Carlo di Borbone e i condannati a morte per sorteggio

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Durante le vicende della lunga guerra di successione Spagnola (1701 -1714), Filippo V che aveva assurto al Trono di Madrid nel 1700, sette anni dopo perdette  il vicereame di Napoli e Sicilia a favore degli Asburgo d’Austria.

I vicerè  avevano considerato Napoli un territorio di conquista, una colonia da cui trarre ricchezze, in gran parte sperperate da una burocrazia corrotta ed avida. Il sistema sociale si era fondato su una aristocrazia estranea al potere politico ed impegnata solo a conservare gli atavici privilegi, e su una potente borghesia formata da un consistente numero di giudici, notai, medici ed avvocati, che di fatto detenevano il potere amministrativo.

Per sette secoli il popolo napoletano era passato da un domino all’altro: dai normanni agli svevi, dagli angioini, agli aragonesi e poi i Francesi, gli spagnoli, gli austriaci.

Nel 1734, durante la guerra di successione polacca, Carlo Sebastiano di Borbone, primogenito delle seconde nozze di Filippo V di Spagna con Elisabetta Farnese, al comando delle armate spagnole, conquistò i regni di Napoli e di Sicilia, sottraendoli alla dominazione austriaca.

Il suo arrivo nella capitale il 10 maggio del 1734 segnò l’inizio della rifondazione istituzionale del Regno.

 

Il nuovo re, con un vestito principesco intarsiato di diamanti, fu accolto con grande esultanza dal popolo, storici dell’Ottocento raccontano di un ingresso “magnifico” per la Porta Capuana, di un festoso corteo di alabardieri, paggi, maestri di cerimonie ed un tesoriere che  precedeva tutti, spargendo per la strada monete di argento e di oro.

E’ indubbio che Carlo di Borbone riuscì a dare un nuovo impulso economico e politico al Regno, grazie alla collaborazione dello spagnolo Josè Joaquin Guzman del Montealegre, nominato Segretario di Stato, di formazione culturale riformatrice e convinto estimatore dei nuovi indirizzi economici che si stavano affermando in Europa.

Il nuovo Segretario per attuare le sue idee si circondò di numerosi esperti, alcuni dei quali provenienti dalla Toscana, tra cui Bartolomeo Intieri e Bernardo Tanucci, ed altri presenti nel mondo accademico del Regno, come Celestino Galiani e Antonio Genovesi. 

Tutto ciò venne favorito principalmente dal pieno appoggio e dal consenso di sua madre Elisabetta Farnese, conosciuta anche come Isabel de Farnesio, moglie di Filippo V, il primo re di Spagna della dinastia dei Borbone, che inviò direttamente dalla Spagna cospicue risorse finanziarie indispensabili, per la costruzione in breve tempo della strada per la Calabria, del teatro San Carlo, dei palazzi reali di Portici, Caserta e Capodimonte dell’Albergo dei Poveri, per dare inizio agli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, e soprattutto per creare un nuovo esercito.

La data di nascita ufficiale dell'esercito napoletano va collegata alla legge del 25 novembre del 1743, con la quale il re Carlo dispose la costituzione di 12 reggimenti provinciali, tutti composti da cittadini del Regno, affiancati da reggimenti con soldati svizzeri, valloni e irlandesi.

L'amministrazione, la giustizia ed il comando delle truppe erano integrate nel Ministero della Guerra e Marina che le attuava tramite quattro organi posti alle proprie dipendenze. Al di sopra del Ministero della Guerra era situato il sovrano, Capitano Generale.

La promiscuità dei soldati annoverati nel complessivo esercito, nel quale convogliarono anche i soldati della “vecchia guardia”, comportò anche tante difficoltà: a decine finirono “passati per le armi” a seguito di reati per lo più imprecisati. Il dato numerico che emerge dai registri dei Bianchi è di 70 soldati su 148 condannati solo durante la reggenza di Carlo e prosegue con quella di Ferdinando IV.

Ma a questo dato si aggiunge un particolare molto sconcertante, finora sconosciuto per quell’epoca: la condanna a morte per sorteggio.

In questa sede sono stati riprodotti alcuni documenti ricavati dai registri redatti dai confratelli della Compagnia Napoletana dei Bianchi della Giustizia che attestano la veridicità storica di queste macabre condanne per le quali i religiosi, che svolgevano il triste compito di confortatori, erano chiamati nelle carceri per presenziare al sorteggio tra soldati e poi assistere davanti al plotone di esecuzione lo “sfortunato” a cui era toccata la morte.

Ci troviamo di fronte a casi particolari di “rappresaglia” più che di “decimazione”.

La “decimazione” fu un antichissimo strumento estremo di disciplina militare inflitto ad interi reparti negli eserciti dell'antica Roma per punire ammutinamenti o atti di codardia, uccidendo un soldato ogni dieci. La parola deriva dal latino decimatio che significava "eliminare uno ogni dieci".

Poiché la punizione colpiva a caso, tutti i soldati della coorte punita correvano il rischio di essere uccisi, indipendentemente dal grado o dai compiti svolti.

Di conseguenza la minaccia della decimazione, oltre che spaventare, obbligava i legionari a mantenere un comportamento risoluto in battaglia.

Tuttavia, poiché l'applicazione della decimazione riduceva in un sol colpo la forza del reparto del dieci per cento, si crede che essa fosse comminata molto raramente.

Il più antico riferimento noto alla decimazione è del 471 a.C., durante le prime guerre della Repubblica Romana contro i Volsci ed è raccontato da Tito Livio.

Questa pena fu ripresa anche da Marco Licinio Crasso nel 71 a.C. durante la Terza guerra servile contro Spartaco.

La decimazione fu praticata anche durante l'Impero Romano: Svetonio nella sua Vita dei dodici Cesari tramanda che fu usata da Augusto nel 17 a.C.

La decimazione è stata utilizzata ancora durante la Prima guerra mondiale nell'Esercito Regio del Regno d'Italia. Il primo caso colpì il  141° Reggimento di fanteria della Brigata il 26 maggio 1916,  del quale 120 uomini si ammutinarono, aprendo il fuoco e uccidendo ufficiali, commilitoni e carabinieri intervenuti a sedare la rivolta. In quell'occasione furono fucilati un sottotenente, tre sergenti ed otto soldati, ossia un ammutinato ogni dieci, per evitare di dover passare per le armi l'intera compagnia.

La “rappresaglia”, nel diritto bellico è stata, invece, una risposta militare violenta a seguito di torti subiti. Una forma quasi di vendetta legalizzata che è stata usata, soprattutto durante la Seconda guerra mondiale sui vari fronti, senza regole e senza pietà.

In Italia, durante la guerra civile del 1943-45, si è fatto spesso ricorso ad essa. L’esempio più emblematico è quello relativo alle Fosse Ardeatine a Roma nel marzo del 1944, quando furono soppressi 335 italiani dopo l’attentato di Via Rasella, nel corso del quale, a seguito di un’azione partigiana erano stati uccisi 33 soldati appartenenti ad un reparto di milizia altoatesina inquadrato nelle SS. In questo caso, durante i processi svoltisi a conflitto ultimato, più che difendersi dall’aver ucciso tanti innocenti, i comandanti nazisti (nella fattispecie il comandante della piazza di Roma, Colonnello SS Kappler), hanno ritenuto legittima la rappresaglia, considerato che i bandi precedentemente emessi, prevedevano la morte di 10 italiani ogni soldato tedesco ucciso e che le 5 vittime in più erano state causate da un mero errore di calcolo.

Le “rudimentali” rappresaglie eseguite durante il periodo di Carlo di Borbone emerse dai registri dei Bianchi non seguivano regole prefissate. Il sorteggi avvenivano a volte tra due soldati, poi uno su quattro, oppure uno su nove, insomma a seconda del caso. Potremmo definirle una macabra roulette russa dove il perdente veniva passato per le armi ed il vincitore rimesso in libertà. 

Questo dato dovrebbe lasciare molto riflettere non solo sulle modalità  e le  giustizie sommarie avvenute in ogni tempo ed in ogni luogo a scapito di innocenti, ma anche sulla figura così tanto osannata di Carlo di Borbone che, se da una parte aveva realizzato grandi opere per la sua politica dell’immagine, dall’altra non si era risparmiato dal far compiere atti di aberrante disumanità. Il Maggio dei Monumenti napoletano a lui dedicato quest’anno, dovrebbe contemplare una rievocazione storica anche nei luoghi delle esecuzioni capitali dove spirarono le vittime della sua dispotica stirpe monarchica. Giusto per  mostrare anche l’altra faccia della medaglia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri dei Bianchi della Giustizia, n. 190, c.71r

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri dei Bianchi della Giustizia, n.194, c40r

 

 

 

 

 

 

Abstract da A.Orefice, Delitti e condannati nel Regno di Napoli, dal 1734 al 1862. Nella documentazione di Bianchi della Giustizia, Prefaz. di Antonio Illibato, Napoli 2014.

 

Sull'argomento cfr:

Blanch Luigi, Idea di una storia delle milizie delle Due Sicilie da Carlo III al regnante Ferdinando II, in Antologia militare, V, Reale Tipografia della Guerra, Napoli, 1839.

Bouvier René, Laffargue André,  Vita napoletana del XVIII sec.,Treves, Napoli, 2006.

D’Ayala Mariano, Memorie storico – militari dal 1734 al 1815, Tipografia Francesco Ferdandes, Napoli 1835.

D’Ayala Mariano, Napoli Militare, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1847.

F. C. (compilatore), Dei delitti della famiglia Borbone dacché  regna nelle Due Sicilie 1734-1848, Tipografia Delle Piane, Genova, 1848.

Ferrarelli Giuseppe, Memorie militari del Mezzogiorno d'Italia, con prefazione di Benedetto Croce, Laterza, Bari, 1911.

Orlandi Carlo, Delle tirannie borboniche nelle Due Sicilie (1734 -1861), Stampa a firma dell’autore, Napoli, 1861.

Tito Livio, Ab urbe condita, II (E-book). Svetonio, Augustus  (e-book).

Lussu Emilio, Un anno sull’Altipiano, Einaudi, Torino, 2005.

 

 

 

 

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