Il 'tesoro' di San Gregorio Armeno
Così si legge nella lunga e dettagliatissima Platea del monastero di San Gregorio Armeno del 1691, che dopo aver enumerato secondo la prassi privilegi, beni immobiliari, rendite, procede quindi a elencare e descrivere minutamente i sacri resti, per accennare alla fine alle <<superbe suppellettili, argenti, ori e nobilissime pitture>> della chiesa, <<non inferiore ai più ricchi santuari non solo di Napoli, ma forse dell’Italia>>. Un’affermazione che potremmo certo definire un topos, facilmente riscontrabile in altri contesti simili già a partire dal tardantico e medioevo, in cui ogni istituzione ecclesiastica, basilica o monastero, e poi anche ogni potere regale collezionò, procurandoseli in vari modi, corpi santi e reliquie di ogni genere. Alla base di questo processo di tesaurizzazione è senza dubbio la salda concezione della legittimità del culto dei corpora sanctorum, frutto della sensibilità religiosa e della riflessione teologica maturata già a partire dal III e IV secolo sulla santità dei martiri e confessori e sulle loro prerogative e ‘funzioni’ di mediazione ed intercessione. Le ossa dei martiri <<più preziose di rare genne e più pure dell’oro fini>> (Mart. Poljc. 18,2) non vennero solo amorevolmente custodite, ma venerate come strumento operante di salvezza, caparra viva di intercessione. Il corpo, infatti, nel quale Cristo aveva inabitato e trionfato (vincit in eis qui vixit in eis, diceva dei martiri Agostino) diventa segno e caparra di salvezza: <<dobbiamo supplicare i martiri, il cui patrocinio ci pare di poter rivendicare grazie al pegno, per così dire, del corpo>>. Sulle loro tombe s’innalzano santuari, dove i fedeli si recano alla ricerca del patrocinio contro ogni genere di mali; nei loro pressi si seppelliscono i defunti nella fiduciosa speranza della loro intercessione quali advocati.
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