Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I tipi antropologico-sociali. “L’estenuata Dama”

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Avendo descritto in maniera piuttosto esauriente la dimensione antropologico-sociale, credo che a questo punto si possa anche fuoriuscirne per poter gettare uno sguardo anche su altri tipi.

Si tratta di tipi che rientrano comunque in tale dimensione ma in maniera ben più indiretta, e quindi sarebbero in sé da considerate in effetti solo secondari. Infatti essi non rappresentano i veri e propri protagonisti degli eventi, ossia per così dire gli elementi costitutivi della struttura sociale gerarchica che qui stiamo esaminando.

Ne sono invece semmai solo aspetti collaterali, e quindi forse ne costituiscono più il colore che non la sostanza.

Vedremo però che, nell’approfondire la natura di questo genere di tipi, noi ci accorgeremo che essi sono in effetti molto meno secondari di quanto sembrerebbero. Ecco allora che l’indagine sulla di essa getterà nei fatti non poca luce su molti aspetti della struttura che abbiamo appena finito di osservare ed analizzare. E quindi credo che decisamente valga la pena soffermarsi anche su di questi tipi.

Ancora una volta, però, mi limiterò (per brevità) a raccogliere appena dei saggi a campione dell’immenso materiale di osservazione che sta a nostra disposizione a Napoli nei più diversi ambienti.

Ecco. Basta uscire per strada nelle parti della città che più conta per imbattersi immediatamente in più esemplari del tipo che ora andrò a descrivere. Non è né borghese né aristocratico, ma senz’altro, almeno in pectore, esso rientra nella stessa area tipologica in cui abbiamo visto aggirarsi il «gran signore» napoletano.

 

Diciamo insomma che di quest’ultimo il tipo in questione è costante ed anzi immancabile appendice – nel senso che mai c’è l’uno senza l’altro. E questo chiama poi in causa qui un po’ anche tutte le tipologie professionali che abbiamo visto ruotare intorno all’ avvokëto, e che a Napoli appunto tendono più frequentemente ad occupare gli strati alti della società. Si tratta insomma di coloro che godono in genere del maggiore prestigio e potere, e che quindi destano negli altri la maggiore ammirazione o invidia.

Uno degli aspetti di tale invidia sarà allora proprio l’immancabile associarsi del tipo «gran signore» o avvokëto, al tipo antropologico-sociale di cui qui ora andremo a parlare

Ebbene, per tutti questi motivi, il tipo di cui sto parlando anche si conformerà inevitabilmente ai vari aspetti ontici che sono proprio di questa condizione. Esso si forma, si costituisce, si struttura su di essi. E quindi giocoforza anch’esso configurerà sempre appena un personaggio (una maschera), e mai invece una persona. Ma questo in maniera ben più essenziale di quanto abbiamo visto finora (specie in relazione ai tipi professionali). L’apparenza più totale è infatti la sua essenza stessa. In parole più semplici esso è l’inautenticità in persona. Oppure, volendo essere ancora più espliciti, esso è la falsità in persona. Suoi debbono quindi essere tutti i modi della più estrema affettazione nell’essere e nell’apparire.

Sto insomma parlando di quel personaggio esclusivamente femminile che costantemente accompagna l’essere ed agire dei tipi del genere di «gran signore» e avvokëto. È di fatto la loro relativa first lady, o anche prima donna.

E però non lo è senza avere un carattere estremamente specifico. Ed è allora proprio in forza di quest’ultimo che costei può e deve venir definita come la perennemente estenuata dama. Infatti la caratteristica primaria di quella sua falsità inautentica, che poi costantemente si traduce nella più plateale affettazione – distillato purissimo dell’arte teatrale partenopea –, è il mostrarsi sempre e comunque «stanca». Cosa affatto casuale, perché voluta.

È infatti assolutamente chiaro che la sua stanchezza proviene esclusivamente dal non fare assolutamente nulla, o meglio dal trovarsi in una condizione sociale ed economica che le permette di non fare assolutamente nulla. Costei insomma esibisce la noia come lusso, cioè come evidente frutto di privilegio. E forse addirittura come virtù.

Ma solo se intanto è chiaro che con quest’ultima va inteso qualcosa che non può né vuole sussistere senza venire sorretta da un consistente flusso di emolumenti finanziari.

Tal virtù, insomma, può sussistere solo se brilla, se sfolgora, se si distingue, se fa bella mostra di sé (come la preziosa spilla che non a caso l’estenuata dama sfoggia sul suo nuovo vestito) quale costosa apparenza di qualcos’altro – di una fortuna economica e di un’invidiabile posizione influente. E quindi questa virtuosa donna (virtuosa in forza di ingenti sostanze) deve necessariamente mostrarsi in abiti ricercati e costosissimi – sempre quelli che tutti sanno provenire da quel ben noto e famoso negozio –, in pose ed apparenze capricciosamente graziose, civettuole e seducenti, in case straordinariamente lussuose e prestigiose, in ambienti sociali e cerchie di amici assolutamente brillanti, anzi sfolgoranti.

E tuttavia, intanto, questa donna deve apparire in ogni caso perennemente ed invariabilmente stanca, e precisamente stanca proprio di non fare un beneamato nulla.

Quindi va da sé che ciò deve mostrare le sue cause. Deve insomma mostrare chiaramente che lei è o la moglie, o la sorella, o l’amante (cioè l’immancabile appendice) di una delle figurazioni del «gran signore», o (che è poi la stessa cosa) anche di una delle forme di incarnazione del paradigma dell’avvokëto.

Esattamente in questi termini lei stessa è una «gran signora», ed anche lei stessa impersona così il paradigma dell’avvokëto; e ciò nel senso che partecipa dei pregevoli frutti di una condizione sociale e professionale della quale però non è protagonista attiva. Semmai ne è diretta ed inalienabile usufruttuaria.

Tuttavia non è raro che anche lei sia impegnata lavorativamente, ed egualmente in maniera prestigiosa e socialmente elevata. Può dunque essere una professionista in uno degli studi più in vista della città, oppure in uno dei centri di potere pubblico più esclusivi della città e circondario. Può magari anche svolgere uno di quei lavori intellettuali che si distinguono per creatività e sofisticazione, e che quindi possono godere anche di sostanziose parcelle. Ebbene, questo farà sì che costei non sia solo perennemente stanca perché (grazie al consorte o sodale) si può permettere il lusso di non fare un accidente.

Ma anche perché in qualche modo «non ha mai tempo». E questo è allo stesso tempo vero e non vero. In primo luogo perché lei non dipende assolutamente dal lavoro per vivere. Ed in secondo luogo perché il suo «non-avere-mai-tempo» è una pantomima prima di qualunque altra cosa. E questo è poi l’aspetto più importante.

È dunque anche in questo senso che costei è insieme dama ed estenuata. È colei alla quale la ricchezza ed il prestigio sociale impongono da un lato di godere del lusso di un’ampiezza e intensità di movimento fuori dal comune (in quanto determinata dalle possibilità aperte dall’essere facoltosi), ma dall’altro lato di godere anche del lusso (ancora più incomparabile) di lamentarsi di tutto questo.

Ed anche in questo caso ci troviamo davanti a qualcosa di studiatissimo. L’effetto di questo binomio è infatti davvero sublime, ossia è appunto incomparabile. C’è il godimento illimitato e sfrenato, con tutta l’invidia che esso genera nel povero, e c’è insieme anche quel così delicato e ricercato spleen ponderativo, raccolto e saggio, che è poi tanto intellettualmente raffinato!

Anzi è perfino seducentemente understated, cioè suggerisce addirittura la stessa umiltà. Non senza però un inconfondibile tocco di aristocratica finesse.

C’è insomma un insieme incomparabile di azione e contemplazione. Insomma c’è davvero tutto. Non manca assolutamente nulla. È la perfezione stessa. E così per tutto questo si verrà semmai invidiati, ma mai davvero odiati. Perché nello stesso tempo si sarà infinitamente ammirati; se non adorati e venerati come delle vere icone.

Eccoci insomma di nuovo di fronte alla pienezza propria del valore e ruolo del «gran signore» partenopeo. E come si può vedere ciò viene allo scoperto per mezzo di quella splendente, profumata e seducente aura femminile, che è destinata a circondarne sempre la sua già così augusta presenza. Tale presenza aggiuntiva è quindi secondaria solo in questo senso, e quindi alla fine dei conti rientra pienamente nella sostanza del «gran signore».

Per questo, quindi, bisogna assolutamente descriverla.

Ma sta comunque di fatto che il «non-aver-mai-tempo» dell’estenuata dama può anche totalmente prescindere da qualunque effettiva attività professionale. Anzi questo è proprio quanto accade nella maggioranza dei casi. E così bisogna dire che solo in questo caso in effetti i crismi del tipo vengono davvero rispettati fino in fondo.

La dama insomma può continuare a fare un assoluto bel nulla, ma intanto si estenuerà davvero fino allo stremo nell’attendere al compito di arredare la nuova prestigiosissima casa che il suo sodale le ha appena comprato, oppure ancor più la villa a Cäpri.

Oppure addirittura sarà direttamente impegnata nella prestigiosa ristrutturazione dell’una o dell’altra. Oppure ancora sarà arrivata allo stremo più totale nella ricerca della residenza più esclusiva possibile per le prossime vacanze estive o settimana bianca, o ancora nella scelta delle pietanze per la cena favolosa che sta per offrire ai facoltosi e potenti amici del suo sodale.

Etc. etc. Insomma tutto questo è ben più serio ed impegnativo che non il passare la vita nell’estenuazione (pur in sè non trascurabile) del «fare shopping», oppure del darsi a vigorosi e rassodanti esercizi in palestra, o alle meditazioni yoga ed ai massaggi con pietre calde giapponesi, o  ai Pilates o Gyrotonic, o ancora ai leziosi happy hours con le amiche, oppure infine al disimpegnato ma appassionante flirt con il vecchio compagno di scuola.

Queste ultime attività appartengono non meno essenzialmente alla nostra estenuata dama. Eppure solo le prime costituiscono il suo davvero migliore biglietto di presentazione davvero primario. Pertanto sarà in primo luogo ad esse, che lei ricorrerà nell’esibirsi.

Insomma la nostra estenuata dama è una che vuole farci capire di fare sul serio. È una che ha energia, una che è forte. Insomma, anche se lei vi dirà sempre ed invariabilmente che è spaventosamente stressata e che ha i nervi a fior di pelle, ed anche se vi dirà sempre ed invariabilmente che proprio per questo ha bisogno costantemente di una dose crescente (come una cocaina) delle sue attività ricreative, alla fine è lei stessa a non crederci.

O meglio è lei stessa a non volere che voi ci crediate. Insomma, è molto complicato entrare nella psicologia della nostra sempre così estenuata dama; e quindi è del tutto inutile provarci, dato che non si caverebbe un ragno dal buco.

Dunque non si sa, né si può sapere, se ella è debole o forte, se si lamenta con ragione oppure no, se è davvero così felice (come vuole che si creda) oppure no, se è davvero convinta che la sua vita sia invidiabile oppure no. È certo che nemmeno lei lo sa bene. E quindi come può pretendere di saperlo chi la osserva?

L’unica conclusione che da ciò si può trarre è che nella sua vita domina in realtà il vuoto più totale. Un vuoto che si può ben categorizzare in termini di assenza (o carenza) non solo di un qualcosa come un pensiero, ma soprattutto di autentici valori dell’essere e dell’agire.

E quindi è un vuoto etico prima ancora che mentale. Ed in fondo questo deve essere anche ciò che lei stessa sa molto bene. Il cronico conflitto tra attivismo sfrenato e stanchezza deve evidentemente esprimere proprio questa consapevolezza di fondo. In ogni caso tale vuoto etico ci riporta – per mezzo di ciò che abbiamo già detto del tipico «gran signore» napoletano – a quanto sussiste caratteristicamente a Napoli proprio in quanto viene consentito e perfino promosso dall’Essenza negativa che la governa. Infatti qui da noi tutto ciò che è tanto più eticamente negativo quanto più è pleonastico (sopra le righe in senso teatrale), è sempre molto benvenuto.

Il suo sussistere, insomma, fa sì che l’Essenza negativa trovi un’espressione ancora maggiore, e più precisamente appunto pleonastica, cioè esteticamente e spiritualmente barocca. È quell’effimero che sempre inevitabilmente si accoppia alla perfezione con l’insano ed il perverso. Il Barocco è decisamente la nostra stessa essenza.

Ciò che si può e si deve dire è quindi che, con un fenomeno come quello dell’estenuata dama – non a caso aurale, dato che la sottigliezza vaporosa dell’aura esprime sempre molto bene l’essenza del così compatto nucleo che essa avvolge –, la negatività etica della realtà napoletana giunge qui ad uno dei suoi culmini più eccelsi.

E ciò perché essa attinge ad un culmine squisitamente qualitativo. Intanto è del tutto ovvio che ciò che sto descrivendo non è affatto un fenomeno napoletano (anzi!).

Si tratta di null’altro che del fenomeno della classica donna fatua, edonista e consumista (oggi così frequente). E del resto i Napoletani stessi prendono atto di questo definendo pittorescamente la nostra estenuata dama come la “pereta”. In lingua portoghese ne esiste una variante meno scurrile, nella cosiddetta “perua”, ossia la “tacchina”. Siamo quindi di fronte a qualcosa di universalmente umano.

Ma sta di fatto che tutto ciò a Napoli si manifesta in un pleonasmo barocco delle immagini che effettivamente trova pochi eguali nel mondo.

E così non potremo assolutamente meravigliarci del fatto che la nostra estenuata dama non solo non dispone di valori etici autentici, ma nemmeno li cerca né tantomeno li persegue.

Ecco allora che, anche se il fare la madre rientra inevitabilmente nei suoi compiti istituzionali (almeno quelli più di facciata), l’edonismo che intanto le è così intimamente proprio, le impedirà rigorosamente di occuparsi per davvero dei propri figli. E così il suo «non-avere-mai-tempo» si esprimerà alla grande proprio nell’esibire lo stress intollerabile che le viene procurato dalla cura dei figli. Ma ancora una volta siamo di fronte ad una mera facciata, e quindi ad uno stress che è in effetti appena la recita dello stress davvero autentico. Dei figli infatti non si occupa per davvero l’estenuata dama.

Se ne occupa invece la colf invariabilmente filippina, indiana o andina. È lei dunque colei che accompagna i bambini da casa a scuola e da scuola a casa, alle festicciole degli amichetti, o alla lettura di storia in libreria la domenica. Mentre è anche assolutamente ovvio che sempre a questa colf spetteranno rigorosamente i compiti del riordino della casa, della spesa e della cucina ordinaria.

Una sola eccezione a questa regola sta nella cucina straordinaria, e cioè quella che sta in relazione alle già commentare favolose cene (sempre celebrative, ossia esibizioniste). Qui infatti l’estenuata dama indulgerà a riprendere addirittura le vesti della così possente quanto antiquata Matrona di una volta. Una donna che era davvero inesauribile, ma intanto mai si lamentava in alcun modo di essere stanca e stressata e di non avere tempo. Costei, dunque, era una Matrona nel senso che era Cuoca, Domestica, Genitrice, Nutrice e Educatrice di un esercito di figli, Amministratrice di patrimoni, Amante, Consolatrice, Mistica.

Costei era insomma per davvero il possente Axis Mundi, della famiglia e della società. Era una Quercia, non una Donna. E proprio per questo era il fiore all’occhiello del «gran signore» di allora. Laddove parliamo di una figurazione ben più morigerata, dimessa e discreta di quest’ultimo. Parliamo infatti nel complesso di quell’insieme di virtù personali, familiari e civiche che, tradizionalmente, sono state sempre ben più proprie della provincia che non invece della grande città.

E questo vale senz’altro ancor più per Napoli ed il suo circondario. Per la realtà civica che la circondava, Napoli è stata infatti sempre (come abbiamo già del resto visto molte volte) più un modello negativo che invece positivo. E proprio per questa sua negatività, essa allora splendeva. Il che è non è assolutamente cambiato oggi.

Ebbene, con un canone così pregevole a sua disposizione – ed ovviamente appena sul piano delle apparenze (teatrali) quanto più seduttive e convincenti possibili –, come la estenuata dama potrebbe fare a meno di impiegarlo? E così ella si presenterà agli ospiti della favolosa cena come colei che ha preparato con le sue mani gli squisiti manicaretti che intanto vengono portati in tavola rigorosamente dalla colf.

Manicaretti che ovviamente intendono assolutamente essere tradizionalmente napoletani (o almeno espressione di napoletane riletture della cucina italiana) – parmigiana di melanzane, pizza di scarola, pasta al forno, lasagna, sartù di riso, bolognese, genovese etc. E ciò almeno quanto vuole essere tradizionale anche l’immagine di Donna che l’estenuata dama intende dare di sé in questa occasione. Ella, insomma, almeno in questa occasione vuole risplendere come colei che sa sapientemente prendere per la gola il suo maritino; e questo perché a lui solo lei avrebbe consacrato il suo cuore insieme alla sua anima ed anche al suo (sempre piuttosto bel) corpo.

E lo stesso tipo di reciproci sentimenti in tal modo verranno esibiti dal maritino stesso – poco importa se in quell’esatto momento lui sta pensando alle performances sessuali di cui verrà la mattina dopo gratificato dalla procace quanto prestigiosa sua segretaria.

Si tratta insomma di né più e ne meno che della solita commedia. Prestazione nella quale è del tutto scontato ritenere che noi Napoletani siamo maestri, e quindi interpreti davvero ideali.

Dunque, ovviamente, in tutto questo vi è da credere ancor meno che nelle effettive virtù materne della nostra estenuata dama. E così la pantomima della sua stanchezza stressata e «senza-mai-tempo» troverà un perfetto campo di espressione proprio negli atti per mezzo dei quali ella si pone come madre davanti a chi la osserva.

Questa volta però ci sarà un tantino di autenticità in più. Perché è effettivo e reale il disagio sofferente che lei dimostra nel mentre si sta occupando per davvero dei propri figli – cioè quelle rarissime volte che non lo sta facendo la sua bruna ed umile colf.

Questo è infatti per lei insopportabilmente al di sotto delle possibilità che il suo ruolo le riserva. Ed allora, con il viso ed il corpo segnati dall’immane ed ingrato sforzo che sta compiendo, appena potrà lei si farà consolare dalla sua cara mamma (o da chi per essa). E se nemmeno questo è possibile, allora, al nostro stesso cospetto, si produrrà nei lamenti imposti dalla cronica estenuazione indolente a cui intanto la autorizza il suo ruolo. E per questo deporrà perfino, dal proprio apparire, qualunque forma di brio sociale.

Il che deve evidentemente denunciare una sofferenza che è per davvero insopportabile. Ed allora la vedremo per la prima volta (ed incredibilmente) svogliata e lontana da tutto e da tutti. Ed infine lei dirà (incredibile dictu) che tutto quello che desidera in quel momento è solo andare a dormire.

È tutto vero! Ma comunque nemmeno così cessa di essere teatro e solo teatro. Insomma questa è appena l’altra faccia della medaglia dei mugolii di piacere in cui l’estenuata dama si produce per tutto ciò che è per davvero all’altezza del suo ruolo e valore – vestiti, borsette, scarpe, barche, viaggi, luoghi esotici, cene, centri benessere.

Ed è anche il rovescio della medaglia dei convulsi scoppi di allegria in cui ella si produce entro il cerchio rituale della cosiddetta «società»; oppure anche (talvolta) delle non troppo nascoste attenzioni che lei dedica all’avvenente compagno di tavola. Insomma di fronte a cosa stiamo qui? Forse che la nostra estenuata dama si è addirittura pentita di essere ciò che è? Forse che il tedio provocatole dalla cura dei figli, e quello che lei ormai da tempo prova per il marito stesso, e perfino per il ruolo che svolge al suo fianco, sta ora minacciando di debordare e trasformarsi così in tedio per la città – per Napoli stessa! – e magari addirittura per il mondo?

No! É davvero difficile pensare tutto questo. Io perlomeno non ne ho mai osservato per davvero un caso. Ed allora dobbiamo pensare che anche questo sia in fondo solo una recita? Chissà? Forse sì, forse no. Ma lasciamo la domanda aperta. Quello che è certo è comunque che noi abbiamo così colto l’estenuata dama in un rarissimo suo momento di defaillance.

Ma pur sempre entro una condizione da lei ardentemente amata e desiderata; e peraltro entro la cornice di una città, della quale magari (anche lei può farlo!) salottieramente si può perfino parlar male, ma che intanto non si abbandonerebbe per tutto l’oro del mondo. Quanto poi al mondo che sta fuori di questa così straordinaria città, di esso non vale nemmeno la pena di occuparsi. E quindi quale tedio per quest’ultimo la estenuata dama potrà mai provare? Del resto cose come queste rientrano nelle così disgustose ed irritanti preoccupazioni (e relativi sentimenti e pensieri) di quel così leopardiano guastafeste (idealista, sognatore e dispregiatore pessimista del mondo e di Napoli) che tutti temono e odiano peggio della peste. E figuriamoci se una come l’estenuata dama non lo tema e lo odi al massimo grado!

E dunque ciò di cui ella è assolutamente certa, è quanto segue – e cioè è qualcosa di estremamente pratico, realista; dunque privo della benché minima traccia di sogno o cose del genere di grilli per la testa. In quale altro posto del mondo sarebbe garantito ope legis l’eccezionale privilegio di non vivere appena in un quartiere quanto mai esclusivo, ma di vivere perfino nel quartiere esclusivo per eccellenza ed in assoluto, ovvero nel cuore più intimo di quello che è intanto il centro del mondo stesso?

Cioè nel cuore più intimo di quella straordinaria e magica città che ètutta balneare (La Capria)1, e che quindi inderogabilmente «tutto il mondo ci invidia»! Ed in quale altro posto del mondo, poi, tutto questo così brillante e prestigioso essere ed agire potrebbe fare più bella mostra di sé stesso? Visto che ciò è effettivamente possibile soltanto laddove realtà e recita sono una sola ed inestricabile cosa – così che il bello è ancora più bello, il grande è ancora più grande, e il nobile è ancora più nobile!

Dunque non vi è ovviamente qui alcun vero tedio, né alcuna vera indignazione, né alcun vero sdegno morale, per le infinite miserie della città. Magari vi saranno intanto anche chiacchiere buoniste e perfino rivoluzionarie, e quindi con l’apparenza di critiche. Ma, per carità, questo solo tra un motto di spirito e l'altro. E non dimenticando poi nemmeno le assolutamente necessarie buone pietanze!

E, così, dopo le fin troppo noiose e moleste proteste del purista intransigente di turno contro Napoli e contro il mondo – le proteste di quella fastidiosa mosca bianca di cui stasera ahimè bisogna sopportare lo spirito savonarolesco, insomma le proteste del guastafeste per eccellenza –, cosa c’è di migliore di una boutade ironica per ritrovare finalmente il brio vitale? Dunque la verità è che, entro la costellazione propria dell’estenuata dama, si sopporta in realtà proprio tutto – anche quel poco di dolore che ci tocca nel ruolo che intanto si svolge, ma solo e soltanto teatralmente. Perché intanto in verità ben più fondamentalmente si gode tutto. E non si fa altro che fare questo. Vuoto o no, non importa. Questo è comunque oggettivamente il meglio.

E sarebbe allora solo folle e stupido privarsene.

E così – entro tale cornice di senso – sarà del tutto comprensibile perché, per la nostra estenuata dama, uno di questi (solo teatrali) dolori è per davvero la tremenda fatica che lei dura anche nel dover dirigere la bruna ed umilissima schiava extra-comunitaria, alla quale vengono da lei affidati quei così bassi compiti vitalistici della dimensione domestica, ed il cui svolgimento alla nostra ripugna ovviamente in maniera incoercibile.

Ed infatti il solo sapere di star tornando a casa da Cäpri, o dalla settimana bianca (o cose simili), ma senza che ci sia pronto in casa la cena preparata dalla bruna schiava, può gettare la nostra estenuata dama in una costernazione pari alla più nera angoscia.

Del resto il di lei facoltoso, potente, raffinato e viziato (non meno di lei) maritino – integralmente assimilabile al tipo «gran signore», o tipo avvokëto –, è lui stesso uno che, oltre a non saper in alcun modo rinunciare all’amante ventenne (oltre che alle ultime notizie di Vanity Fair o Max su come fare bene sesso, con moglie o non moglie), sa essere così tradizionalmente napoletano da non essere in grado di rinunciare mai (in alcun modo e per tutto l’oro del mondo) al piatto in tavola la sera. È infatti proprio questo quel fatidico momento in cui lui – «boss» dei «boss» –torna a casa stanco ma colmo di onore dal mortalmente serio lavoro che egli svolge ogni giorno con solo inutili carte e con il non meno (onticamente) inconsistente danaro sonante suo e degli altri.

C’è infine un ulteriore aspetto della recita partenopea così come viene interpretata dall’ estenuata dama. Ora non è più nemmeno quello della stanchezza cronica, ma è quello della dissimulazione accuratissima e sapientissima dei propri sentimenti. Per definizione, infatti, costei costantemente pondera e calcola, esattamente nel mentre intanto recita questa o quella parte.

E l’atto del calcolo investe in particolare la dimensione del suo essere che più è essenziale per i suoi scopi, ossia la bellezza del corpo. Cosa che richiede ovviamente la massima cura; nel contesto di una preoccupazione che, dal suo punto di vista è assolutamente legittima, e cioè quella per la perenne e letale competizione bellica esistente tra femmine.

E non si tratta affatto di un fenomeno naturale, e quindi universale. Anch’esso è invece perdutamente partenopeo. Qui ne va infatti della ragione di essere più rilevante dell’estenuata dama, e cioè del suo rappresentare l’aura di leggiadria femminile che deve necessariamente circondare l’esistenza e presenza del «gran signore» napoletano.

È dunque del tutto ovvio che la bellezza del corpo vada sorvegliata e rinforzata nei modi più decisi possibili (spesso addirittura francamente aggressivi): – plastiche varie, silicone qua e là, lifting, botox, etc.

Ecco allora che l’evidenza del calcolare si presenterà in particolare nell’occhio e sguardo dell’estenuata dama – in sé scaltro e avido, eppure però mantenuto ad arte quasi come spento, e cioè glacialmente indifferente. Qualcosa del genere veniva descritto anche da Flaubert nel raffigurare la così ambigua signora Dambreuse. Ma a Napoli tutto ciò compare in maniera centuplicata. Infatti, come abbiamo visto, qui la spontaneità è rigorosamente proibita.

Nel caso specifico sarebbe però assolutamente esiziale mostrare interesse per l’oggetto del proprio desiderio, o peggio ancora un’attesa che tradisca un bisogno spasmodico. Nel rigido e ferino codice di guerra, che a Napoli regola i rapporti inter-personali, questo equivale infatti al porsi come un «mendicante», ossia colui che da sempre impetra la grazia del «gran signore». E non c’è nulla che squalifichi di più come lo fa questo. E tuttavia l’estenuata dama desidera eccome.

E desidera proprio come donna. Infatti la potenza che le consente di essere splendida appendice aurale del «gran signore», è per definizione troppo grande per non dover trovare anche altri campi di impiego. E lei lo sa benissimo. Quindi per definizione desidera «l’uomo d’altra». Ma ovviamente non può che dissimularlo. La vedrete allora prodursi in un comportamento circospetto e vigile che ha davvero del felino. Il fulcro di tale comportamento è l’attesa che si esternino i segni dell’ammirazione maschile. Ella attende insomma che quello sguardo maschile, che intanto vaga pigramente lontano, di colpo si faccia attento ed infine la punti diventando così febbrile.

Dalle nostre parti, infatti, l’attenzione maschile per le donne ha sempre un qualcosa di preoccupato ed inquieto – vi è dietro l’obbligo di provare la propria maschilità.

Ebbene, la nostra estenuata dama conosce questi segni alla perfezione. Il calcolo però non sarebbe calcolo se esso non restasse sempre nella sua vera pienezza. E così, il passo successivo ed essenziale, che all’estenuata dama resta sempre da compiere in questi casi, è quello di verificare se davvero ne vale la pena. Infatti «l’uomo d’altra» non è per lei affatto il mero oggetto di una semplice e nuda attrazione sessuale. È invece ben più che questo. Egli rappresenta cioè esattamente la possibilità di estensione e moltiplicazione iperbolica di quella potenza femminile che consente all’estenuata dama di essere l’aura del «gran signore». E così bisogna attentamente verificare che il maschio interessato rechi anche lui proprio i segni della condizione di «gran signore».

Ebbene, sta dunque proprio nell’abilità guardinga (e nello stesso tempo apparentemente disinteressata) – che è necessaria per compiere questa verifica, senza che intanto mai la forza dell’attrazione si dissolva – il culmine dell’arte e della potenza femminile della nostra estenuata dama.E così ora il suo sguardo diverrà ancora più svagato e distratto, la sua bocca trattenuta in un’imminente espressione di disgusto, il corpo e la voce mantenuti ai limiti di un imminente deliquio – che ha poi nello stesso tempo molti significati, tutti quanti ottime esche per far abboccare un possibile tornaconto: noia, desiderio insoddisfatto, eccesso di piacere, godimento, etc.

Il suo eloquio sarà allora strascicato, arrotondato, limato allo stremo, gonfio di metafore ammiccanti, allusivo, indiretto, volutamente svagato, tendente perennemente agguati come la sua mente sempre vigile e pronta dietro l'ostentata nebbia dell’estenuata svenevolezza.

Ed infine, quando invece tutto ciò avviene in situazioni in cui la stessa estenuata dama (e soprattutto il «gran signore» che le inerisce) sono largamente al di sotto dei livelli propri dello standard, allora il suo tentativo di aderire al modello dell’eloquio chic raggiungerà un incredibile parossismo. Allora la voce roca indugerà ancor più nei leziosismi di cui è maestra, le pose saranno ancora più plateali, e perfino indulgerà pateticamente verso un istrionismo buffonesco che rasenterà continuamente lo scurrile.

Ebbene quelle che ho appena descritto non sono affatto solo mie illazioni, ma sono invece obiettività. Infatti anche La Capria (sempre attentissimo osservatore dei costumi e delle antropologie sociali) ha in fondo descritto proprio tutto questo nel contesto dell’atmosfera quasi casalinga che è della città balneare : ‒ “Le ragazze, con la voce perbenino languida su vocali e dittonghi, fanno il bagno e prendono il sole, qualcuna bellina, in un’atmosfera casalinga, un po’ fiacca, e le chiacchiere s’incrociano in questo punto di mare aperto frequentato non si sa perché come un salotto, con Briciola nel suo barchino che vende pane e salame, coni gelati, Mottarelli e Coca-Cola anche a credito”.2

Alla fine di questa descrizione ed analisi, sarà dunque risultato a tutti chiaro che entro la stanchezza «senza-mai-tempo» dell’estenuata dama non vi è in verità alcuna traccia di qualcosa come ciò a cui si dà il nome di stress. Al massimo nel suo caso si potrà parlare di ciò che oggi medicina e psicologia definiscono come “eustress”, ossia un affaticamento che rientra pienamente in un’esperienza nel complesso gratificante per definizione; e ciò in quanto produttiva.

Si tratta insomma in parole povere di quella sorta di affaticamento che non ha mai fatto male a nessuno, e ciò per il semplice fatto che non è assolutamente ciò che vuole sembrare. Dietro la sua ostentazione si nascondo infatti gli incalcolabili e sostanziosissimi vantaggi procurati dalla relativa condizione. Vantaggi che ovviamente sono assolutamente esclusivi, e quindi esattamente come tali vengono sapientemente velati solo per essere in fondo apertamente esibiti.

Quella recitata dall’estenuata dama è pertanto la peggiore e più indegna possibile delle pantomime, ed in particolare delle pantomime partenopee. È dunque proprio questo il motivo per il quale la trattazione di questo tipo antropologico-scoiale non sarebbe potuta essere trascurata senza anche togliere un pezzo fondamentale alla trattazione dell’identità partenopea.

 

 

 

Note

1 Raffaele La Capria, Ferito a morte, Bompiani, Milano 1961, VI p.  115-134.

2 Raffaele La Capria, Ferito a morte... cit., IV p. 81.

 

 

 

 

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