La Cabala di Napoli contro Domenico Zampieri “il Domenichino”
La cappella avrebbe dovuto distinguersi, in quei primi anni del Seicento, per ricchezza e magnificenza artistica e sia l’arcivescovo Francesco Boncompagni che il viceré Fernando Afán de Ribera vollero che fosse la scuola degli Incamminati di Bologna ad iniziare e portare a termine il lavoro. Quando si ebbe sentore tra gli artisti napoletani che l’onore di adornare la cappella di San Gennaro era stata destinata all’Accademia bolognese, non di poco conto fu il loro risentimento. Dopo la rinuncia di Guido Reni, il quale aveva saputo che l’atmosfera in città non era favorevole, e di Francesco Gessi, che sostenne di essere stato fatto oggetto di “lettere orbe” e che i suoi due aiutanti, Giovan Battista Ruggieri e Lorenzo Menini erano scomparsi, fu richiesta l’opera di Domenico Zamperi, detto il Domenichino, sia per la sua bassa statura che per il suo carattere remissivo. Sebbene il Domenichino fosse stato avvertito dagli amici di non ripetere gli errori del Reni e del Menini, considerando che, in relazione a quest’ultimo vi era il fondato sospetto che i suoi aiutanti fossero stati rapiti mentre visitavano una mostra di quadri, e che le lettere “orbe” non erano altro che lettere anonime, piene di minacce, Domenico Zampieri, nella primavera del 1630, dopo molte titubanze, decise di partire per Napoli.
Sono noti i nomi dei pittori napoletani che ostacolarono e turbarono il soggiorno del Domenichino: Belisario Cosenzio, Jusepe de Ribera e Battistello Caracciolo. Costoro più degli altri si prodigarono in tal senso, pur se altri si dissociarono dalle insidie e dai complotti orditi da quella che fu denominata la “ Cabala di Napoli”. Pertanto il Domenichino si poté presto rendere conto che a Napoli si era trovato in un ambiente particolarmente ostile, dove la sua arte veniva etichettata come “stentata e puerile”, “priva di genialità creativa”. Il vicerè intervenne minacciando pene severe per chi avesse continuato a denigrare in maniera infamante l’arte del maestro bolognese. Allora si passò ai libelli denigratori e alle lettere minatorie. In un siffatto contesto di forti provocazioni, il Domenichino di indole buona e mite, fu sconvolto dalla paura, lasciò ogni cosa e fuggì da Napoli senza avvertire la famiglia che, ignara di tutto, era rimasta a Napoli. Il viceré considerò l’improvvisa fuga come un affronto personale, e, al fine di far tornare il pittore a Napoli, fece imprigionare la moglie e la figlia. Solo dopo un anno, e dietro assidua sollecitazione da parte degli amici, il maestro tornò a Napoli, confidando nella protezione del cardinale Francesco Boncompagni, arcivescovo della città. Rassicurato dal potere di quest’ultimo chiese al viceré, oltre alla scarcerazione della moglie e della figlia, forti garanzie per poter continuare il suo lavoro con tranquillità. Ciò, purtroppo, non avvenne, e si arrivò addirittura a manomettere di notte le opere che l’artista dipingeva di giorno. Con il tempo il Domenichino cominciò a dare segni di stanchezza per l’ “implacabile stillicidio” e si ammalò, rifiutando il cibo, dormendo poco e trascurando la sua persona.
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