La decapitazione di Michele Morelli e Giuseppe Silvati
I sottufficiali Michele Morelli e Giuseppe Silvati furono gli unici a pagare con il sacrificio estremo la rivoluzione costituzionale napoletana del 1820, che aveva coinvolto tantissimi uomini, soprattutto i militari del Regno guidati dal Generale Guglielmo Pepe. Dopo la repressione attuata dalle potentissime truppe della Santa Alleanza che scortarono il re fino a Napoli per fargli rinnegare la Costituzione concessa, Michele Morelli e Giuseppe Silvati furono decapitati con la ghigliottina. La modalità di esecuzione dei questi due eroi del Risorgimento meridionale e italiano, è stata comprovata da una documentazione che ha confutato e corretto quanto riportato da alcuni storici, tra cui Pietro Colletta, che scrisse di un’esecuzione tramite la forca. Morelli e Silvati furono condotti in «San Francesco a Capuana» e lì ad «ora 15 e mezza circa», il 12 settembre 1822, uccisi «colla guillottina», come riporta il documento più importante, ossia quello redatto dai confratelli della Compagnia dei Bianchi della Giustizia, a cui era affidato il compito di assistere i prigionieri condannati a morte e di riportare in un registro i dati personali e la cronaca dell’esecuzione.
Le giustizie avvenivano per forca o per mannaia. Quest’ultima, le cui origini risalgono al XIV sec., era una macchina per decapitazione molto simile alla ghigliottina francese, ma dotata di lama a forma di mezzaluna anziché obliqua. Almeno fino al periodo francese la mannaia era stata un privilegio riservato ai nobili, tutti gli altri venivano impiccati. La ghigliottina fu progettata in Francia alla fine del 1700 e fu introdotta nel Regno di Napoli durante l’ultima fase del periodo francese da Gioacchino Murat. Di Giuseppe Silvati è riportato che «morì veramente contrito e da cristiano per divina misericordia», e quindi fu seppellito nella Chiesa di S. Caterina a Formiello, Michele Morelli, invece, pur ammettendo l’esistenza di un «Ente Supremo», non si era mai posto la questione della «Rivelazione». Il morire con <<grandi segni di edificazione>>, gratificava pienamente i confratelli perché dimostrava che il loro ufficio era andato a buon fine. L’accettazione positiva di quell’infausto destino garantiva la salvezza della loro anima e non la dannazione, cosa che invece era temuta per i condannati che non si rassegnavano e non volevano riconciliarsi né con il mondo e né con Dio. Pertanto, non accettando alcun genere di pentimento, e ritenuto lontano da Dio, il Morelli fu «seppellito nel cortile delle carceri di San Francesco a Capuana, luogo non sacro». Oltre all’evidenza incontestabile della documentazione della Compagnia dei Bianchi, l’esecuzione tramite ghigliottina fu attestata anche da una lettera di M. de Fontanes, dell’Ambasciata francese a Napoli, inviata il 13 settembre al visconte di Montmorency, nella quale si riportava, oltre l’avvenuta decapitazione tramite ghigliottina, le circostanze di rifiuto di Morelli di affidarsi al conforto della Compagnia dei Bianchi, contrariamente a Silvati, che con somma rassegnazione, fu «trasportato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, e con un velo nero che gli ricopriva il volto», come prevedeva la condanna col terzo grado di pubblico esempio. Anche il generale Guglielmo Pepe, nelle sue Memoires, scriveva che dall’esilio gli erano giunte notizie che Morelli e Silvati avessero perso la vita “sous la guillotine”.
Bibliografia Raffaele Scalamandré, Michele Morelli e la rivoluzione napoletana del 1820-21, Roma, 1993.
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