1918: la vittoria italiana con due napoletani al comando

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Armando DiazQuando si porta avanti la narrativa falsa e masochista dal punto di vista civile e della corruzione mentale collettiva, del ‘vittimismo napoletano e meridionale’, dell’essere stati solo oggetto e non soggetto e protagonisti di storia nazionale, si omettono fatti storici grandiosi, che smentiscono costantemente quella narrativa, che poi non a caso produce i velenosi frutti dello stato di decadenza civile, che portano ad esempio nel 2018 la provincia di Caserta all’ultimo posto per qualità della vita e quella di Napoli agli ultimi.

Questo anno è il Centenario della fine della Prima Guerra Mondiale, con la quale si conclude quel grandioso processo di unità politica della penisola, con la contemporanea nascita di uno Stato costituzionale, libero, laico, man mano sempre più democratico (fino al suffragio universale maschile del 1912), che costituisce l’evento più importante nella storia millenaria della penisola.

 

Di quel fondamentale evento, seppur doloroso, in termine di vite e di sacrifici compiuti, furono guide vittoriose due ‘napoletani’: il re d’Italia Vittorio Emanuele III ed il comandante delle Forze Armate Armando Diaz.

Il futuro re nacque a Napoli l’11 novembre 1868 ed ebbe il titolo di ‘Principe di Napoli’. Alla città natale partenopea fu sempre legato e ad essa fece doni culturali costanti, tanto che la Biblioteca Nazionale di Napoli è a lui intestata, essendo collocata nel Palazzo Reale da Vittorio Emanuele III donato come nuova degna sede.

È una figura di grande complessità storica, perché ha dovuto affrontare situazioni storiche drammatiche, che avrebbero richiesto doti e collaborazioni che egli non ebbe, ma nemmeno bisogna negargli doti che aveva e conquiste che sono legate alla sua vicenda biografica e politica.

Dovette affrontare l’assassinio disumano del padre Umberto I a Monza del 29 luglio 1900, essere sbalzato a 32 anni sul trono in modo imprevisto. Accompagnó e assecondó nel rispetto e nello sviluppo dello Statuto, la carta costituzionale di allora, nata nel 1848, la fase più grande di sviluppo dell’Italia del Novecento, quella dell’età giolittiana (1900-1915), che, accanto a tante ombre ebbe tante luci (come ad esempio il citato suffragio universale maschile del 1912, che diede basi più democratiche al paese, permettendo una maggiore circolazione della classe dirigente ad esempio, la solidità economica con la lira che faceva aggio sull’oro).

Fu il re della vittoria della Prima Guerra Mondiale, che vide tutti i membri di casa Savoia in prima linea.

La parabola negativa, nel solco del giudizio della più avveduta storiografia, comincia con il non contrasto deciso al fascismo, a partire dal 1922, quando poteva e doveva, di fronte alla squadrista e illegale marcia su Roma, far intervenire l’esercito, che l’avrebbe facilmente sciolta, non avendo vera forza militare e col giocatore Mussolini a Milano, pronto a scappare in Svizzera, se il colpo di mano audace tentato fosse fallito, come giustamente temeva.

Aver legato i destini della monarchia al fascismo provocò il suo trascinamento verso il baratro storico del fascismo stesso.

Il tragico Vittorio Emanuele III di questa seconda fase della sua vita condivise di diritto e di fatto tutte le scelte antidemocratiche, repressive, mano mano totalitarie, del fascismo, fino alla guerra contro lo stato sovrano dell’Etiopia, all’intervento a fianco del colpo di stato di Franco in Spagna contro la legittima Repubblica Spagnola, all’approvazione delle infami leggi razziali, all’alleanza con il nazismo di Hitler e di Auschwitz e all’entrata in guerra con la Germania (che aveva annesso anche l’Austria), rinnegando anche per questo aspetto tutto il Risorgimento, il valore ed il significato della Prima Guerra Mondiale, che aveva visto proprio l’Austria e la Germania come nemici frontali.

Nè lo salvó, anzi ne aggravó la figura storica, la fuga da Roma del 9 settembre 1943, dopo che aveva lodevolmente fatto arrestare Mussolini il 25 luglio di fronte alla guerra perduta ed ai disastri conseguenti compiuti, anche per sua colpa.

Avesse guidato la resistenza contro i nazisti (avendo a disposizione forze cospicue dell’esercito), che stavano occupando la penisola, affrontando anche la morte, avrebbe salvato la sua personale dignità e la dinastia. Perció giustamente il popolo italiano chiuse con il voto del referendum del 2 giugno 1946 l’esperienza monarchica in Italia e sancì la fine della dinastia dei Savoia, come aveva fatto coi Borboni e altre piccole dinastie nel 1859-1860.

Armando Diaz nacque a Napoli il 5 dicembre 1861 e morì a Roma il 29 febbraio 1928, duca della Vittoria. È sepolto nella monumentale Chiesa di Santa Maria degli Angeli, dove si tengono i solenni funerali di Stato. Fu capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, succedendo a Cadorna, dopo la sconfitta di Caporetto del 1917 e portó alla fondamentale vittoria di Vittorio Veneto e alla fine vittoriosa della guerra il 4 novembre 1918.

Il padre era l’ingegnere Ludovico, ufficiale del genio navale, nativo di Gaeta, e la madre Irene Cecconi di origini nobiliari. Vivevano nell’attuale via Francesco Saverio Correra.

Ebbe una carriera severa e brillante, ma conservando sempre quel fondo di umanità e di apertura, tipico dei napoletani, e che lo fece amare dai soldati e dall’opinione pubblica nel momento più delicato della guerra, quando, resistendo sul Piave, l’Esercito, sotto la sua nuova guida, di un ‘Napoletano’, col conforto del capo supremo della Nazione, un re ‘Napoletano’, seppe poi avanzare e vincere, col sostegno concreto e morale di tutta la Nazione, mai cosi tutta patriottica ed unita, come vorremmo che fosse sempre, specialmente di questi tempi.

 

 

 

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