Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

E l'auto cambiò l'Italia

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Ecco perché in Italia, più che altrove, rubando le parole ad un intellettuale dell’acume di Vittorio Foa, «l’auto, il motore a combustione interna, è un protagonista di questo secolo; nessun mutamento di questo secolo può essere confrontato col motore a scoppio, almeno prima del computer e della sua integrazione col telefono».

Da queste considerazioni è maturata l’idea brillante di Daniele Marchesini di ricostruire questo sogno italiano in un saggio intitolato «L’Italia a quattro ruote».

Un libro che in qualche modo continua un percorso già avviato dallo stesso Marchesini negli anni precedenti, con le splendide monografie su «L’Italia del Giro d’Italia», «Coppi e Bartali» e «Cuori e motori. Storia della Mille Miglia».

Il primo ad intuire che nell’immaginario collettivo l’automobile non era solo un mero mezzo di trasporto, fu Benito Mussolini.

«Chiunque comperi un’automobile, sia pure la più piccola vettura di serie, diventa immediatamente antirivoluzionario. Non vuol più sentir parlare di quel comunismo che gli porterebbe via, forse, la sua vettura», dichiarò il duce a un giornale francese nel 1928.

Prevedendo che in America non vi sarebbe mai stato un movimento rivoluzionario «perché ogni operaio pilota la sua Ford».

All’epoca dell’intervista le vetture in Italia erano circa centocinquantamila e Mussolini indicò il miraggio dell’auto popolare: «Un milione d’automobili in circolazione rappresenta una garanzia sociale». Una scommessa che non nasceva dal nulla. Lo stato maggiore della Fiat, costituito da Giovanni Agnelli, da Vittorio Valletta e dall’ingegnere Dante Giacosa, geniale disegnatore di tutti i modelli di quegli anni, puntava sull’utilitaria come mezzo di trasporto di massa e nel 1936 lanciò in pista la 500 Topolino.

 

Ma quel sogno ducesco si scontrò con la dura realtà di un’economia fiacca, che perseguiva una politica di bassi redditi e che poi nel 1940 s’imbarcò nell’avventura disastrosa della guerra.

Fu solo a partire dal 1955, con il varo della mitica Seicento, l’auto regina del miracolo, che il progetto di una motorizzazione di massa si realizzò davvero.

Il benessere derivante dal successo della politica di ricostruzione e di industrializzazione del Paese fece aumentare il potere d’acquisto degli italiani e consentì alla classe operaia di andare in Paradiso e ai signori Brambilla e ai signori Rossi di acquistare l’agognata utilitaria. Segnando l’inizio di un’era nuova per il Belpaese, con la costruzione dell’Autostrada del Sole e di una rete autostradale che ci era invidiata in tutto il mondo, la nascita degli Autogrill, le gite della domenica fuori porta e le prime code sulle strade. 

Curiosamente proprio nel 1955 per la prima volta la Fiom-Cgil, il sindacato degli operai social comunisti, che aveva il suo zoccolo duro alla Fiat, subì una dura sconfitta alle elezioni per le commissioni interne, venendo superata dalla Cisl. Tanto che l’Europeo titolò beffardamente: «Meglio una 600 oggi che la rivoluzione domani». 

La storia del rapporto tra italiani e automobili continuò ad accompagnare le evoluzioni sociali e politiche del Paese.

Se la Seicento era la macchina del maschio capofamiglia, la Nuova Cinquecento – più economica (costava 490 mila lire), più manovrabile e più sportiva -, presentata sul mercato nel 1957, diventò anche l’automobile della moglie e della donna evoluta.

E poi dei figli, che sui sedili non ribaltabili di quelle magnifiche utilitarie conobbero il rock d’oltre Oceano e sperimentarono la rivoluzione del Sessantotto, le proteste anti-Vietnam, le occupazioni delle scuole e le prime indimenticabili, anche se non comodissime, esperienze sessuali.

E l’auto si trasformò definitivamente in uno status symbol, come testimonia il film «Il medico della mutua» di Luigi Zampa, del 1968, che mise in scena l’ascesa sociale e professionale del dottor Guido Tersilli (Alberto Sordi) in parallelo con i suoi mezzi di trasporto, dalla Lambretta a due ruote alla Seicento comprata a rate fino alla «fuoriserie, rossa, decappottabile, che tutti devono invidiarmi!».

 

Mario Avagliano

 

 

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