Luigi Settembrini promotore dell’Unità nel 1860

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Categoria: Storia del Risorgimento
Creato Mercoledì, 03 Gennaio 2018 15:18
Ultima modifica il Mercoledì, 03 Gennaio 2018 15:18
Pubblicato Mercoledì, 03 Gennaio 2018 15:18
Scritto da Nicola Terracciano
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Luigi Settembrini (Napoli, 1813 – 1876) è stato una delle più grandi personalità della cultura e della politica di Napoli, del Mezzogiorno, d’Italia, scrittore, critico, docente universitario di letteratura italiana nelle Università di Bologna e di Napoli, senatore dell’Italia una, libera, costituzionale, da sempre sognata.

Per la sua decisa opposizione antiborbonica, conobbe persecuzioni, la condanna a morte, poi trasformato nell’ergastolo dal 1851 al 1859 nell’infame carcere di Santo Stefano, isolotto, presso Ventotene.

Fu l’autore del famoso scritto diffuso  in tutta Italia e in Europa Protesta del Popolo delle Due Sicilie del 1848 e delle Ricordanze della mia vita uscite postume.

Quando fortunosamente, come in una avventura, riuscì a conquistare la libertà, dall’esilio di Firenze scrisse a luglio 1860 un importante appello ai Napoletani, di cui si riportano alcuni passaggi nodali.

«Ma il Regno diventerà una provincia. E noi, essendo regno, quali beni abbiamo goduto, anzi quali mali non abbiamo patito! Quali stranieri non hanno invaso il nostro paese? Quale libertà abbiamo avuta ? Quali ceppi non hanno posto al pensiero, all’industria, al commercio?

Ed è regno, è nazione un popolo tormentato dai Borboni? E potremo difenderci da chi volesse conquistarci e maltrattarci a suo talento? Una corte, ed una corte borbonica, può essere desiderata da pochi nobilastri della capitale che si pavoneggiano in livree e chiavi d’oro, e da quelli uomini nulli che in governo libero rimangono nel fango dove sono destinati a rimanere: ma ai nobili di animo, agli onesti, al popolo specialmente delle province non importa niente.

 

Le province del Regno, diventando parti di un grande Stato, ingrandiranno il traffico e il commercio, ed usciranno da quella specie di barbarie in cui siamo, perchè divise l’una dall’altra, e tutte dall’Italia, e dal resto d’Europa. Stabilito ed ordinato bene il municipio, ogni comune amministrerà da se stesso gli affari suoi; né sarà bisogno correre per minime cose nella città capitale, e nel bisogno l’andarvi sarà facile e breve per le strade ferrate.

Chè con l’animo ed il concetto del nuovo popolo italiano si faranno subito due grandi strade ferrate, una da Taranto a Venezia sull’Adriatico e l’altra da Reggio di Calabria a Torino sul Tirreno, ed alcune traverse come pioli della grande scala; per modo che dall’un mare all’altro si andrà in poche ore, e dal Faro alle Alpi, in meno di un giorno.

La città di Napoli rimarrà capitale del napoletano, come Firenze è rimasta capitale della Toscana: avrà un regio luogotenente, sedi di ministeri, tribunali, amministrazioni, tutto come sta, tranne i Borboni.

Quale sarà la città capitale d’Italia non si può dire; lasciamo al tempo ed agli avvenimenti la cura di determinarli. …Per ora formiamo l’Italia, formiamola nella sua Unità con ogni sforzo, con ogni sacrificio, mettendo da banda ogni gretta burbanza municipale. Per il passato la nostra divisione cagionò tutte le sventure: ora l’Unità ci farà liberi, e potenti, e gloriosi, E questa Unità ora è il momento di farla, e il farla sta nel Popolo napoletano, se ha senno, sta nell’esercito napoletano se ha sentimento di vero onore…popolo e soldati levate una voce e dite ai Borboni: - Andate via! ».

Firenze, 27 luglio 1860.