Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Procida 1799. La verità storica

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L’idea di raccontare i giorni della Repubblica Napoletana del 1799 a Procida in chiave romanzata è sorta dal desiderio di voler realizzare un romantico connubio tra i reali fatti storici allora avvenuti e la ricostruzione di  atmosfere e stralci di vita dei protagonisti.

La ricerca documentaria  degli avvenimenti di quel periodo non è mai stata un’impresa facile per gli addetti ai lavori; i processi famosi e buona parte delle carte del tempo furono date alle fiamme dai Borbone e la censura e il clima intimidatorio inflitto per oltre un cinquantennio resero poco meno che ignorata tutta la vicenda.

Sono appena trascorsi i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unificazione dell’Italia , una celebrazione che ha visto scontrarsi verità storiche contrapposte, ma soprattutto la rievocazione di un regno borbonico  florido e culla di ogni umana ricchezza, prestigio e dignità, stroncato  violentemente dai moti Risorgimentali  che ne avrebbero segnato la fine attraverso massacri e furti perpetrati dai Savoia.

Nessuno ha posto  in essere il dubbio che quel tanto decantato oro del Borbone trafugato dai Savoia potesse derivare dalle confische inflitte alle famiglie dei repubblicani finiti sui patiboli, nessuno ha osato ricordare le nostre sorelle violentate dalle truppe mercenarie che l’abile Borbone organizzò con gli inglesi ed il Cardinale Ruffo.

 

Nessuno ha osato accennare alle  stragi  avvenute appena sessantadue anni prima dell’Unificazione e che insanguinarono  tutto il Sud dell’Italia e quelle famiglie perseguitate per generazioni.

Nessuno ha osato farlo, perché sono verità scomode ai nostalgici borbonici ed ancora più risonati se solo si pensa che quel massacro avvenne tra gente che vivevano nella stessa terra, per non dire nello stesso circondario. Nessuno ha osato rievocare quella storia, perché troppo degradante per aver segnato la più grande sconfitta dei Borbone mettendone  a nudo scelleratezze e crimini.

Il Risorgimento Italiano, visto dai retrivi di quel regime, ha segnato la fine del grande regno e l’inizio del declino del Sud per il quale bisogna piangere e vendicare i briganti assassinati dai Savoia, lazzari e contadini assoggettati e spronati dall’ultimo dei Borbone di Napoli.

I martiri della Libertà del 1799 vanno dimenticati, nascosti alla coscienza dei posteri, così come Ferdinando IV ordinò. Vanno dimenticati coloro che  nelle carceri napoletane della Vicaria, di Castel Sant’Elmo e di tutto il regno delle due Sicilie patirono torture disumane e finirono sui patiboli, senza contare tutti quelli che persero la vita sui cambi di battaglia, che furono trucidati nelle loro case e di cui nemmeno il nome si ricorda.

Quei martiri non difesero come i briganti il regno del Borbone, ma lo combatterono in cambio di Libertà, Democrazia e Repubblica, quella che oggi in tanti calpestano, non comprendono, degradano e ne offendono la Costituzione.

Celebrare l’Italia Unita, alla luce di questa storia dimenticata, significa ricordare il sacrificio dei patrioti trucidati per la libertà del sud, per la dignità di quello stesso popolo lazzaro e brigante che, asservito al Borbone, contribuì in misura decisiva alla fine del loro sogno repubblicano. Fu un sogno che durò complessivamente solo sei mesi, ma chi ama la storia, quella vera, quella che va oltre le manipolazioni, i preconcetti e l’ipocrita retorica, certo non lo ha dimenticato.

Ebbe appena sessantaquattro giorni di vita la Repubblica nell’isola di Procida e la repressione che ne conseguì esercitò effetti devastanti sia sulla popolazione, duramente colpita nelle sue migliori famiglie, che nei reperti storici andati distrutti. L’unica fonte documentaria attendibile sui fatti che allora avvennero nell’isola ci è pervenuta dalle pagine del Monitore Napoletano. Ricostruire pertanto delle corpose biografie dei martiri procidani si è rivelata un’impresa difficoltosa, se non del tutto impossibile, dal momento che la repressione borbonica si abbatté anche sui loro discendenti, a cui furono confiscati i beni e distrutti tutti i ricordi di famiglia. Per tal ragione oggi di quei valorosi non possediamo alcun ritratto, né particolari notizie documentate. A ricordarli primi di una strage che si estese a tutto il Sud dell’Italia da giugno del 1799 a  settembre del 1800, il Municipio dell’isola nel 1864 eresse un monumento alla memoria, su cui, però, furono commesse delle inesattezze, imputabili forse al difficile reperimento di notizie.

Bernardo Alberini ed Antonio Scialoja hanno rappresentato con la loro opera le due colonne portanti della Repubblica a Procida: l’uno, figura di primordine quale Commissario del Governo, l’altro suo stretto e fidato collaboratore.

Di Scialoja, atavico procidano, ancor oggi è possibile sull’isola visitarne il palazzo dove lui e la sua famiglia vissero per generazioni. Tra l’altro un suo diretto discendente, Antonio Scialoja nato nel 1817, divenne alla fine dell’Ottocento Senatore del Regno d’Italia, dopo essere stato un fervente antiborbonico durante le lotte risorgimentali. Il nome del nostro patriota del 1799  è emerso specialmente dal carteggio tra il Comandante Trowbridge e l’Ammiraglio Nelson e, data la notorietà della famiglia, ed è stato ricordato anche in alcune biografie.  Del napoletano Bernardo Alberini, invece, non è rimasto praticamente nulla e la sua morte ancora resta avvolta nel mistero.

Il suo nome, pur se citato inesatto nella professione, compare una sola volta nel Monitore in data  18 maggio:

 

Il mare gettò jeri verso Miliscola un cadavere cucito dentro una tela assai fina, ed a punti ben fitti, co’ polsi legati, e una fune ravvolta strettamente intorno le cosce, le gambe e i piedi; e pareva avea ricevuta una ferita nell’epa dove la tela appariva intinta di sangue: Aperto questo sacco, si è creduto, malgrado che il cadavere cominciasse già a corrompersi , riconoscere in lui il Buon Patriota Chirurgo Alberini, che si sapeva colà fatto prigioniero dagli Inglesi. A così truce spettacolo, tutti accesi di sdegno i nostri Patrioti hanno giurato sul cadavere istesso la più feroce vendetta col non dar quartiere in Procida nè agli Inglesi, né a ribelli. E’ probabile che si erri nella persona, e quello sia un privato delitto, anziché una pubblica atrocità.

 

Il nome di Alberini, seguito da quello di Antonio Scialoja, comparve nel triste elenco dei martiri raccolto nell’opera coeva di Francesco Lomonaco, Rapporto al Cittadino Carnot, poi da allora calò un silenzio lungo oltre sessant’anni, fino a quando, nel 1862, Alessandro Dumas (padre) nell’opera I Borboni di Napoli, riportò uno stralcio della sua vita, tra informazioni incerte e non documentate, errando anche il cognome che da Alberini è stato poi tramandato Alberino.

 

Bernardo Alberino napolitano figlio di uno scrivano criminale per nome Antonio, perché altamente compromesso, corse a nascondersi in Furio (Forio d’Ischia), credendo star sicuro in un’ Isola, presso un amico di suo padre un tal Luigi Caruso di Forio, il quale lo nascose in un suo podere alla contrada Acqua-Sorgente. Scortolo ed arrestato fu trascinalo a Procida ed impiccato sulla piazza della Madonna delle Grazie! Il delitto che menava D. Bernardo Alberino alla morte fu quello, ch'essendo milite nazionale a cavallo a tempo della repubblica, passando un giorno colla divisa sul suo cavallo per la Piazza del Mercatello in Napoli vide che in mezzo al largo ancora esisteva la statua di Ferdinando IV  su di un Cavallo marino; toccato da sdegno vi si accostò  e sfoderando la sua sciabola vibro due o tre colpi all'equestre statua. Tempo venne che questo delitto, conservato in petto ai traditori dei fratelli,  doveva essere denunziato e spiato coll'ultimo supplizio per mezzo di Speciale dal giovine Notaio Bernardo Alberino.

 

Da queste poche righe si evince la scarsa attendibilità delle notizie. Il maestro del romanzo storico Dumas, non individuò le vere cause che portarono alla condanna a morte dell’Alberini, facendole risalire al semplice episodio della statua equestre e non alla sua carica di Commissario rappresentante del Governo, comprovata dallo storico Mario Battaglini in una nota del Monitore. La notizia secondo la quale l’arresto di Alberini poi sia avvenuto ad Ischia non è suffragata da alcun atto scritto, ma da una testimonianza verbale di cui Dumas si avvalse.

Qualche anno dopo la pubblicazione del romanzo dello scrittore francese, un instancabile ricercatore della storia dei martiri, Mariano D’Ayala, all’indomani dell’unificazione dell’Italia e la tanto sospirata caduta della dinastia dei Borbone, con un lavoro certosino, durato tutta una vita, raccolse una sostanziosa mole di  biografie dei martiri della libertà italiana uccisi dal carnefice, e non mancò di visitare l’isola di Procida, cercando documenti e testimonianze sui fatti del 1799.

Quando si trovò di fronte al cenotafio alla loro memoria che il Municipio aveva fatto erigere nel 1864 nella piazza di Santa Maria delle Grazie, fu molto risentito per l’omissione di alcuni nomi e la confusione di altri. Mancava Bernardo Alberini e veniva invece citato Marcello Eusebio Scotti, anch’egli martire, ma  giustiziato e seppellito a Napoli nel gennaio del 1800.

Il D’Ayala, nella sua ricostruzione biografica, continuando a chiamarlo Alberino sulla scia di  Dumas,  ne diede anche lui per scontata la morte assieme agli altri martiri il primo di giugno, ma tale conclusione ancora non venne suffragata da alcuna documentazione scritta, bensì si basò su  testimonianze verbali raccolte tra gli anziani del luogo, oltre settant’anni dopo.

Ciononostante al D’Ayala va sicuramente il merito di aver raccolto di Alberini delle informazioni biografiche più dettagliate ed attendibili.

Dare la vita alla Patria e non essere neppure nominato, non è cosa da comportarsi in nazioni libere. Bernardo Alberino nacque a Napoli verso l’anno 1767, da Antonio scrivano criminale e da Giacomina Sibilla. Alcuni lo credettero avvocato: la Fonseca nel suo Monitore delle Repubblica lo disse chirurgo, ma io fui assicurato da un vecchio di Casamicciola, Michele Orecchione, il quale fu il suo colono, avere il padrone esercitato l’ufficio di notaio. La famiglia di Alberino ebbe proprietà in Casamicciola, Procida e Miliscola; oggi certi Mazzella di Procida vi hanno formato una villa. La casa degli Alberino in Napoli era al vico de’ Tre Cannelli alla Porta di Massa, altri discendenti hanno abitato in via San Giovanni a Carbonara.

Il giovane Bernardo ebbe ingegno, e più, cuore. Nominato Commissario della Repubblica in Procida, vi innalzò l’albero della libertà e fece un discorso sui diritti dei cittadini Quando nelle acque procidane giunse la libera schernitrice bandiera inglese, Alberino passò nell’Isola d’Ischia per raccogliere gente e resistere., non punto per ricoverarvisi pusillanime, come si volle dire; ma l’astuto e feroce capitano inglese cercò di averlo nelle grinfie e lo ridusse nelle segrete del castello.

L’Alberino erasi nascosto in una cantina del signor Francesco Buonamano, che riportò una ceffata villana da certi sgherri di Ischia chiamati Messina; e Gaetano Morgera, suo uomo fidato, cercò ogni via per salvarlo.

In una lettera dell’Ammiraglio inglese Trowbridge al Nelson, del 4 aprile 1799, si legge: “Io ricevo in questo momento la notizia che un prete di nome D’Albarena” predica la rivolta ad Ischia; ho mandato 60 svizzeri e 300 fedeli sudditi per dargli la caccia e spero di averlo tra le mani morto o vivo in giornata. Prego V.S. a mandare qui un onesto giudice per fare il processo a questo signore perché è necessario dare un esempio.”

Ma dobbiamo soggiungere che negli Archivi Municipali trovammo l’arresto il 17 del mese pratile di due marinai che venivan da Procida i quali dissero che il sabato eran scesi a terra  per curiosità ed avevan veduto appiccare tredici cittadini fra i quali Buonocore, Schiano ed Alberino. 

 

Secondo le notizie riportate sia dal Dumas che dal D’Ayala, Bernardo fu arrestato ad Ischia in aprile, vestito da prete e mandato al patibolo il primo di giugno. Considerata l’atmosfera convulsa che si scatenò all’arrivo degli inglesi appare del tutto inverosimile l’ipotesi che l’Alberini potesse essere riuscito a mettersi in viaggio per mare e per giunta fare rotta non verso la vicinissima spiaggia di Miliscola, dove avrebbe trovato degli altri patrioti,  ma verso Ischia, ben consapevole che anche quell’isola era già stata presa dagli Inglesi. Tra l’altro non bisogna nemmeno dimenticare che il sacerdote incaricato di predicare il catechismo repubblicano ad Ischia fu Antonio De Luca e probabilmente nella lettera a Nelson, il Trowbridge a lui fa riferimento chiamandolo D’Albarena e  non al nostro Alberini, come volle far intendere il d’Ayala. D’altra parte, come lo stesso storico, sottolineava nella sua ricostruzione, la prima a gettare dei dubbi sulla morte dell’Alberini fu la Pimentel Fonseca quando al ritrovamento di quel corpo sulla spiaggia di Miliscola concluse con un :  E’ probabile che si erri nella persona.

Tra le varie testimonianze ci fu chi  disse di aver visto il Commissario nascondersi nella cantina di un amico, chi di aver assistito all’arresto, chi di averlo visto ascendere al patibolo il primo giugno, e chi addirittura lo fece passare per un traditore della Patria che codardamente era riuscito a scappar via rinnegandoli tutti. Insomma, tante sono state le ipotesi sorte intorno alla morte del nostro Commissario della Repubblica che ancora oggi viene citato erroneamente come Alberino con un’età incerta che varia tra i 21 ed i 31 anni.

Tra le tante congetture anche la nostra storia ci ha permesso di ipotizzare un epilogo diverso e di narrare la sua impresa non poco significativa e per la quale, oltre ogni dubbio, ha meritato oltre di essere tra gli eroi della Repubblica Napoletana del 1799.

 

 

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