Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il fattore «Gesù» e l’auspicabile ri-avvaloramento dei piccoli centri urbani

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La vicenda di Gesù così come viene raccontata da Guardini1 ci consente di aggiungere alcune considerazioni integrative al saggio che nel 2017 scrivemmo sul «localismo», scritto nel quale tentammo di affermare il valore differenziale che ha il «piccolo luogo» rispetto al «grande luogo».2

Laddove con il primo termine intendiamo le piccole cittadine, o meglio piccoli centri urbani, mentre con il secondo termine intendiamo le città vere e proprie, ossia i grandi centri urbani.

L’intento di questa riflessione non era però solo quella di contrapporre i piccoli centri urbani (i cosiddetti «paesi») ai grandi centri urbani con le caratteristiche di città (di dimensioni minori, maggiori o massime), ma era anche quello di criticare il valore incondizionato degli agglomerati urbani quanto più estesi possibili. E tale critica intendeva poi estendersi anche all’ideologia e prassi del localismo, che è ormai intimamente connessa con tale ordine di valori.

Oggi si tende infatti a ritenere auspicabile e addirittura benefica l’evoluzione del pianeta Terra in una sorta di immenso agglomerato urbano, costituito a sua volta da una rete di immense megalopoli interconnesse sia in senso spaziale fisico (per mezzo dei collegamenti aerei) sia in senso spaziale iper-fisico, detto «virtuale», cioè per mezzo dei nuovi mezzi elettronici di comunicazione.

 

E a tutto ciò corrisponde inoltre una consapevolezza collettava totalmente polarizzata (spesso anche in chi è critico) dalla presuntiva valenza straordinariamente progressiva di tale evoluzione. Si finge infatti di credere che in un mondo totalmente urbanizzato (e quindi caratterizzato dalla più integrale «connessione» strumentale e dall’accesso incondizionato alla più avanzata tecnologia) si possa essere più compiuti come esseri umani.

Ne consegue pertanto l’insorgere di un sempre più intenso senso di inferiorità presso coloro che invece vivono in agglomerati urbani, i quali, a causa della loro limitata estensione spaziale, non hanno né possono avere queste caratteristiche.

La tesi che abbiamo sostenuto in quel saggio era stata che invece probabilmente – prescindendo dall’incondizionata ed estrema mitologia del Progresso, affermatasi recentemente – si debba supporre l’esatto contrario, e cioè che i piccoli luoghi offrono ancora oggi un’esistenza più pienamente umana di quella offerta dai grandi luoghi.

E ciò sarebbe valido soprattutto in termini di una molto maggiore integrazione (garantita dal sussistere di una comunicazione reale e non invece virtuale), a sua volta alla radice di una sanità dell’organismo sociale che non trova certo paragone nei grandi centri urbani, e senz’altro ancor più in un mondo totalmente urbanizzato.

Nel nostro saggio abbiamo tuttavia posto in luce il fatto che proprio il disvalore del piccolo luogo, accentuatosi straordinariamente oggi nella consapevolezza collettiva, fa sì che le condizioni esistenziali che lo caratterizzano (specie la carenza di stimoli eccitanti e la staticità come lentezza e prevedibilità del corso degli eventi) vengano vissuti con una notevole angoscia dai suoi abitanti.

E questo è probabilmente uno svantaggio molto maggiore oggi che non nel passato – quando invece queste condizioni esistenziale «negative» venivano accettate come normali e quindi non venivano in alcun modo poste in discussione.

L’analisi guardiniana della figura ed opera di Gesù ci offre la possibilità di chiarire ulteriori aspetti di questa questione.

 

La ristretta località come realtà spazio-temporale

 

L’aspetto certamente più suggestivo sta in ciò che lo studioso definisce come il “Dasein” di Gesù, ossia la sua esistenzialità (nel senso davvero spoglio dell’«esserci» heideggeriano) immersa pienamente nella dimensione spazio-temporale umana. A tale proposito egli sottolinea più volte che la stessa divinità di Gesù affonda così totalmente le sue radici nell’umanità che questo è senz’altro uno dei motivi per i quali Egli, da dio che era, divenne per sempre anche uomo – secondo le parole di Giovanni, “Dio è diventato uomo e tale è rimasto nell’eternità”.3

E questo è poi senz’altro uno dei motivi che ci porta ad aver fede nel fatto che Gesù è tuttora ancora presente nel mondo; anzi (da un certo punto di vista) è ormai il mondo stesso.

Altrove però Guardini rende questo concetto ancora più forte mostrandoci come Gesù sia entrato nella storia nel senso di sottomettersi al Fato, subendone le conseguenze come qualunque essere umano.4

E questo spiega allora molto bene l’assoluta coerenza di quella morte in Croce che aveva deluso in primo luogo i discepoli, facendo di un colpo crollare tutti i sogni di gloria che essi avevano nutrito scegliendo la sequela di colui che avevano riconosciuto come il Messia.

Tutto ciò è assolutamente coerente con le leggi del mondo e della Natura, alle quali il Figlio di Dio e Logos doveva sottomettersi se per davvero voleva perseguire il progetto di salvezza nel senso dell’affrontare faccia a faccia la principale delle conseguenze della Caduta umana, e cioè la morte. Egli, come precisa Guardini, possedeva intanto un’ontologia che oltrepassava decisamente il mero Dasein umano.5

E quindi non coincideva affatto con l’usuale arco temporale della vita teso tra la nascita e la morte, ma invece si estendeva lungo l’incommensurabile linea dell’eternità, e cioè tra «inizio» e «fine» di ogni possibile temporalità. Il che significa che l’ontologia esistenziale di Gesù precede e segue il tempo, e dunque lo trascende totalmente.

Tuttavia la mortalità è un fenomeno unilateralmente immanente. Così, se Colui che è il Signore della Vita – e quindi non condivide affatto con l’uomo una vitalità appena spuria e difettiva, che non è vera vita ma semmai una sorta di condizione da «morto vivente» (solo temporaneamente vivo) – fosse rimasto sul piano della trascendenza, non avrebbe mai intercettato per davvero la Morte. E proprio questo era invece necessario!

Ecco allora che Gesù entra in quel ciclo – introdotto dalla nascita ed in tal modo ricollega (per mezzo del sangue, o stirpe, o ancora gens) all’infinita catena delle generazioni estendentesi a ritroso nel passato ed inoltre alla catena delle generazioni che lo seguiranno – che nella nostra antecedente ricerca avevamo mostrato essere caratteristico del piccolo luogo per il fatto che lì esso resta ancora tangibile.

Solo nel piccolo luogo infatti l’identità di ognuno dei suoi abitanti è ancora contrassegnato dall’appartenere ad una gens, recando in tal modo un nomen ben riconoscibile e pieno di significato. Ed a questo il Guardini da una forma retorica di tipo esemplare che mira a raffigurarci proprio la profondità con la quale Gesù getta le sue radici in un luogo:

«Quando si vuole comprendere un albero nella sua natura, allora si guarda alla terra in cui affondano le sue radici, e dalla quale ad esso proviene la linfa risalendone il tronco, i rami, i fiori, i frutti, e scorrendo in essi».

Ebbene tutto questo accade anche a quel Gesù che per altri versi trascende così totalmente tutto questo da esigere che chi lo segua abbandoni ogni località proprio in tal senso, ossia nel senso dei legami familiari – «lasciare padre, madre, fratelli...».

Non solo, ma il Guardini chiarisce che tutto ciò si traduce anche nella sua condivisione della storia del sangue e del destino di un intero popolo, e cioè quello di Israele. Non per nulla, per la via di Giuseppe, Gesù è figlio di Davide e quindi ne continua la stirpe.

Ora tutto ciò non può non avere un significato in relazione al valore attribuibile a piccolo luogo. Anche in esso, infatti (come abbiamo appena visto), la genealogia è tangibile come non mai, e quindi la storia e il destino di un popolo sono ben più in vista che in un grande luogo – sebbene in quest’ultimo raggiunga il culmine la retorica celebrativa del popolo stesso, ed anche perfino la sua rappresentanza politica. E diversi sono gli elementi che a questo punto tornano in evidenza rispetto a ciò che avevamo detto nella nostra antecedente indagine.

Il primo di questi elementi è quello che abbiamo appena esaminato, e cioè il valore straordinario che hanno il sangue, la stirpe ed il nome. È vero (come abbiamo ricordato) che Gesù li pone anche profondamente in discussione.

Ma ciò può essere solo relativo, dato che intanto il radicamento del suo Dasein è presupposto così indispensabile proprio per pervenire poi all’atto di trascendenza della località e temporalità che il suo Annuncio esige. E ciò può quindi venire extrapolato anche all’esistenza del semplice uomo, una volta collocato nella cornice di senso e valore del piccolo luogo.

Significa insomma che in qualche modo il suo stesso atto di volontario radicamento in questo contesto ha un valore talmente grande che può giungere fino ad assumere un significato religioso.

Messe così le cose, dunque, non si tratta affatto solo di pigra abitudine; nel senso di passiva acquiescenza a quanto ci ha resi ciò che siamo semplicemente per mezzo dell’atto biologico della nascita in un determinato luogo, in una determinata famiglia ed in un determinato popolo e Paese.

Esattamente rifacendosi al paradigma di Gesù è riconoscibile qualcos’altro dietro questa passiva acquiescenza, e cioè un misterioso atto di scelta. E si tratta esattamente di quanto sia la teosofia occidentale che la dottrina indù delle caste presuppongono come spiegazione della nascita entro in una determinata condizione esistenziale. Possiamo trovare menzione di questo negli scritti di Rudolf Steiner e soprattutto di Coomaraswamy.6

A tutto ciò l’invocazione del paradigma di Gesù aggiunge un significato religioso ancora più alto. E ciò può divenire molto chiaro se teniamo conto che (come chiarisce Guardini) l’attendere umano alla costruzione continua del Regno dei Cieli in terra (aderendo così in pieno al mandato più autentico di Gesù) assomiglia molto all’assolvere un compito mantenendo la posizione nella quale ci si trova – ossia, dice lo studioso, cominciando da dove siamo e da ciò che siamo (là dove noi siamo).7

Esattamente questo ci mostra quanto poco possiamo e dobbiamo prendere alla lettera il mandato del «lasciare padre, madre e fratelli...».

Semmai si tratta di un auto-sacrificale «restare al proprio posto» che non solo ha una valenza quasi militare, ma anche ci rivela il vero significato nascosto dietro il distacco dai legami e dalle abitudini (il «lasciare...»), e cioè l’imperio esercitato dal nostro Io. E quest’ultimo che noi dobbiamo semmai abbandonare.

E senz’altro molto stesso lo facciamo molto più restando che non invece andando via. Ecco, non c’è nulla che si lascia più plasticamente applicare al valore che si può attribuire al piccolo luogo – l’ostacolo più rilevante su questa via è infatti proprio il valore straordinario che la Modernità concede all’«andarsene» invece che «restare».

Sembra infatti che il secondo configuri il culmine dell’ignominia personale, nella forma di rinuncia ad ambizioni e crescita personale. Invece le cose stanno probabilmente in maniera del tutto opposta.

Il secondo elemento che si può dedurre dal fenomeno del radicamento di Gesù in un luogo riguarda ciò che nel nostro saggio avevamo analizzato in relazione al carattere possibilmente locale della divinità. Per la verità non vi è nulla che sia meno locale del Dio cristiano.

Non a caso ciò è vero proprio a detrimento del troppo stretto intendimento del concetto di popolo eletto che prevalse in Israele. E d’altronde nel nostro antecedente saggio abbiamo parlato del Dio locale prevalentemente in relazione alla dimensione religiosa «pagana».

Avevamo però anche chiarito come non sia affatto difficile trasferire almeno una parte di tale religiosità nella realtà cristiana così come può essere vissuta in maniera strettamente locale. In tale contesto infatti l’Ecclesia assume di fatto lo stesso significato che ha in generale il «Tempio» in ogni forma di esperienza religiosa.

A tale riguardo va detto per onestà che Guardiniafferma con chiarezza che Gesù supera ed anche contraddice la dimensione religiosa nel suo aspetto più elementare e quindi basicamente universale, e quindi fonda una religiosità che va ben oltre quella del Tempio.8

Non a caso il suo conflitto con il farisaismo insorse proprio intorno a questo tema.

Tuttavia evidentemente anche questo è vero solo fino ad un certo punto. Il Gesù che getta le radici molto profondamente per mezzo di un luogo (con tutti i suoi possibili significati), e che poi tale resta per l’eternità – presentandosi in qualunque infinitesimo luogo del mondo come una presenza continuamente rinnovata (maxime nell’Eucaristia) – non può non costituire anche il baricentro spirituale e religioso della più limitata località civica.

Ed è un fatto che quest’ultima è giocoforza sovrapponibile alla realtà di quel Tempio che è poi anche il «luogo dei luoghi», ossia il centro stesso di qualunque (anche minuscola) località civica.

 

La ristretta località e l’umano-divinità

Una suggestione in tal senso viene da Guardini in relazione al significato che deve venire attribuito al fenomeno della “nascita” di Gesù.9

A tale proposito assume infatti un senso del tutto nuovo (in quanto affondante nel più totale mistero) ciò che abbiamo detto finora del mettere radici in un luogo. Il problema è infatti che (come viene chiarito dal nostro pensatore) l’ontologia di Gesù si riassume totalmente nel «fare la volontà del Padre».

Egli esiste solo per questo perché «è» solo questo, e null’altro che questo – Egli «è» la volontà del Padre. Ed è esattamente per questo motivo che Gesù è uomo che non deve entrare in rapporto con Dio (sviluppando così nel tempo una condizione che abbia il suo nadir all’inizio), ma è invece «dio» fin dall’inizio; ovvero fin dalla nascita.

Ecco allora che la determinazione esercitata su di Lui dalla località per mezzo della genealogia (cioè per mezzo del “sangue” risalente a ritroso nel tempo lungo la sequenza delle generazioni) ha un senso completamente diverso da quello usuale per l’uomo.

Tale determinazione da parte del luogo è insomma esattamente ciò che lo rende «dio» fin dall’inizio, ossia a partire dal momento temporali (l’inizio) in cui l’uomo è meno incline alla divinità – costituendo un’anima spirituale che è appena sprofondata nel corpo, nella materia e nel mondo.

Non a caso Guardini sottolinea con forza che nel caso di Gesù fallisce miserevolmente uno degli aspetti che più frequentemente viene invocato nello spiegare l’identità di una persona in relazione agli influssi che gli vengono da un luogo per la via del sangue, ossia la psicologia.

Tale determinazione, infatti, non incide in nulla nella sua ontologia, determinata invece totalmente (come abbiamo visto) dalla volontà del Padre.

Ebbene questa così esclusiva e totalizzante determinazione schiva completamente l’influsso della località da un punto di vista ontologico molto specifico, ossia in relazione all’equilibrio esistente tra divinità ed umanità. Che nel caso di Gesù trova la sua perfezione.

E ciò accade proprio in relazione al momento rappresentato dall’inizio – Egli costituisce il caso (assolutamente unico) dell’«essere dio» totalmente in quanto lo si è fin dall’inizio. Completamente opposto è invece il caso in cui si «è diventati dio». E quest’ultimo è quindi il caso difettivo, rispetto invece a quello più estremo in pienezza.

Solo per inciso va qui ricordato che il «diventare dio» è diventato poco tipico di una mitologia dell’esperienza religiosa che pretende di essere l’opposto di ciò che è, ossia pretende di configurare non la difettività della divinità per antonomasia, ma invece la sua pienezza.

E peraltro si pretende anche che tale pienezza venga conquistata in violenta competizione con un Dio che sarebbe usurpatore per definizione della divinità addirittura naturalmente propria dell’uomo.

Stiamo insomma parlando di quel titanismo di stampo più o meno direttamente gnostico che, a partire dal nietzschianesimo e para-nietzschianesimo (vedi Stirner)10 del XIX e XX secolo, si è poi esteso all’attuale mitologia dell’ascesa al divino per via interiore (definita «illuminazione» e/o «conquista della consapevolezza»).

E naturalmente il Buddhismo ha sempre avuto una forte e naturale parentela con questa presa di posizione.11

Siccome però la volontà del Padre implica per Gesù espressamente il destino tragico al quale Egli andrà incontro come uomo, allora ciò conferisce un significato molto particolare a quel vero e proprio auto-compimento che è per Lui la realizzazione nel tempo di ciò che Egli era già alla nascita.

Si tratta insomma di un’estrema determinazione di esistenza nel senso della sventura, che si verifica in forza dell’identità conferita dal luogo per mezzo della genealogia. E questa volta la genealogia sprofonda a ritroso fino ad oltrepassare l’ultimo limite dello spazio e del tempo, risalendo in tal modo fino all’Origine divina.

Ecco che il caso estremo di umano-divinità viene in Gesù a coincidere con il caso estremo di determinazione alla sventura per via dell’identità. Ma, come abbiamo visto, questa identità ha i fortissimi caratteri della località (sebbene comunque arretri fino alla dimensione più a-locale possibile, e cioè al divino).

Possiamo quindi dire che in questo caso la località agisce nel determinare tanto in positivo quanto in negativo, e cioè tanto espansivamente quanto riduttivamente. In relazione alla divinità essa infatti incrementa, mentre in relazione alla buona ventura esistenziale essa riduce.

Cosa può significare ora tutto questo per il tema che abbiamo trattato nella precedente investigazione?

A nostro avviso può darci ulteriori indicazioni rispetto ad un tema che abbiamo già trattato sulla base del Guardini, e cioè quello del dolore-sventura. 12

Ciò avviene però ponendo quest’ultimo in relazione con il tema dell’umano-divinità. E qui l’ontologia di Gesù diviene di importanza fondamentale; finendo così per chiarire ulteriormente ciò che abbiamo già detto a proposito del «dio del luogo».

Infatti l’espansività propria dell’umano-divinità locale di Gesù incrementa decisamente in ampiezza qualunque dimensione divina del luogo.

Essa insomma cessa di essere delimitata dagli usi e costumi e dal sangue del popolo locale – cosa che genera sempre una divinità essa stessa molto limitata (non solo quanto a vigenza geografica ma anche quanto a potenza divina) − e si dilata fini ai limiti più estremi possibili, e cioè quelli di un Dio universale. Il quale però, continuando ad affondare le sue radici nell’umanità (in quanto uomo-dio), continuerà anche (e senza più alcuna contraddizione con la sua universalità) ad affondare le sue radici nella località.

Dall’altro versante però l’estrema riduttività della condizione esistenziale dell’uomo-dio in relazione alle cogenze del luogo – nel caso di Gesù proprio la tenace ed astiosa resistenza alla sua divinità da parte di quell’Israele al quale in primis Egli era stato inviato – fa sì che il luogo stesso conferisca una coloritura fatalmente tragica alla divinità locale.

Ecco allora che essa, per poter essere davvero autentica (secondo il metro di misura di Gesù quale paradigma di uomo-dio e quindi Dio immanente) deve avere esattamente le caratteristiche che Guardini riconosce in essa, e cioè quello di un dio totalmente inapparente e non trionfante, anzi addirittura perdente.13

Ebbene ci sembra che tutto questo abbia una rilevante ricaduta pratica sull’esperienza religiosa possibile nel piccolo luogo e solo in esso. Abbiamo visto infatti quale potere condizionante abbia la dimensione ridotta della località su tutti i fattori che abbiamo esaminato.

Ma allora – osservando il tutto in uno sguardo di insieme – il fatto più rilevante in tale contesto sarà la tensione esistente tra la pienezza della divinità locale (quale caso estremo in positivo di umano-divinità) e la difettività della relativa condizione esistenziale (quale caso estremo in negativo di buona ventura).

Ciò significa quindi che solo nel piccolo luogo è possibile vivere davvero pienamente il decremento del proprio essere che va di pari passo con la pienezza di imitazione della divinità – e ciò nel senso dell’umiliazione e, possibilmente, anche della sventura.

Laddove entrambi i caratteri trovano espressione nel piccolo luogo in ciò che abbiamo già detto, e cioè nelle molto limitate possibilità di espansione esistenziale, nel senso di successo, prestigio, intensità di relazioni, possessi materiali, potere, sapienza etc.

Ma chiaramente, alla luce di tutto quanto abbiamo detto, tutto ciò finisce per configurare un valore e non un disvalore. Si tratta per la precisione della sacralità o divinità dell’esistenza. E ciò, entro il progetto di Gesù, corrisponde a null’altro che al Regno dei Cieli stesso. Esso evidentemente sta molto più alla portata dei piccoli luoghi che non di quelli grandi.

E ciò corrisponde poi perfettamente alla sapienza entro la quale Gesù riconosceva nei piccoli (ossia nei mal-venturati per antonomasia) coloro che più prossimi erano al Regno – e per questo rinviamo nuovamente all’articolo già menzionato (vedi nota 12).

Tuttavia in relazione con questo sta un aspetto ben più complesso e controverso del piccolo luogo, e cioè qualcosa che in esso è, almeno in prima battuta, oggettivamente negativo.

Possiamo trarre conclusioni su questo a proposito di quanto abbiamo appena accennato, e cioè la resistenza che i suoi stessi compatrioti e correligionari esercitarono contro Gesù. È quanto il Guardini tratta a proposito dello scandalo (Ärgerniss) provocato da Gesù.14

E non deve essere affatto un caso che ciò avvenne in uno dei piccoli luoghi più tipici della realtà di Israele, e cioè Nazareth, il luogo in cui Gesù era nato e cresciuto. È esattamente qui che lo scandalo trova la sua più tremenda manifestazione verbale − «Ma costui che dice di essere il Figlio di Dio non è forse il figlio di Giuseppe e Maria?».

Gesù è insomma «uno di qui...», «uno di noi...», «un povero diavolo, disgraziato e disperato come noi...»! Cosa va cianciando di essere nientedimeno che il Figlio di Dio.

È insomma la sanzione più estrema possibile del nemo profeta in patria. Proprio nel piccolo luogo al quale Gesù appartiene non può in alcun modo venir dichiarato che Dio è un uomo!

Per Guardini, comunque, tutto ciò non è altro che la manifestazione più chiara possibile della cattiveria inseminata nell’uomo dal suo stesso atto originario di ribellione alla condizione dell’esistere soltanto in Dio, e quindi esistere non appena in funzione del proprio Io e delle sue imperiose esigenze.

Le quali qui si producono in una resistenza al divino la cui espressione sta in qualcosa che umanamente appare del tutto ovvio e perfino giustificatissimo, ovvero il «Tu, proprio tu, saresti più santo di noi...?».

In altre parole molto in generale viene qui negata con sdegno la possibilità che al mondo esista qualcosa di davvero buono. Ma la consumata quanto sobria saggezza in nome della quale qui si parla è esattamente quella tipica del piccolo luogo – entro il quale la sostanza di ogni singolo uomo sta totalmente allo scoperto dato che tutto è noto a tutti.

Ciò che prevale è pertanto del tutto ovviamente una sorta di diffusa mediocrità, che si tende mantenere in piedi ad ogni costo proprio perché invalga il principio secondo il quale nessuno può né deve occultare scaltramente la sua vera sostanza umana per esibirne una non autentica se non falsa.

Questa possibilità esiste semmai solo nel grande luogo, nella grande città, in cui l’anonimato domina.

Siamo insomma di fronte ad uno di quegli aspetti deteriori del piccolo luogo (spesso denominato come «controllo sociale») che più frequentemente viene invocato da chi lo disprezza e desidera abbandonarlo.

E qui esso si manifesta nel suo più devastante effetto – quel severo veto alla grandezza umana che non accetta di arrestarsi nemmeno davanti alla manifestazione dell’uomo-dio. La grandezza è qui quella propria di un uomo pio che è anche il paradigma dell’uomo buono (in quanto manifestazione piena del “santo”), e che corrisponde allo status tipico del profeta. Ma non siamo poi tanto lontani anche da quello del filosofo.

E sta di fatto che proprio in tale contesto si possano trovare tutti i presupposti per un credo dogmatico nella fatale cattiveria del mondo e dell’uomo, che è poi quanto rassicura soprattutto il malvagio nel suo agire immorale del tutto privo di scrupoli.

Ebbene, ponendosi così possentemente in sintonia con un orizzonte etico-religioso così ampio e profondo, il piccolo luogo si rivela per ciò che è effettivamente nella sua più riposta sostanza, e cioè tutt’altro che un paradiso.

Non deve quindi risiedere affatto in questo il suo valore differenziale rispetto al grande luogo. Ovvero dobbiamo ammettere che esso non potrà venire rintracciato idealizzando ciò che è e resta appena mondano-terreno e «troppo umano».

Questo è però assolutamente ovvio, e quindi nemmeno mette conto parlarne. Il fatto che emerge è semmai un altro, ed esso sta in diretta relazione con la manifestazione del sacro in un luogo circoscritto – il che poi altro non è se non l’essenza dell’Incarnazione divina.

Naturalmente però, per poter rivolgere la nostra piena attenzione a tale aspetto, noi dobbiamo prescindere da quell’aspetto nucleare del carattere del piccolo luogo (carattere quindi universale e stabile nel tempo, ovvero di certo «sempre esistito...») che senz’altro la narrazione evangelica pone allo scoperto. In questo caso trattasi tuttavia molto più di un carattere generale dell’immanenza mondana che non invece di un carattere tipico del piccolo luogo.

A ben vedere, dunque, tutto quanto abbiamo descritto rappresenta evidentemente appena l’ordinarietà prosaica di tale fenomeno, ossia quanto di esso si perde e si diluisce entro una mera saggezza umana – la quale è poi così rigida nelle sue aspettative da assumere chiaramente la veste di una visione miope e meschina, se non francamente ignorante.

L’effetto provocato dal suo agire diviene pertanto addirittura paradossale, dato che esso finisce per screditare il piccolo luogo. Ed il paradosso sembra consistere proprio nel negare la possibilità di quella manifestazione circoscritta del sacro che invece è esattamente quanto il piccolo luogo garantisce per essenza.

Siamo pertanto chiaramente al cospetto di un fenomeno di degenerazione rispetto ad uno status di ideale perfezione. Ed è estremamente probabile che ciò equivalga a quello svuotamento ritualistico e formalistico delle caratteristiche ontologiche del piccolo luogo che è andato sempre più emergendo nel corso della Modernità – sviluppandosi peraltro come fenomeno parallelo alla svalutazione del piccolo luogo stesso entro la consapevolezza collettiva. È opinabile quindi che noi ci troviamo in tal modo al cospetto di un atto in verità auto-distruttivo in quanto inconsapevolmente auto-critico.

L’immiserimento della manifestazione locale del sacro, entro una saggezza formalistica che esprime in sé il peggio dell’essenza del piccolo luogo, rivelerebbe dunque molto direttamente il fenomeno della svalutazione nella sua ormai avvenuta compiutezza.

Esso è infatti oramai così irreversibile da essere sprofondato nell’inconsapevolezza collettiva. E così, del tutto naturalmente, dell’immenso valore (ormai eclissatosi) del piccolo luogo si manifestano ormai solo le degradate vestigia.

Ed ecco allora che la stessa antecedente proibizione della grandezza non autentica (fenomeno sociale non privo di un suo preciso valore) si trasforma nella celebrazione dogmatica del solo uomo ordinario e mediocre.

È esattamente in questa celebrazione che viene vanificato l’intero spessore dell’antecedente liturgia del sacro, con il manifestarsi in suo luogo di quanto invece di peggio la limitata località è in grado di offrire. Insomma la prevalenza schiacciante del così soffocante e appiattente controllo sociale non sembra essere affatto un fenomeno tipico del piccolo luogo, ma semmai invece uno degli aspetti più tipici della svalutazione di cui esso è divenuto vittima entro la Modernità.

Ed eccolo qui infatti presentarsi nell’esatto opposto della celebrazione del sacro locale, ossia in quella critica così feroce e distruttiva ad esso da essere in grado di metterne allo scoperto perfino il ridicolo (oltre che il falso).

E così il piccolo luogo priva sé stesso di ciò che una volta era il suo stesso centro motore, ovvero la fede incrollabile in un dio locale.

Il Gesù di Guardini punta peraltro il dito verso un chiaro aspetto collaterale di questa complessiva realtà, e cioè la relazione esistente tra il Tempio interiore ed il Tempio esteriore.15

Il discorso è quello che verte sulla purezza che bisogna mantenere nell’atto di sacrificio religioso − espresso più indirettamente negli atti di digiuno o elemosina, oltre che nella preghiera stessa.

E l’invito di Gesù è quello alla conservazione della purezza nel sacrificio anche davanti al proprio stesso occhio, oltre che davanti allo sguardo dell’altro. Ed ecco allora che la preghiera stessa (senz’alto il culmine dell’atto sacrificale) dev’essere nascosta («chiudi la porta della tua stanza...») e di poche parole (dato che Dio conosce già i nostri bisogni, e conosce anche le nostre parole prima ancora che parliamo).

Essa deve pertanto compiersi in quella «camera» che è in sé ben più di un luogo esteriore, corrispondendo infatti all’interiorità stessa. Ecco cos’è quindi il Tempio interiore.

Ebbene, è assolutamente evidente che tutto ciò sembra contraddire uno dei caratteri più tipici della manifestazione locale del sacro, e cioè la sua dimensione apertamente collettiva, comunitaria e sociale (nell’antichità addirittura politica).

E senz’altro nulla più di questo configura un Tempio esteriore. Tuttavia però, se teniamo conto di quanto abbiamo detto prima (a proposito del tipicamente locale «nemo profeta in patria»), emerge un ulteriore aspetto dell’esteriorità qui in causa, e cioè il suo aspetto decisamente non solo deteriore ma anche degenerativo.

Ci troviamo infatti al cospetto di uno dei fenomeni tipici dell’eclisse del piccolo luogo, e non invece del suo fiorire. Dunque la dimensione del Tempio esteriore non deve avere per essenza i caratteri negativi che qui sembrano a prima vista emergere.

Anzi diremmo che l’umiltà (quale mortificazione dell’Io individuale) da essa promossa deve di certo sospingere verso una partecipazione intensa del sacro che non può risolversi nella mera esteriorità formale.

In ogni caso comunque la narrazione evangelica mette con tutto ciò il dito in una piaga che in qualche modo riguarda comunque l’essenza della manifestazione unilateralmente locale del sacro, ossia l’accento posto sulla dimensione della Legge.16

Tuttavia la polemica di Gesù non abolisce affatto il valore oggettivo di tale dimensione. E Lui stesso ne è consapevole se consideriamo il fatto che ha detto chiaramente di non essere affatto venuto ad abolire la Legge.

La stessa consapevolezza sembra essere del resto presente in Guardini, il quale si fa scrupolo di fare una preliminare storia della Legge entro la cultura ebraica, che ne evidenzi le complessive solidissime giustificazioni. La principale di queste ultime è che si tratta non di giurisprudenza né di etica, ma si tratta in primo luogo di religione, ossia di quell’intima ed esclusiva relazione tra uomo e Dio che la Legge ha voluto consolidare in una serie di “patti” (prima con Abramo e poi con Mosè).

In altre parole in questo modo si puntava a ripristinare quella relazione uomo-Dio che il Peccato e la Caduta avevano infranto. Fatto sta però che da Mosè in poi la Legge è stata sempre più immanentizzata, mondanizzata ed umanizzata, in modo da venir trasformata progressivamente in un corpus giurisprudenziale fine a sé stesso.

E questo Guardini non esita a dirlo.

Si afferma così quel mero formalismo giuridico contro il quale Gesù prese posizione del tutto giustificatamente.

L’aspetto principale di questa critica è quella promozione di una riforma del «sacrificio» a Dio, che poi ha segnato uno spartiacque effettivo e nettissimo tra la liturgia cristiana e quella ebraica.

Ed in tal modo ancora una volta si tende ad esautorare e sorpassare la dimensione del Tempio esteriore. Tuttavia sarebbe un grave errore perdere in tutto ciò di vista il nucleo dell’antecedente atto sacrificale.

Esso infatti ci lascia ancora una volta intravvedere i tratti distintivi della celebrazione localistica dell’Incarnazione del sacro. Guardini ci mostra insomma che, entro il corpus così minuzioso delle leggi religiose giudaiche, la purezza aveva una sua precisa logica, che coincide poi esattamente con il senso stesso dell’atto sacrificale.

Esso costituisce infatti il collocarsi dell’uomo (per mezzo dei suoi atti) entro un ordine simbolico il cui culmine sta nell’offerta sacrificale, e che quindi punta sempre più verso l’Alto e verso Dio. Ebbene pare che tutto ciò avesse trovato la sua forma perfetta nel primo patto abramico.

Tale forma presupponeva però la libera adesione dell’uomo alla relazione con Dio che intanto aveva assunto in tal modo la sua struttura.

Tale atto di adesione però non ci fu (esattamente come poi sarebbe accaduto con il rigetto di Dio stesso in Gesù Cristo), e quindi venne posta l’esigenza di un’obbedienza che senz’altro non rientra nella più autentica dimensione della relazione uomo-Dio.

Ebbene tutto ciò ci sembra evidenziare nuovamente il fenomeno di una degradazione della prassi religiosa tipica del piccolo luogo, che però nelle sue ultime fasi finisce per apparire come l’essenza stessa di tale realtà.

Le caratteristiche dell’ordine religioso-cultuale incentrato sul sacrificio corrispondono infatti esattamente a quelle dell’ordine religioso-politico così come si manifestava un tempo nel piccolo luogo.

Ed esso era allora obiettivamente giustificato nel suo valore, ovvero assolutamente autentico. La sua espressione era pertanto del tutto giustificatamente la Legge; ma intanto una Legge che si manteneva nella sua lineare leggerezza e purezza. Caratteristiche che si manifestavano poi in quel Tempio esteriore che era poi l’incarnazione stessa (politica ed architettonica) della prassi di continua relazione tra basso ed Alto. Essa si poneva insomma (come abbiamo chiarito entro la nostra antecedente indagine) come lo stesso Axis Mundi.

È evidente allora che la dimensione negativa stessa della Legge religiosa (evidenziata davvero impietosamente da Gesù) costituisce semmai una piaga tardiva e degenerativa del piccolo luogo, e non invece una piaga originaria ed essenziale.

 

L’ipotetica contraddizione cristiana dei valori di stasi, tradizione e coesione

Abbiamo in tal modo evidenziato una serie di aspetti entro i quali il messaggio di Gesù sembra a prima vista contraddire frontalmente i caratteri di una religiosità del piccolo luogo. Abbiamo constatato però che, ad uno sguardo più approfondito, le cose non stanno affatto così.

Tuttavia bisogna anche ammettere che la provocazione resta in piedi comunque.

Ed essa si presenta non a caso in tutta la sua portata deflagrante entro il discorso sulla spada quale elemento di brusca (e addirittura brutale) divaricazione separante del nuovo dal vecchio; ossia come segno ineluttabile dell’avvento di un’ontologia della trasfigurazione radicale e continua del mondo (ossia l’ontologia che punta direttamente al Regno dei Cieli).17

Ebbene qui siamo al cospetto del più forte elemento di possibile contraddizione del valore del piccolo luogo. Nella nostra antecedente indagine abbiamo infatti mostrato che la sua ontologia è caratterizzata indelebilmente dalla stasi e dalla conservazione.

Inevitabilmente, quindi, la provocazione è a tale proposito talmente forte che di certo non a caso la traduzione di tutto questo discorso tende ad avvenire oggi nel costituirsi di una teologia moderna ormai allineatasi totalmente ai neo-valori filosofici (assoluti ed incondizionati) del «nuovo» e del «caos creativo»− si tratta di neo-valori che senz’altro esaltano la dimensione dinamico-rivoluzionaria contro qualunque dimensione statico-conservatrice.

Questa teologia tende quindi molto fortemente a lasciar delineare proprio questi valori dietro l’essenza della dottrina cristiana.18

Evidentemente però non è affatto questo lo spirito in cui Gesù parla. E Guardininon manca di sottolinearlo più volte, precisando che il messaggio di Gesù non va per nulla inteso come un appello alla riforma politico-sociale se non alla sovversione dei valori tradizionali.19

In ogni caso ci ritroviamo qui nel complesso di fronte alla prospettiva più ampia ed affascinante che potrebbe scaturire dalla dimensione localistica del vissuto del sacro, ossia il Regno dei Cieli. Ebbene, davvero nulla più di questo può rappresentare un’utopia; dato che la storia sembra aver ormai decisamente sorpassato tanto la ragione di essere dei piccoli luoghi quanto anche la fede in una realtà com’è quella del Regno dei Cieli.

Eppure proprio quest’utopia esalta la possibile valenza di alternativa (sociale, urbanistica, psicologica e spirituale) che il piccolo luogo ancora possiede nel contesto di un auspicabile nuovo Ordine mondiale.

La realtà storica dei grandi luoghi ha infatti ormai per molto tempo sviluppato la dimensione del male fino alle sue più estreme conseguenze; e ciò peraltro annientando il valore che l’esperienza religiosa aveva in un passato non a caso dominato dai piccoli luoghi. Se dunque vi è da attendersi un qualcosa che nel mondo torni a seguire la falsariga del bene, esso non può che provenire dalla valenza profondamente etico-religiosa che il piccolo luogo ha sempre avuto.

Tuttavia evidentemente, dopo il fallimento della sua ragion d’essere storica, bisognerebbe ora ammettere che l’eccessiva restrizione locale dell’esperienza religiosa dovrebbe trovare compenso ed integrazione in una sua estrema apertura. E proprio qui troviamo pertanto ad attenderci la rinnovata prospettiva del Regno dei Cieli.

Essa, come abbiamo visto prima, comporta la necessità di confrontarsi molto duramente con la dimensione della “spada” come distacco da tutto ciò che è statico. Prima di discutere questo elemento è però necessario prendere in esame un ulteriore aspetto estremamente critico dell’intera questione. Infatti la stessa continuità della trasfigurazione – che più potrebbe approssimare a noi i neo-valori del «dinamico-nuovo» intesi come assoluti, sottolineando così la natura effettivamente riformista (in senso di rivoluzione ontologica e politico-sociale) del programma definibile come «Regno dei Cieli» − ha invece, a ben vedere, una natura ben diversa da quella apparente.20

La stessa ontologia di Gesù rappresenta infatti per Guardini l’eternità per eccellenza (cosa per la quale la cronologia evangelica stessa della sua vita non può che essere pochissimo coerente nel senso della consecuzione).

Conseguentemente Egli punta insomma ad una storia destinata ad essere “nuova” non in obbedienza al valore (tutto immanente) del divenire dinamico, ma invece in obbedienza al valore (tutto trascendente) dell’eternità.

E non a caso la stessa proclamata prossimità del Regno è comprensibile come valida soltanto sul piano di un’interiorità che supera ormai ontologicamente il valore di ogni esteriorità – laddove la prima non contempla alcuna consecuzione spazio-temporale, bensì invece unicamente la simultaneità che è propria della sola eternità.

Ma è esattamente in forza di questo che il Regno dei Cieli mostra i caratteri apparenti del dinamismo ontologico. Esattamente in forza della propria sostanza eterna, esso, infatti, è ben più un “agire” (Wirken) che non invece un «essere» dato una volta per tutte, e quindi statico. La sua vera sostanza è dunque per eccellenza sottile ed inafferrabile; non invece solida e densa.

Ed ecco allora che esso è destinato a compiersi attimo per attimo nel corso del nostro agire ed inoltre in stretta dipendenza dalla nostra volontà di tenerlo in piedi. Esso è pura espressione della nostra interiorità, e quindi non è mai un’esteriorità che si delinei nettamente e solidamente davanti al nostro sguardo.

È dunque qualcosa che per definizione appare e subito dopo disappare, si manifesta per poi subito svanire, ci ristora e ci rigenera per poi lasciarci subito dopo in un deserto desolato ancora peggiore di prima. È insomma pura Realtà sottile e virtuale, ovvero puramente spirituali. Ha quindi i caratteri più tipici della «pura Possibilità». È in questo senso che il Regno dei Cieli è dinamico e non statico.

Guardini dice che lo stesso “regnare” di Dio sta a contrassegnare l’evidenza che solo Lui è davvero “reale” (wirklich) – in quanto Esistente assoluto −, e quindi è il “santo” nella forma specifica di “senso delle cose”.

Ed il Regno dei Cieli è pertanto lo stesso senso delle cose. Ne consegue necessariamente che il proclamarlo (così come il santificare Dio) equivale all’atto di ricondurre le cose al loro ordine ideale, ovvero alla più pura e trascendente Possibilità. In generale si tratta insomma di ricondurre il mondo alla sua sostanza eterna, invisibile e sottile, ossia spirituale.

E così l’Annuncio del Regno introduce nel mondo quanto è maggiormente inconcepibile secondo il mondo; e quindi è per questo inaudita novità assoluta, ossia l’imprevedibile ed anche impossibile. Questo è il “nuovo senso” del mondo. In altre parole, dunque, il “Regno dei Cieli” è in sé qualcosa di assolutamente assurdo proprio in quanto corrisponde al radicalmente inusuale.

Eppure Gesù stesso (il Dio incarnato) ha annunciato che esso verrà certamente nel momento in cui Dio (posto nel pieno del suo potere di Spirito) avrà impregnato il mondo grazie al «sì» pronunciato dagli uomini. Si tratta pertanto dell’assoluto imprevedibile ed inusuale, una volta reso storico (dall’Annuncio) e quindi reso effettivo, in quanto ormai a totale portata di mano. In questo senso esso è ciò a cui si accede solo mediante la fede. La definizione della fede è pertanto esattamente la seguente: – «Rendere possibile ciò che è in sé impossibile!».

Ma questo può essere plausibile solo se proviene da un radicale Altro rispetto a noi, e quindi in tal modo configura qualcosa che trascende il nostro arbitrio, sempre tendenzialmente illusorio in modo destinato al sicuro ed ignominioso fallimento.

Insomma Lui lo ha detto! Non noi! Che intanto, oppressi e disperati, ci siamo abbandonati alla fede cieca in Lui non avendo più alcuna risorsa se non l’arrenderci alla crudeltà del mondo e quindi sprofondare venendo da esso definitivamente annientati.

Ecco allora che ciò che importa non è affatto quanto è realisticamente possibile o meno nel senso di ragionevole (in relazione al sano «buon senso» razionalistico impostoci dal mondo). Invece ciò che conta è quanto noi rendiamo possibile per mezzo della fede che prestiamo ad una promessa intanto effettivamente certa, cioè l’Annuncio fattoci dal radicale Altro. Questo insomma è il Regno dei Cieli − ciò che noi (per mezzo della fede quale indispensabile presupposto a questo genere di sviluppo degli eventi) rendiamo possibile, restando intanto rigorosamente entro i limiti dalla latenza istituita dall’Incarnazione divina.

Ma intanto il Regno dei Cieli − descritto con le parole di Isaia (11, 6-9), dove il lupo e l’agnello conviveranno... − promette una davvero effettiva ed immanente eliminazione del male. Esso quindi deve essere un’utopia proprio nel senso della nuova creazione e della nuova storia; qualcosa che però non più nemmeno iniziare senza la fede. Ecco che allora il Regno è sempre adveniente (sempre possibile anche se mai del tutto qui), quali che siano le condizioni avverse reali (circostanze); e ciò implica la ricezione in spirito dell’Annuncio − indipendentemente dalla realtà, ossia in totale contraddizione con ciò che filosofia e scienza oggi definiscono imperiosamente come ineludibile «principio di realtà».

Ed eccoci allora di nuovo di fronte alla prospettiva storica che sembra poter stare dietro l’angolo, solo che noi decidiamo di ridare nuovamente valore al piccolo luogo. Sembra essere proprio quest’ultimo infatti il luogo dell’utopia che – grazie all’Annuncio del Regno da parte di Gesù − si accinge costantemente a rientrare nei limiti della storia. Aspettarsi invece lo stesso dal grande luogo sembra francamente davvero irrealistico – dato che esso vuole a tutti i costi essere sempre più il Luogo e Tempo del Male.

È questa allora la riforma storica, politico-sociale, urbanistica e religioso-spirituale che costituisce il presupposto per cui si verifichi uno dei contenuti più intensi dell’Annuncio del Regno, e cioè quello escatologico.

Ora, insomma, proprio ora – grazie all’atto di ri-avvaloramento del piccolo luogo −, una volta consumato il Tempo del Male ed una volta che esso è giunto fino alle sue estreme conseguenze (fino a configurare l’Anticristo stesso, in quanto catastrofe definitiva che ingoia per sempre mondo e uomo), ora e proprio ora inizia finalmente il Tempo del Bene. Ora e qui – entro il piccolo luogo e soltanto entro di esso.

E il segno di ciò non può essere dunque che il riemergere del piccolo luogo entro l’orizzonte della storia.

Eppure entro il messaggio di Gesù – così come ci viene trasmesso da Guardini (vedi nota 17) − questo valore deve comunque conoscere una sostanziale contraddizione. Ed essa coincide con la dimensione della spada, a sua volta intimamente connessa con la decisione dell’uomo a seguire Gesù. Ebbene nulla più di questa decisione esige un taglio netto con tutto ciò che nel mondo e nella vita sembra offrirci quella sicurezza il cui aspetto più tipico noi ritroviamo proprio nella calma staticità del piccolo luogo.

Quest’ultimo è infatti il luogo nel quale «nulla mai cambia», e conseguentemente è anche il luogo nel quale tutto si fa «così come si è sempre fatto». È il luogo dell’«usuale» per antonomasia – e quindi diverge nella sua essenza davvero radicalmente dall’«inusuale» che è invece tipico dell’ontologia del Regno.

È insomma il luogo della tradizione inamovibile per eccellenza, della stabilità e staticità di tutto ciò che è costume, frammisto a sua volta addirittura al sangue. Esso è cioè con ciò frammisto alla dimensione di quella «famiglia» che a sua volta affonda le sue radici nei caratteri costanti della «razza», che a sua volta è inamovibilmente radicata nella «terra». Nulla più di questo offre all’uomo un contesto ideale per passare attraverso la tremenda instabilità ed incertezza dell’esistenza terrena – il cui carattere essenziale è quello di costituire un arco teso tra la nascita e la morte.

Tra le incalcolabili promesse del primo momento ed il loro tragico naufragio nel secondo, si estende dunque l’intera esistenza di qualunque singolarità umana. Nulla più di questo ci offre il riparo insostituibile di ciò che noi tendiamo a sentire come indicibilmente «nostro» − ed al quale ci legano pertanto miriadi di fili invisibili, dei quali possiamo permetterci il lusso incomparabile di non essere quotidianamente consapevoli.

Ben altra cosa accade invece nel luogo «alieno» (ossia fuori dalla nostra terra e patria), laddove ad ogni battito del nostro cuore vi viene ripetuto impietosamente che siamo gettati nel mondo, e che quindi ci viene ricordato che siamo nel pieno dell’angoscia.

E dunque cosa mai può mettere la nostra coscienza al riparo dell’angoscia di vivere se non il pensiero di essere nati nell’alveo di una famiglia saldamente radicata in un luogo, per poi offrire noi stessi questo sostegno a coloro che ci seguiranno e ci sopravviveranno dopo la morte?

Orbene noi crediamo che non vi possa essere alcun dubbio circa il fatto che, entro l’ordine terreno generato dalla Caduta – nel quale il sentimento dominante, che sottostà a tutti gli altri, è quello dell’angoscia di vita e di morte −, questo assetto delle cose è stato ideato dall’uomo proprio come l’unica forma di esistenza che gli si confà. In questo senso esso è davvero perfetto ed insostituibile.

Si tratta insomma di tutto ciò che possiamo definire come «Patria». E non vi può essere alcun dubbio circa il fatto che esattamente il piccolo luogo – e non invece il grande luogo (come si sarebbe spontaneamente portati a credere) – è ciò che più e meglio incarna la complessiva dimensione qui in causa.

Eppure è evidente anche che quanto promesso dal concetto terreno di Patria non è che un succedaneo e surrogato del concetto di Patria colto davvero nella sua pienezza, e cioè quello di «Patria celeste». Ed è proprio a quest’ultimo che il messaggio di Gesù sembra volerci condurre come al punto di approdo di tutte le nostre aspirazioni che è per davvero il più saldo e autentico. Ebbene, paradossalmente, ciò sembra però esigere un distacco davvero molto reciso dai valori della Patria terrena.

Le ragioni di tale distacco divengono tuttavia assolutamente evidenti non appena si esamina in profondità l’ontologia tipica di questa dimensione. La Patria terrena ci offre infatti un riparo sicuro, stabile, e caldo di dolci affetti, solo fin quando nella nostra esistenza vigono condizioni ideali, e comunque non oltre il breve arco di tempo che viene bruscamente interrotto dalla nostra morte fisica.

E lo stesso vale anche per i caratteri qualitativi del piccolo luogo. Non appena, invece, i caratteri della nostra esistenza (nel piccolo luogo che è famiglia e Patria) si discostano anche minimamente dall’ideale – ed ancor più quando tutto ciò che c’era frana infine nell’infamante fallimento della morte −, allora immediatamente la stabilità statica del piccolo luogo si rivela essere stata soltanto un’ingannevole e miserevole illusione.

Ed ecco allora che assume di colpo un senso straordinario ciò che Gesù da sempre ci propone in alternativa. Egli stesso, infatti, descrive davvero impietosamente (in termini meramente terreni) la prospettiva che da Lui viene vissuta e che da Lui ci viene intanto offerta. Essa è la condizione di chi, perfino quale uomo-dio (il Figlio dell’Uomo), non ha dove «posare il capo». Egli insomma non ha luogo, non ha casa, non ha famiglia (né padre né madre, né fratelli né moglie) e non ha patria.

Quindi non dispone per davvero di alcun genere di riparo garantito da possesso, appartenenza e legame. Il che poi è straordinariamente vero proprio per Lui stesso in carne ed ossa, ovvero esistenzialmente − Egli non torna mai «sempre a casa» (qualunque cosa abbiano intanto intrapreso e qualunque fallimento abbiano sperimentato), come accade invece a tutti gli uomini.

Questo significa allora che l’essere figlio di dio è in radicale conflitto con la nostalgia e con l’appartenenza a qualunque genere di luogo e patria. Dunque (come dice Guardini), per darsi al totale nuovo offertoci da Gesù, e cioè da Dio stesso – e quindi darsi alla prospettiva della trasfigurazione del mondo − bisogna avere un senso davvero acuto per ciò che è morto anche se sembra palpitantemente vivo.

Ebbene questo è esattamente quanto ci viene promesso dal piccolo luogo. Del cui valore bisogna quindi essere pronti a riconoscere l’assoluta relatività. Tuttavia, nell’intendimento di Gesù, si tratta molto più in generale del mondo terreno – nel senso che solo al di fuori di questo c’è ciò che è davvero vivo. Si sta parlando insomma dell’eternità.

Queste precisazioni ci sembrano di importanza fondamentale. Perché esse si costringono a separare i caratteri che vanno attribuiti al mondo terreno da quelli che possono venire attribuiti al piccolo luogo. In altre parole a quest’ultimo possono venire attribuiti caratteri positivi anche in presenza della totale svalutazione del mondo che ci viene richiesta dalla prospettiva del Regno dei Cieli.

Nell’insieme, dunque, potremmo dire che il valore etico e spirituale (senz’altro perfino etico-religioso) del piccolo luogo non viene affatto contraddetto dal discorso di Gesù.

Non vengono insomma da Lui affatto negati i valori della famiglia, dell’appartenenza ad un luogo, della patria ed anche della stessa staticità – quali valori in sé, e quindi distinti dalla realtà ontologica del «mondo». Resta quindi pienamente in piedi il valore di quanto ci viene offerto nella ristretta località – in primo luogo ci viene offerto il sicuro e tranquillo riparo da quell’angoscia esistenziale che invece trionfa e dilaga entro la dissipazione (pregna di non-senso) che è invece tipica del grande luogo.

Bisogna però intanto ammettere che ciò avviene appena sul piano di una spiritualità che viene ricompresa entro le circostanze mondane, e dietro le quali si delinea pertanto comunque fatalmente il Baluardo minaccioso ed insuperabile della Caduta. Si tratta insomma di una spiritualità che – per quanto alta e addirittura prossima all’ideale entro il mondo in cui viviamo – è inevitabilmente relativa, e quindi è di fatto di seconda mano.

Essa non può pertanto in alcun modo venire eretta ad assoluto valore di riferimento. E diremmo che ciò è esattamente quanto accade entro una religiosità del piccolo luogo che neghi sé stessa agli orizzonti sconfinati di una metafisica religiosa che la accompagna nel mentre intanto la trascende.

Ciò non toglie però che – prescindendo anche perfino dalla stessa prassi religiosa – un piccolo luogo possa essere pienamente consapevole del proprio valore, nel mentre intanto si guarda molto attentamente dall’assolutizzarlo (erigendolo in tal modo ad un culto fine a sé stesso). Ma questo non significa affatto che il valore del piccolo luogo debba rifluire necessariamente entro il valore del grande luogo e nel culto alternativo da tributare ad esso.

Infatti se il piccolo luogo è esposto ai rischi del relativismo spirituale-religioso, il grande luogo è esposto invece al rischio ben maggiore che è rappresentato da una società cancerosa, disintegrata, devastata e priva di qualunque volto e senso.

Pertanto il piccolo luogo non deve affatto sottomettersi al grande luogo (quale prospettiva che ne trascenda pregevolmente la così angusta e soffocante restrizione spaziale), ma deve invece solo restare aperto all’Assoluto. E questo ci sembra esattamente quanto (sebbene nell’apparente contraddizione) viene messo a disposizione dal messaggio di Gesù.

Questo significa allora che, se parliamo della dimensione religiosa propria del piccolo luogo, noi dobbiamo immaginarla come una dottrina, fede e culto, che − pur esaltando e mantenendo fermo il proprio valore specie in senso etico (resistendo così all’infezione disintegrante proveniente dal grande luogo) – resta ben consapevole di essere tenuta alla celebrazione del valore dell’Assoluto.

E a questo scopo il messaggio di Gesù si offre ad esso come qualcosa di davvero insuperabile.

In termini molto pratici, insomma, intendiamo con ciò sostenere che la pienezza della fede cristiano-cattolica andrebbe nuovamente ricostruita esattamente nel contesto del necessario recupero del valore del piccolo luogo.

 

Conclusioni

Le deduzioni possibili sulla base del discorso guardiniano su Gesù puntano in primo luogo a porre molto direttamente l’accento sul valore del piccolo luogo. L’umano-divinità di Gesù è infatti una kenosis esattamente perché essa si sottomette pienamente alla spazio-temporalità nella sua più drastica dimensione, e cioè quella della restrizione locale. Non a caso la storia di allora e di oggi conosce il Dio incarnato come il «Gesù di Nazareth», ossia come un uomo qualunque.

Abbiamo però anche esaminato quali tremende contraddizioni ciò comporti per l’intera vicenda di Gesù. Proprio in questo stanno infatti quelle che sono tra le principali premesse della Croce. E ciò è del resto anche ovvio, dato che qui stiamo parlando di condizioni che sostanzialmente mortificano la divinità trascendente.

Ora è evidente che anche solo questo rischia di porre fortemente in forse il discorso circa il valore del piccolo luogo. Ma la cosa non finisce qui. Perché noi abbiamo visto che esistono anche altri aspetti del messaggio di Gesù che entrano in diretta e radicale contraddizione con il possibile valore attribuibile al piccolo luogo. Essi infatti sembrano non a caso a prima vista contraddirlo e perfino rovesciarlo.

Tuttavia ad un’analisi più approfondita delle cose, questo non appare più vero. Ed a questo genere di conclusioni siamo potuti pervenire costantemente; perfino a proposito della più grande provocazione apportata dal messaggio di Gesù, ossia quella relativa alla spada.

Ci sentiamo quindi di affermare che il complessivo messaggio di Gesù non pone affatto in discussione quanto abbiamo posto in evidenza nella nostra antecedente indagine sul valore del piccolo luogo (vedi nota 2).

Anzi, tenendo conto di questo ulteriore elemento, è possibile addirittura rafforzare ed ampliare il valore della dimensione religioso-cultuale che avevamo già constatato essere uno degli aspetti più pregevoli della località ristretta. Proprio su questa base siamo infatti poc’anzi giunti alla conclusione che è possibile e inoltre del tutto lecito dare un volto esplicitamente cristiano-cattolico alla complessiva dimensione civico-sociale del piccolo luogo quale nuova alternativa da offrire all’uomo ed al mondo.

E questo ci sembra estremamente significativo per almeno due motivi.

In primo luogo è significativo perché rinsalda con la tradizione l’auspicabile prospettiva futura.

In secondo luogo è significativo perché disinnesca la possibile portata «neo-pagana» che rischia di avere il recupero della religiosità ristrettamente locale, ossia il concetto di «dio del luogo».

E con ciò possiamo quindi considerare ultimato il supplemento di indagine al quale ci siamo dedicati in questo scritto.

 

 

Note

1 Guardini, Der Herr, Grünewald & Schöningh, Ostfildern Paderborn 2016.

2 Saggio che non è stato pubblicato, ma che è stato da noi ampiamente presentato sul blog Cielo e Terra.  

3  Guardini, cit., VI, 2 p. 497-504.

4  Guardini, cit., I, 1-2 p. 1-12.

5  Guardini, cit., VI, 1 p. 489-497.

6 A. K. Coomaraswamy, Qual è stato il contributo dell’India al bene dell’uomo? in: A. K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Adelphi, Milano 2011, p. 11-39.

7 Guardini, cit., III, 6 p. 213-221

8 Guardini, cit., V, 4 p. 396-406, VI, 7 p. 531-537.

9  Guardini, cit., I, 3 p. 12-19.

10 M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1979.

11 V. Nuzzo, Buddhismo o ateismo? Cassandra Books, Verona 2019.

12 V. Nuzzo, “Il fattore «Gesù» e gli umani dolore e sventura”, Il Nuovo Monitore Napoletano, 7 Maggio 2109

13 Guardini, cit., II, 4 p. 108-115.

14 Guardini, cit., II, 8 p. 48-53.

15 Guardini, cit., II, p. 93-100.

16 Guardini, cit., III, 3 p. 189-199.

17 Guardini, cit., III, 6 p. 213-221.

18 Abbiamo commentato criticamente tutto questo nel nostro saggio dedicato alla Filosofia accademica attuale ed inoltre in diversi articoli dedicati allo stato dell’attuale filosofia religiosa [V. Nuzzo, Ripensiamo la filosofia, Victrix, Forlì 2018; Nuzzo, “Jean-Luc Marion e la filosofia religiosa”, Nuzzo, “L’attuale realismo filosofico e lo stato dell’odierna Filosofia”, Il Nuovo Monitore Napoletano, Aprile 2018

19  Guardini, cit., I, 7-9 p. 40-57.

20 Guardini, cit., I, 7 p. 40-47.

 

 

 

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