 7 p. 127-136, V, 6 p. 413-419, V, 14 p. 482-487, VI, 14 p. 579-585] sostiene nel complesso che il rifiuto di Dio (quale secondo peccato, che conferma il primo invece di abolirlo) rese impossibile la resurrezione secondo l’intenzione iniziale di Dio; e cioè quella corrispondente ad un Regno dei Cieli storico, destinato a realizzarsi effettivamente ed hic et nunc (grazie al sì dell’uomo). Ed a ciò corrisponde poi per lui nel pensiero cristiano (a partire da Paolo stesso) il progressivo abbandono dell’idea di storicità del Regno, con il conseguente spostamento dell’attenzione verso il concetto di «fine dei tempi», ossia il concetto di utopia escatologica.

9 Guardini, cit., II, 1 p. 85-93.

10 Rinviamo per questo al saggio non pubblicato in cui abbiamo illustrato sinteticamente il pensiero steiniano, e che abbiamo presentato comunque in abstract [Vincenzo Nuzzo, Tentativo di sintesi esplicativa del pensiero di Edith Stein, sul blog Cielo e Terra.

11 I due articoli non sono stati ancora pubblicati ma sono stati da noi presentati in abstract  [V. Nuzzo, L’atto di esistere» e la «filosofia dell’essere. Edith Stein e Jacques Maritain, V. Nuzzo, “Il platonismo di Edith Stein sulla base del Platone letto da Romano Guardini

12 Guardini, cit., II, 12 p. 170-171.

13 Guardini, cit., II, 12 p. 166-174, VI, 2 p. 497-504, VI, 4 p. 513-520.

14 Guardini, cit., VI, 3 p. 504-513.

15 Guardini, cit., II, 1 p. 85-93.

16 E. Stein, L'empatia, FrancoAngeli, Milano 2009, III, 4 p. 103-124, 5i-m p. 140-163, IV, 1-4 p. 169-192.

17 Guardini, cit., II, p. 93-100.

18 F. Petermann, M. Kusch, K.Niebank, Entwicklungspathologie, Psychologie Verlags Union, Weinheim 1998, I, 5, 6 p. 143-145.

19 Guardini, cit.,II, 6 p. 122-127, III 1 p. 175-182, III 6 p. 213-221.

20 Guardini, cit.,II, 4 p. 108-115.

21 Guardini, cit.,VI, 12 p. 566-573.

22 «Noi cristiani, dunque, non possediamo il mistero tramite la sapienza dei ragionamenti dei gentili, ma con la potenza della fede che ci viene fornita da Dio attraverso Gesù Cristo. E che queste parole siano vere, ecco la prova: noi, che pure non abbiamo appreso le lettere, crediamo in Dio, riconoscendo attraverso le sue opere la sua provvidenza universale [...]. Queste prove bastano a dimostrare che la fede in Cristo è l’unica vera per la religione. Se voi ancora non credete, ricercando i sillogismi dei ragionamenti, noi non dimostriamo con la persuasione della sapienza dei gentili, come ha detto il nostro maestro, ma persuadiamo con la fede che manifestamente precede l’argomentazione razionale.» [Atanasio di Alessandria, Sant’Antonio Abate. La sua vita, Ed. San Clemente, Bologna 2013, 77-80 p. 383-391].

23 Guardini, cit., II, 5 p. 116-121.

24 Guardini, cit., II, 6 p. 122-127.

25 E. Stein, Endliches, cit., VII, 1-11 p. 303-394.

26 Guardini, cit., II, 8 p. 136-142.

27 Guardini, cit.,II, 11 p. 158-166.

28E. Stein, Aus dem Leben einer jüdischen Familie, ESGA1, Herder, Freiburg Basel Wien 2007, III, 1 p. 52-57.

29 Guardini, cit., II, 12 p. 166-174.

30 Guardini, cit., VI, 1 p. 493-494.

31 Guardini, cit., VI, 4 p. 513-520.

32 Guardini, cit., III, 1 p. 175-182.

33 V. Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein ed i suoi presupposti platonici, Tese de Doutoramento, Repositorio da Universidade de Lisboa, Faculdade de Letras (FL), Lisboa, Set. 2018.

 

34 V. Nuzzo, Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza – riflessioni sugli Aforismi di Śiva, in: I.V.A.N. Project (a cura di), «Frammenti di filosofia contemporanea», Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Vol. XX, p. 65-78; V. Nuzzo, Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico, in: I.V.A.N. Project (a cura di), «Frammenti di filosofia contemporanea», Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXIII, 2018, p. 121-164.

35 P. Odyniec, Rethinking advaita within the colonial predicament: the ‘confrontative’ philosophy of. K. Bhattacharyya, Sophia, 57 (3) 2018, 405-424.

36 Filone di Alessandria, Le allegorie delle leggi, in: Filone di Alessandria (a cura di Roberto Radice), Tutti i trattati del Commento Allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2011, I, X-XI, 24-30 p. 125-127.

37  Guardini, cit., VI, 2 p. 497-504.

38 E. Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg Basel Wien 2001, IB p. 17-18, II, II, 2 p. 28-29, III, II, 4 p. 41-42, IV, 8 p. 55-56.

39 Riportiamo qui alcune delle molto composite fonti testuali entro le quali il concetto può venire ritrovato, senza però indicare la forma specifica che ad esso viene data in questi testi [G. Vico, La scienza nuova, Rizzoli, Milano 1977, Libro I, I, I p. 134-136; F. Bertin, Corpo spirituale e androginia in Giovanni Scoto Eriugena, in «Faivre & Tristan (a cura di) Androgino», ECIG, Genova 1991 p. 79-172; J. Libis, L'Androgino e il Notturno, ibd.p. 11-32; E. Zolla, L'Androgino alchemico, ibd. p. 173-200; P. Deghaye, L’uomo virginale secondo Jakob Böhme, ibd. p. 205-230; G. Busi ( a cura di), Zohar, Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008, p. 32-36, p. 64-79, p. 113-114, p. 119-125; Libro dei consigli di Zarathustra, in «A. Bausani (a cura di), Testi religiosi zoroastriani», Edizioni Paoline, Roma 1964, p. 30; R. Panikkar, I Veda, Rizzoli, Milano 2008, I, I, 1-8 p. 59-118, 28-29 p. 206-216, 34 p. 233-235; M. Esnoul (a cura di), Bhagavadgītā, Adelphi, Milano 1992, VII, 8-9 p. 88, XI, 1-55 p. 119- 129, XIV, 3 p. 143; L. de Lugones, Ensayo de una cosmogonia en diez lecciones, in «Las fuerzas extrañas», Agebe, Buenos Aires  2005 p. 107-140].

40 E. Stein, Endliches, cit., VII, 1-11 p. 303-394.

41 J. Maritain, Umanesimo integrale, Borla, Torino 1962.

42 Guardini, cit., VI, 4-6 p. 513-531.

43 Guardini, cit., VI, 14 p. 579-585.

44 Non a caso proprio questo fu l’argomento di Sant’Antonio Abate nel sollevare obiezioni contro il concetto pagano di emanazione [Atanasio di Alessandria, Sant’Antonio Abate... cit., 74, 4 p. 375]. Egli disse infatti che, nonostante l’Incarnazione, il Logos non è «andato errando» ma invece «restando qual’era, ha assunto un corpo condividendo la nascita umana...». Esso insomma era restato in alto pur manifestandosi simultaneamente in basso.

45 Guardini, cit., V, 14 p. 482-487.

46 E. Stein, Der Aufba, cit., III, II, 1-2 p.  38-39, V, II, 1-10 p. 59-73.

47 J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 2014, IV, 29 p. 119-122, IV, 32 p. 140-148.

48 E. Stein, Endliches… cit., II, 7 p. 59-60, III, 2p. 63-68, VI, 4,3 p. 293-296; Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, EDB, Bologna 2013, III p. 113.

49 Testo non ancora pubblicato ma da noi presentato in abstract  [V. Nuzzo, Il platonismo di Edith Stein dal punto di vista della fase mistica del suo pensiero

 

 

 

 

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