Max Weber e la razionalità scientifica
L’intera opera di Max Weber è percorsa dalla tensione irrisolta tra l’esigenza di scientificità che egli impone al suo discorso, e il riconoscimento dei limiti che la razionalità tipica della scienza incontra quando l’uomo si accinge a specificare quali siano i significati ultimi in base ai quali organizzare la propria vita. Ne deriva, da un lato, l’ottimismo scientista dei positivisti, e dall’altro l’acuta consapevolezza weberiana che il progresso scientifico degli ultimi secoli costituisce la radice del particolare genere di razionalizzazione che impronta le società dell’Occidente industrializzato. E’ proprio questa consapevolezza della difficoltà dei tentativi volti a definire in modo preciso la razionalità a rendere Weber più che mai attuale. Si può immediatamente notare che il pensatore tedesco adotta sin dall’inizio un particolare punto di vista: gli preme, per l’appunto, stabilire quali siano i tratti caratterizzanti che ci consentono di parlare di una razionalità occidentale, il che significa che è in partenza disposto a riconoscere che vi sono “altre” forme di razionalità.
Il risultato di una simile assunzione è duplice. Da un lato, essa gli consente di individuare nello sviluppo della scienza (e della tecnologia) uno dei tratti principali - e forse il principale in assoluto - delle società occidentali, mentre dall’altro gli permette di rilevare che un sistema sociale può evolversi anche in assenza del progresso scientifico come noi oggi lo intendiamo. Si tratta di una visione pluralista: non nega che la razionalità occidentale abbia prodotto dei risultati pratici assai più abbondanti di quelli conseguiti da differenti tipi di razionalità. Al contempo gli interessa notare che la stessa nozione di risultato “pratico” migliore è ambigua, in quanto dipende dal punto di vista scelto dall’osservatore. Chi può infatti negare che un modo alternativo di organizzare la vita individuale e sociale possa - in linea di principio - consentire di raggiungere minori risultati pratici, ma una maggiore armonia tanto collettiva che interiore? Weber riconosce la poliedricità dell’idea di razionalità, ma usa frequentemente il termine “razionale” senza spiegare esattamente il suo significato, e ciò causa disorientamento. Un esempio di razionalità è suo avviso fornito dal capitalismo. In quest’ambito, è razionale (nel senso di “deliberata”) la ricerca del profitto; è razionale (nel senso di “sistematica” e “calcolabile”) l’organizzazione del lavoro; è razionale (nel senso di “impersonale” e “strumentale”) lo scambio di mercato; e sono parimenti razionali (nel senso di “regolamentate” e “prevedibili”) le strutture politiche e legali che affiancano l’ordinamento economico capitalistico. E’ dunque legittimo, giunti a questo punto, chiedere che cosa intenda quando usa il termine “razionale”: Sistematico? Calcolabile? Impersonale? Strumentale? Regolamentato? Prevedibile? In effetti, la lettura dei suoi scritti offre appigli per una risposta positiva a ciascuna delle precedenti domande. Una delle grandi novità introdotte da Weber nello studio delle discipline storico-sociali è la rottura dello schema illuministico che invoca l’illimitata fiducia nella razionalizzazione pratica e teorica della realtà. Afferma infatti che il benessere materiale indotto dal progresso scientifico non sempre, e non necessariamente, coincide con il benessere spirituale dell’individuo e del sistema sociale di cui fa parte. Si tratta di una distinzione indubbiamente difficile da precisare in termini sia linguistici che concettuali: che cosa significa, infatti, “benessere spirituale”, e in quale misura esso può venir effettivamente scisso da quello materiale? Per chiarire il senso della questione gli schemi precostituiti non servono, e occorre invece esaminare dei casi concreti. Weber prende in considerazione soprattutto il capitalismo, notando che esso ha certamente consentito un enorme sviluppo del benessere materiale e la crescita della quantità e qualità dei beni a disposizione dei cittadini; d’altra parte, a suo parere, il sistema capitalistico ha pure dato vita a una sorta di “gabbia di ferro”, in grado di determinare la vita dei singoli attraverso una coercizione più o meno mascherata. Si può replicare che “qualsiasi” ordinamento economico, sociale e politico nel quale l’individuo si trova inserito in un certo momento storico è destinato a produrre una “gabbia di ferro” che indirizza la vita del singolo attraverso una coercizione di qualche tipo. Occorre prestare attenzione quando si discute questo problema, giacché, se si esamina la storia dell’umanità secondo il suo corso effettivo, e non usando schemi creati “ad hoc”, ben presto è facile accorgersi che soltanto gli utopisti possono seriamente sostenere che siano esistite società del tutto prive di coercizione, nelle quali gli uomini vivevano in completa armonia. Il recupero di questa (presunta) perduta felicità costituisce, per l’appunto, la base su cui gli utopisti hanno sempre costruito il loro sogno di “società ideale”. Weber non è certamente un utopista: a impedirgli l’adozione di schemi utopici sono il suo realismo disincantato e l’evidente pessimismo circa i limiti negativi della natura umana. E tuttavia, si avverte qua e là nelle pagine delle sue opere una nostalgia sottile per un mondo pre-industriale in cui gli esseri umani vivevano felici. Anche dal punto di vista legale e amministrativo, le esigenze di razionalità e di efficienza tipiche del capitalismo conducono, a suo avviso, alla “disumanizzazione” delle mansioni: il funzionario burocratico agisce escludendo dalla propria sfera d’interessi l’amore e l’odio, e in genere tutti gli elementi affettivi puramente personali. E’ del resto ben nota la geniale caratterizzazione weberiana del burocrate che è ridotto a mero ingranaggio di un meccanismo complesso, il quale funziona senza interruzioni e rispettando tabelle di marcia rigidamente vincolanti. Si può discutere se questa analisi della moderna burocrazia sia in effetti esaustiva; Ludwig von Mises ritenne che gli aspetti negativi del funzionamento dell’apparato burocratico non vadano attribuiti alla peculiare natura dell’organizzazione capitalista, bensì al fatto che, negli ultimi due secoli, l’ispirazione originaria del capitalismo è stata inquinata dal crescente interventismo statale in economia e dal controllo sempre più capillare esercitato dai partiti politici sulla sfera economico-sociale. Weber adotta una concezione più “tragica” di quella liberale. Per lui la scissione tra razionalità formale e materiale conduce a conflitti di valori che si rivelano irrisolvibili attraverso le libere regole della dialettica democratica. Tuttavia non bisogna essere troppo pessimisti circa la capacità dell’uomo di giudicare la realtà che lo circonda. Anche chi aderisce a un ben strutturato sistema di valori e di credenze è in grado di comprendere, in un certo momento dello sviluppo storico, se tali valori e credenze hanno o meno dato vita a un ordinamento politico, economico e sociale “vivibile”. L’inamovibilità di alcuni valori, che sembra assoluta in un dato periodo, può crollare repentinamente in un periodo successivo grazie al confronto non più rinviabile con sistemi sociali diversi. E ho di proposito sottolineato l’aggettivo “vivibile”, preferendolo a “razionale”. Se infatti ci accingiamo a formulare dei giudizi su una certa società partendo da criteri di razionalità, rischiamo di restare ben presto avviluppati nelle aporie che lo stesso Weber individua dichiarandole irrisolvibili. Se, al contrario, sostituiamo il requisito forte della conformità a schemi razionali con quello più debole della vivibilità, possiamo evitare dette aporie individuando una serie di condizioni generali in base alle quali organizzare la società. La tragicità della concezione weberiana impedisce in una certa misura l’applicazione dei suoi criteri metodologici. Quando afferma che la vita conosce soltanto il conflitto insanabile fra posizioni ultime, quando insiste sul disincantamento del mondo, Weber sembra essere prigioniero di schemi mentali assai diffusi nella sua epoca. Il sociologo tedesco usa spesso espressioni come “il destino della nostra epoca” (la quale sarebbe senza dei e senza speranza). Al pari di Heidegger - si rammenti la sua celebre frase “ormai solo un dio ci può salvare” - egli ipotizza che soltanto nuovi profeti potranno redimere le nostre società dal razionalismo strumentale che le pervade. Meglio abbandonare siffatte espressioni per definire criteri di vivibilità i quali, pur modesti, consentano agli individui di costruire sistemi sociali in cui benessere materiale e spirituale risultino effettivamente compatibili.
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