Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La congiura di Macchia del 1701. Documenti inediti

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<<Dopo i moti del 1647 viene la cospirazione del principe di Macchia assai poco nota per ritrovarsi o taciuta del tutto, o appena mentovata dagli altri scrittori. […] Puranche Giambattista Vico, che viveva a quei tempi la descrisse in latino, la quale opericciola comunque inferiore agli altri scritti di quel grande uomo, è nondimeno la più ampia narrazione di tale avvenimento che si aveva, e soltanto nel 1830 vide la luce in Milano, zeppa di errori per essere stata da un pessimo manoscritto, nel primo volume delle opere di Vico messe a stampa dal Ferrari.

In essa però quel moto non apparisce altro che una cospirazione di pochi malcontenti ambiziosi, senza opinione né seguito, soffocata sul nascere; non si dice che divennero il principe di Macchia ed i suoi compagni, né come casa d’Austria pochi anni appresso si fosse impadronita di questo regno senza incontrare opposizione.

Incessantemente ricercando nei pubblici depositi e nelle biblioteche dei privati che con somma generosità ed amorevolezza mi venivano aperte, ritrovai in quella del principe di Cimitile il processo originale di Carlo di Sangro e degli altri arrestati in S. Lorenzo ai 24 settembre 1701, che faceva parte della ricchissima collezione di libri del duca di Cassano Serra, comperata da Lord Spencer, e trasportata in Inghilterra, dove quegli avendo venduto la parte che non gli abbisognava per la sua libreria, venne fatto al Cimitile che si trovava colà di acquistare così prezioso volume.

Esso incomincia con lo interrogatorio del Massa e degli altri arrestati la sera del 22 settembre, e dentro S. Lorenzo ai 24 di settembre 1701 […]  Un’altra copia moderna di quel processo fu ritrovata da me allorchè era Soprantendende generale degli archivii in una pubblica vendita di libri, e comperata per la biblioteca del Grande Archivio di Napoli, dove si conserva. Da ultimo le memorie manoscritte di Tiberio Carafa principe di Chiusano, uno dei principali congiurati mi hanno fornito maggior copia di notizie>>.[1]

 

Era il 1861 quando Angelo Granito, principe di Belmonte, noto appassionato di storia e Sopraintendente Generale degli Archivi Napoletani, dava alle stampe l’accurato lavoro Storia della congiura del principe di Macchia, dopo reiterate ricerche nei <<pubblici depositi e nelle biblioteche dei private>>. Questa palese affermazione dello storico conferma l’inaccessibilità che i Registri dei Bianchi della Giustizia dovevano aver avuto allora, perché sarebbe  difficile da credere, come ad un noto studioso quale fu il Granito, possa essere sfuggita una tale fonte documentaria.

Del resto non avrebbe dovuto nemmeno cercar lontano perché ‘la congiura di Macchia’ è riportata dettagliatamente dai Bianchi della Giustizia proprio nel registro relativo all’anno 1701. [2]

I confratelli, chiamati al conforto dei prigionieri, sempre con l’intento di offrire ai posteri una diretta testimonianza dei fatti, dettagliarono non solo gli <<stati dei condannati>>, ma anche un resoconto di quanto era avvenuto  a Napoli nel settembre di quell’anno.

Allo scopo di destabilizzare il viceré spagnolo, Luigi della Zerda, duca di Medinaceli, e fargli subentrare l’arciduca Carlo d’Austria, figlio dell’imperatore Leopoldo, agli inizi del nuovo secolo il marchese Gaetano Gambacorta, feudatario di Macchia Valfortore, un antichissimo centro Molisano, guidò con altri nobili una congiura allo scopo di rovesciare il governo. Da lì il nome di ‘congiura di Macchia’.

Venendo spesso a Napoli il Gambacorta, di temperamento collerico, era stato coinvolto in una rissa durante la quale erano morti due soldati spagnoli. Ritenuto da allora un prode soldato anch’egli, capace di qualsiasi ardita impresa, il Gambacorta acquistò una certa popolarità e riunì intorno a sé un folto gruppo di congiurati, che si incontravano in una casa napoletana, ubicata nel palazzo Marigliano, in via S. Biagio dei Librai.

Tiberio CarafaTra loro spiccano i nomi di tanti nobili dell’epoca, fieri oppositori del viceré spagnolo: Tiberio Carafa dei principi di Chiusano, Francesco Spinelli, duca di Castelluccia, Carlo di Sangro, fratello del marchese di San Lucido, Francesco Ceva Grimaldi, duca di Telese, Giuseppe Capece, fratello  del marchese di Rofrano, Francesco Gaetani, principe di Caserta, e Cesare d’Avalos, marchese del Vasto.

Contrariamente a quanto era avvenuto appena mezzo secolo prima, quando quella stessa nobiltà aveva represso nel sangue la rivolta di Masaniello e sostenuto il governo spagnolo, stavolta una parte della nobiltà del Regno, particolarmente colta e progressista, si era proposta insieme con i migliori elementi dell’emergente ceto medio, come la nuova classe dirigente dell’Italia meridionale, ad instaurare un vero e proprio braccio di ferro contro il governo vicereale che sfociò, nel settembre del 1701, nella cosiddetta congiura di Macchia.

Questo episodio che sconvolse la città di Napoli fu narrato, in lingua latina, da Giambattista Vico nel De coniuratione partenopea, che, pur essendo uno scritto minore del grande filosofo napoletano - una sorta di «opericciuola», come fu assai riduttivamente definita dal Granito - rimane la più ampia narrazione di quegli avvenimenti fatta da un intellettuale contemporaneo chiamato, peraltro, a pronunciarsi prima contro con un'orazione di condanna ordinatagli dal viceré, poi, all'avvento degli austriaci, a stilare una difesa a favore dei congiurati. 

L'aria che si respirava era pesante, nella capitale del Regno e nelle province cresceva di giorno in giorno il fermento contro i responsabili dell’amministrazione della giustizia per i ritardi nel disbrigo delle cause e, soprattutto, contro il governo e la persona del viceré che, proprio per questo, aveva dato ordine di reprimere sul nascere ogni tentativo di sollevazione.

Una volta morto Carlo II di Spagna, secondo il piano dei congiurati, bisognava dare l'indipendenza al Regno attraverso l'attuazione di una politica nuova che avesse trasferito il governo alle Piazze di Napoli, che avesse favorito un commercio libero e sicuro, che si fosse bastata sulla istituzione di un esercito nazionale ed una flotta mercantile, che avesse varato un codice nuovo di leggi con lo snellimento delle procedure delle cause civili e penali e con la garanzia della messa a bando di ogni tipo di inquisizione e, nel contempo, avesse recuperato alla nobiltà i suoi diritti. Insomma, un programma sicuramente moderno e all'avanguardia in quel particolare clima di rinnovamento e di riforme che si stava vivendo in tutta Europa all'alba del XVIII secolo.

Ma a spingere i baroni a ribellarsi non erano solo motivazioni di natura politica perché, oltre alle innovazioni governative, era stato stabilito un elenco delle concessioni politiche e delle grazie da chiedere all'imperatore, nonché delle ricompense territoriali, anche fuori del Regno, per ciascuno di loro. In particolare, il principe di Macchia aspirava al comando supremo di tutti i castelli del Regno, il marchese del Vasto era interessato allo Stato di Monferrato, Carlo di Sangro puntava sulla contea di Cosenza e Giuseppe Capece contava su quella di Nola. Da queste richieste si esclusero il principe della Riccia, che, come scrive Granito << fu voce di  aver dichiarato bastargli la sola morte del viceré>> e Tiberio Carafa, «il cui animo generoso aborriva da ogni fine privato».

Il piano dei congiurati di Macchia, andava prendendo consistenza anche attraverso una capillare opera di adesione nelle province. Oltre allo sbarco delle truppe austriache sul Gargano, dove il marchese del Vasto aveva messo a disposizione il castello di Manfredonia e diverse migliaia di masnadieri, bisognava nella capitale, la vigilia delle festività in onore di San Gennaro, il 18 settembre, occupare Castelnuovo, sede dell'armeria e dell'arsenale, dove il duca di Castelluccia, per esservi stato carcerato, era riuscito ad assoldare, con la promessa di diecimila ducati di ricompensa, il soldato Gioacchino del Rio.

Quanto al viceré Medinaceli, il piano prevedeva la sua cattura presso la casa di una cortigiana, con cui soleva trattenersi dopo la passeggiata serale, grazie alla complicità di un suo ex cocchiere, Nicola Anastasio.

Ma gli eventi precipitarono all'improvviso: in seguito alla denuncia di un avvocato saltò l'occupazione del castello e, contemporaneamente, scattò l'allarme da parte dell’apparato governativo e poliziesco del governo.  <<Ma per la divina Misericordia ciò non avvenne, poiche uno complice di detta inteligenza , palesò tutto al  Viceré, che pervenne  alla detta sorpresa del castello>>, commentarono i Bianchi nella loro cronaca.  

Nonostante la congiura fosse stata scoperta, i capi della rivolta, intorno ai quali si erano radunate torme di combattenti armati, non si fermarono. Per prima cosa fu preso d’assalto il Castel Capuano, con la liberazione dei detenuti dalle carceri, la devastazione dei pubblici archivi e degli uffici giudiziari dei tre tribunali supremi, il Sacro Consiglio, la Regia Camera e la Gran Corte della Vicaria. Le dame scapparono nei monasteri, mentre prendeva consistenza una guerra civile.

Ma presto nelle file della nobiltà spuntarono i primi "pentiti" anche tra quelli che in un primo momento avevano aderito alla congiura, e molti del popolo incominciarono a ripensarci e a rinfacciare ai baroni il loro comportamento durante la rivolta di Masaniello. Per i capi della congiura incominciava, ormai, a mettersi male. Furono dichiarati ribelli e colpevoli di ‘fellonia’ che, nel diritto feudale, era  il delitto di tradimento della fede giurata, comportante la rottura del contratto feudale e la conseguente perdita del feudo.

Oltre un centinaio si diedero alla fuga, tra cui Gaetano Gambacorta, Tiberio Carafa ed altri nobili congiurati che riuscirono a raggiungere Vienna ed a rifugiarsi da esuli, altri furono uccisi nelle terre di provincia e le loro teste mozzate tornarono a Napoli in gabbie di ferro, altri ancora  furono fatti prigionieri. Gli unici ad essere catturati dalle guardie del duca Medinaceli furono il marchese Carlo di Sangro, <<che per voler fuggire, caduto si ruppe li reni>>, Gioacchino del Rio, il soldato che, corrotto dal duca di Castelluccia avrebbe dovuto consentire l’accesso all’arsenale del Castelnuovo, Nicola Anastasio, l’ex cocchiere del viceré, che ne avrebbe dovuto organizzare la cattura, e due rappresentanti del popolo, Giovanni Bosco e Nicola Rispolo.

La decapitazione fu  riservata solo al marchese Carlo di Sangro, unico nobile che, ferito, non era riuscito a scappare. Gli altri tre prigionieri furono dapprima <<strascinati>> e poi impiccati.

Il marchese di Sangro, prigioniero in Castelnuovo, depositò il suo testamento ai Bianchi della Giustizia. Impossibilitato a camminare, annota lo scrivano Mena,  giunse al patibolo su una sedia di paglia, affrontando il suo destino in <<giamberga da laccheo e sentimenti di vero cavaliere cattolico>>.

 

 

 

 

Bibliografia e Note:

Abstract da A. Orefice, I Giustiziati di Napoli dal 1556 al 186,  D’Auria Editore, Napoli, 2015.

[1] Angelo Granito, Storia della congiura del principe di Macchia, II, Stamperia dell’Iride, Napoli 1861, pagg. XV, XVI.

[2] Archivio Storico Diocesano di Napoli, Bianchi della Giustizia, registro n.143, pagg. 64-67.

 

 

Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo Registri Bianchi della Giustizia, Vol.143, anno 1702, cc.64-67

 

Trascrizione integrale del documento

 

Caggione di simil Giustizia si fù per una Congiura scoverta di molti nobili, e spagnuoli officiali del Castello Nuovo, e soldati che dà molti mesi andavano tramando di sedurre il Popolo ad acclamare per Ré di Napoli l'Arciduca Carlo d'Austria, Figlio dell'Imperatore  Leopoldo, co voler sorprendere per mezo d'inteligenze secrete con di soldati di suddetto Castello, con (…) la persona del Viceré S. Duca di Medina Celi in una notte per strada, capi di qual congiura (secondo il manifesto parte stampato e parte manoscritto sividele affisso.) Il Marchese del Vasto; Principe di Cosenza; Principe della Riccia, Duca di Telese; Prince di Macchia, Don Malizia  Carafa,Principe di Chiusano, Don Carlo de Sangro, Don Giuseppe Capece. Ma per la divina Misericordia ciò non avvenne, poiche uno complice di detta inteligenza , palesò tutto al D.Viceré, che pervenne  alla dettaa sorpresa del castello: ma bensi il venerdi matina 23 di settembre 1701 andando alcuni di detti congiurati scorrendo per la strada della Vicaria, per S.Lorenzo, et altre convicine strade, co seguito d'alcuni pochi scalzoni , fatti calare à questo effetto dà convicini casali, co pochi armigeri, Viva l'Imperatore; ruppero le carceri della Vicaria, dando il guasto al sudetto Palazzo co estrarne li processi, e scritture del S. Consiglio, Camera, Archivio, e Vicaria, parte dandole alle fiamme, e parte conducendole ognuno in propria casa, co saccheggiare la casa del Giudice di Vicaria, che per guardia delle dette carceri, ivi di continuo habita Salvatore Antonio  Cassena, come poi segui alla casa del Fiscale di Vicaria Filippo Villapiano, e del Giudice Pietro Emilio Duasco, e del Con.r D. Carlo Cito. Cosi scorrendo baccanti per altri palaggi cercando da pertutto armi di qualunque sorte si fussero, detti Capi nobili si fecero forti nel Campanile di S.Lorenzo, nell'atrio di S. Paulo, et altri al Campanile di S.Chiara. Indi posto in bisbiglio e sottosopra la Città tutta, le Dame parte si salvarno ne monasteri, altre ricorsero à Palazzo per salvarsi nel Castello, dove la Signora Viceregina si era rifugiata. (c.64)

La nobiltà tutta parte ricorse da Sua Eccellenza ad assisterli, parte ricorse al Vescovato per risolvere quid agendum, à rifugiarsi sotto il patrocinio di S. Gennaro; per tema anco di non esser costretti da dei capi ribelli, à seguirli per forza, mentre minacciavano fuoco e fiamme à chi per la matina in appresso non seguino il loro partito. Tra tanto tremore, e spavento stimando ogniuno già la fine di Napoli: gionta persona del popolo Civile dal Signor Viceré, assicurando che al mercato non si era mosso nessuno di quei, stava tutto in quiete, anzi stimulati da detti capi ribelli si erano dimostrati costanti per il Nostro Monarca Filippo V°; onde uscito sul tardi in carrozza il Suddetto Prince di Montesarchio co pochi cavalieri a cavallo, e co seguito di molti del Popolo Civile à piedi, armati, formò tutti li quartieri di basso fedeli per il nostro Rè, pronti a spargerne il sangue: Onde fù risoluto il Sabato matina uscire co la soldatesca, prima che tal foco prendesse maggior vigore, e colla Nobiltà, che tutta per il venerdi à sera, et il sabato à buon hora, era accorsa in Palazzo, in numero più di 200, e co soldati di campagna, co le compagnie e di corazze di Sua Ecellenza numeroso tal squadrone più di mille persone, capo il Signor Ristaino Cantelmo Duca di Popoli Generale dell'artiglieria, co due pezzi di Colobrine tirati da cavalli di S.E., e due carri di monizione, et il Prince di Montesarchio, spartita la nobiltà in due compagnie e per guardia dell'artiglieria, s'incaminarno per la strada di Toledo precedendo li soldati di Capuana che assalendo Port'alba dove si erano fortificati detti mutori delli Imperatore fù co qualche resistenza alfin guadagnata, e li posero in fuga, et avanzato lo squadrone, fugono questi, che guardavano le fosse del grano, da dove ne pure una misura ne fù estratta, e ritornato in dietro, giunsero al largo del Gesù, dove piantata l'arteglieria, battendo il Campanile di S.Chiara, che se bene à poco vi fù resistenza, al batter del cannone, et assaliti dà più parti, tutti si diedero à precipitosa fuga, per farsi più forti in S.Lorenzo. Cosi guadagnato detto campanile voltò il nostro di Capuana andandole indietro, et entrati di nuovo per Port'alba, et usciti per Porta di Costantinopoli gridandosi da pertutto Viva Filippo V° argumendrandosi ci fu cura più per la strada lo squadrone suddetto animato ognuno de felici successi, entrò per la Porta di S.Gennaro, e girato per il largo di (S.) Giovanni  a Carbonara, per avanti la Parrocchia di S.Sofia per prendere la strada diritta per guadagnare il vico all'anticaglia che esce all'incontro il campanile di S.Lorenzo, dove, doppo qualche (c.65)

pericolo nel passare per puzzo bianco, per le continue archibuggiate, che erano tirate da'luoghi nascosti, fù piantata finalmente l'artiglieria all'incontro detto Campanile di S.Lorenzo, e doppo alcune cannonate, persi d'animo e di speranze i ribelli si diedero alla fuga, et entrati li spagnoli, e cercando da pertutto il loro di Capo gli, fù ritrovato il suddetto Don Carlo de Sangro, che per voler fuggire, caduto si ruppe li reni, e fatto prigioniero co altri seguaci, co il Conte Sassinetti venuto per parte delo Imperatore per assistere à detti capi, furno portati nel Castello Novo, ove convinsero, e confessatosi reo di fellonia, palesò francamente il petto, fù decollato, e l'altri complici appiccati, come si è detto; et à fuggitivi darseli alla rota dalla gente di corte, furono perseguitati per le convicine montagne, e molti ammazzati, altri sbaragliati, ne sono venuti alcuni teste, fra quale quella del Capece, altri prigioni, altri salvati in Benevento si trovarno ivi carcerati in nome del Papa, il Prince de La Riccia  priggione, et intanto postesi da pertutto il regno guardie, et alli confini, si stà in attenzione alla carcerazione de detti ribelli.

La gloria di si felicissimo fine si deve à Dio che per sua misericordia si è compiaciuto liberarcene cosi subito, accompagnato dall'intercessione della Gloriosissima Vergine tutela del nostro  Padre e Protettore Glorioso S. Gennaro, e dell'altri SS. Padroni, che fù scoverta la suddetta congiura e remediare al danno imminente della Città, e del pubblico, mentre correndo l'ottaua di detto Glorioso Santo, fù veduto l'ammirabile suo Sangue (toltane la prima matina de la sua Festa, che si liquefece subito à vista del Suddetto Capo) sempre nelle altre matine all'uscire, torbido, ne mai duro, benche più tardo si andava chiarendo, et il giovedi precedente, il giorno s'indurì per meza hora fù ritrovato nel medemo modo, stando per tutto il giorno serbato; Ma il sabato matino facendo il miracolo assai migliore dell'altri giorni, diede segno della grazia, e nel giorno, mentre passava lo squadrone per avanti il Palazzo di Sua Eminenza che dalla finestra benediceva i suoi Figli esposti à tanti pericoli; calato à pregare il Santo, rechiesto dalla Nobiltà per la loro salvezza, s'indurì di nuovo à vista di Sua Eminenza il Suddetto Sangue, mà subito si liquefece, e simidele all'hora guadagnato il Campanile di S.Lorenzo, e fugati i ribelli. A grazia cotanto speciale fù in parte corrisposto co una Processione il Lunedi à sera portandosi per la Città tutti i SS. Protettori, la Testa, co il Sangue del Glorioso S.Gennaro, portando il Palio li Santissimi Eletti, andando in appresso Sua Eminenza co il Signor Viceré, Ministri, e Nobiltà devota girando la processione per la strada di S.Lorenzo deritto per Port'Alba; per il largo di S.Domenico" (c.66)

entrò per Porta dello Spirito Santo, voltò per il Giesù, avanti seggio di Nilo, salì per il vico delli (mannesi), ritornando nel Vescovato, essendosi prima di uscire cantato il Te Deum co l'asstenza di Sua Eminenza e Signor Vicere, e Collaterale, e cosi terminò la Santa Ottaua co giubilo di tutto, in particolare per la tenera disposizione co che stava il Glorioso Sangue quando si ripose, che per allegrezza moveva i cuori di tutti à lacrimare, et ad adorarlo.

Ma non si deve anco lasciar di notarsi, come nel giorno che seguì detta Giustizia, doppo esser stato appiccato il 3° e già vivendo la città in una pace, e tranquillità, mostasi una carrozza al largo del Castello, e posti in fuga quei primi che si trovavano vicini, fù occasione che gli altri non sapendo il caso, e vedendo fuggire, tutti si posero in fuga, scompigliandosi il largo, onde ogniuno, che veniva dalle strade, incontrandosi co suddetti fuggitivi, ritornando fuggiva gridandosi da pertutto (…) ne sapendosi per qual caggione, ne perche si fuggiva, si pose sotto sopra la Città tutta co nuova apprensione essersi rivoltata Napoli, onde in seguito furno da pertutto, anco ne quartieri più remoti, e ne borghi serrate le botteghe, Palazzi, e Chiese; facendo armare Sua Eminenza i corsari per sicurezza del suo Palazzo, mà conosciutosi la vanità del successo, tutto si ripose nella purissima tranquillità, che sempre per più si va godendo. (c.67)

 

 

 

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