Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Artemisia Gentileschi, il destino di una donna "ante litteram"

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Sicuramente lo stile di Caravaggio influenzò tantissimo quello di Artemisia Gentileschi, donna talentuosa, dalla personalità decisa ed intollerabile in un’epoca in cui le donne vivevano emarginate dalla vita pubblica riservata ai soli uomini.

Ma la passione di Artemisia ruppe ogni regola, la sofferenza fortificò la sua arte tanto quanto l’incrollabile personalità.

Figlia del pittore Orazio Gentileschi, Artemisia nacque a Roma nel 1593 e sin da bambina mostrò un vivo interesse ed una naturale inclinazione verso la pittura.

Avendone percepito le grandi capacità, il padre le fece da maestro alimentandone l’innato talento.

Rimasta presto orfana di madre, giovane, bella e promettente, aveva poco più di diciotto anni Artemisia quando a seguito di una violenza, divenne oggetto di scandalo.

Il talento della giovane era stato da sempre motivo di orgoglio e di vanto per il padre Orazio che nel 1611 aveva deciso di affidarla alla guida del pittore Agostino Tassi.

Soprannominato «lo smargiasso» il Tassi, vantava però trascorsi poco edificanti, dalle disavventure giudiziarie alla nota fama di scialacquatore e mandante di diversi omicidi. Ciononostante, Orazio Gentileschi lo teneva in grande stima tanto da fargli frequentare assiduamente la sua casa.

 

L’attrazione verso la giovane pittrice divenne presto palese, seppur  non corrisposta. All’ennesimo rifiuto di lei, il Tassi tirò fuori la sua deplorevole indole e la stuprò.

La violenza, minuziosamente ricostruita nella testimonianza che la giovane rilasciò durante il processo, si consumò una sera in casa di lei.

Il Tassi diceva di amarla e di voler riparare all’insano gesto sposandola, omettendo però di dire che era già sposato e che per giunta intratteneva anche una relazione con la cognata.

Ignara dell’ingannevole retroscena, Artemisia dovette credere a quella promessa d’amore perché da quella sera trascorsero ben nove mesi durante i quali il Tassi continuò a frequentare i Gentileschi e ad avere rapporti con la giovane artista, fino a quando non venne fuori lo squallido raggiro.

Indignato per il disonore arrecato alla figlia, Orazio decise allora di denunciare il Tassi.

La vicenda processuale fu lunga ed umiliate per Artemisia costretta non solo a raccontare  in tribunale e sotto tortura quanto accaduto, ma a sottoporsi a visite ginecologiche pubbliche, durante le quali il suo corpo fu esposto alla morbosa curiosità della gente.

Fu forte Artemisia, coraggiosa e pronta a sopportare qualsiasi dolore pur di far valere i proprie diritti.

Ciononostante le conseguenze psicologiche della violenza furono sublimate nelle sue raffigurazioni di eroine bibliche, quali Giuditta, Giaele, Betsabea o Ester, che animate da un desiderio vendicativo, sfidano il pericolo e trionfano sul crudele nemico, affermando  il proprio diritto all'interno della società.

Per anni le opere della Gentileschi sono state interpretate solo in relazione al suo vissuto, offuscando pertanto gli indubbi meriti artistici e ponendo limiti ad un’interpretazione più esaustiva delle sue creazioni.

Il Tassi fu riconosciuto colpevole di stupro e condannato a cinque anni di reclusione, o all’esilio da Roma. Ma fu questa una pena che non scontò mai perché, pur avendo scelto di allontanarsi dalla capitale, il realtà non lo fece mai.

Chi pagò per tutti fu Artemisia la cui reputazione andò del tutto distrutta, tanto da diventate oggetto di pubblico ludibrio. E’ il caso di dire “dopo il danno, anche la beffa”.

Pur di farle gettare alle spalle quella lunga e purtroppo incancellabile parentesi di sofferenza, già all’indomani del processo, il padre organizzò un matrimonio riparatore. E fu così che il 29 novembre 1612 Artemisia convolò a nozze con Pierantonio Stiattesi, un modesto pittore con il quale si trasferì a vivere a Firenze.

A. Gentileschi "Giuditta che decapita Oloferne"Tutta la tragicità di quell’esperienza finì in qualche modo condensata nella tela Giuditta che decapita Oloferne, realizzata tra il 1612 ed il 1613, oggi custodita a Napoli nel museo di Capodimonte.

L’incontro con una realtà diversa, lontana dal clima ostile romano, favorì l’inizio di un periodo fecondo. La diretta conoscenza di persone illustri del tempo, da Galileo Galilei al nipote di Michelangelo Buonarroti, aiutò la giovane pittrice non solo ad allontanarsi da quel suo passato, ma ad introdursi in un mondo nuovo. Purtroppo fu un momento che durò solo qualche anno.

Dal matrimonio con lo Stiattesi regolato da rapporti di convenienza e certo non da sentimenti d’amore, nacquero quattro figli. Incapace di gestire la vita economica della famiglia, il pittore si coprì presto di debiti, tanto da costringere Artemisia a ricorrere alla benevolenza di Cosimo de’Medici per ripianare le sanzioni di mancati pagamenti.

Oltre ai debiti, la scoperta di una relazione con il rampollo Francesco Maria Maringhi, costrinse Artemisia ancora una volta a scappare pur di chiudere un’altra parentesi scandalosa della sua esistenza.

Fece ritorno a Roma dove riuscì a recuperare rapporti di amicizia, crearne nuovi  ed a cancellare quel penoso ricordo che di lei giovanissima aveva lasciato.

Ebbe modo di entrare in contatto con eminenti personalità dell'arte e i fecondi esiti di questo soggiorno romano furono impressi in  Giuditta con la sua ancella, un’opera famosa oggi custodita a Detroit.

La ricerca di nuove commesse la portò a spostarsi da Roma a Venezia, poi a Londra e più volte a Napoli, che in quel tempo, oltre ad essere capitale del viceregno spagnolo era costituita da un eminente ambiente culturale  ed un grandissimo fervore artistico da cui spiccavano nomi del calibro di Caravaggio, José de Ribera, Massimo Stanzione e il Domenichino.

E a Napoli Artemisia finì i suoi giorni nel 1653 quando ancora era nel pieno della sua attività. Sessantenne lasciava una vita costellata da periodi tristi, dure battaglie e splendide opere d’arte sparse tra chiese e collezioni private.

Fu seppellita nella Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli, sotto una lapide oggi perduta  che recitava due semplici parole: «Heic Artemisia».

Per secoli, come spesso succede alle donne ante litteram, anche Artemisia è stata  quasi condannata all'oblio, tanto da non essere menzionata neppure nei libri di storia dell'arte.

Solo nel 1916 fu riscoperta e rivalutata grazie al critico d’arte Roberto Longhi che in un articolo cercò di liberarla dai pregiudizi che la opprimevano e di riportare all'attenzione della critica la sua statura artistica nell'ambito dei caravaggeschi della prima metà del XVII secolo.

Artemisia, in sintesi, fu un'artista che lottò con determinazione, utilizzando le armi della propria personalità e delle proprie qualità artistiche contro i secolari ed opprimenti pregiudizi sessisti.

 

 

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