Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La donna a Napoli nel Settecento

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Antonio Illibato

 

Fino all’ultimo trentennio del secolo XVIII, lo Stato non aveva mai ritenuto suo dovere dare l’istruzione ai propri sudditi particolarmente alle donne.

La classe politica dirigente, almeno nella pratica, era lo specchio fedele delle idee del tempo, secondo cui era inutile dare l’istruzione alla donna  che era destinata a muoversi in un ambito molto ristretto: le mura domestiche o del monastero. Di qui la conseguenza dell’analfabetismo della quasi totalità delle donne di umile condizione e del più modesto livello culturale della stragrande maggioranza delle donne di condizione nobile e civile.

Se, quindi, fra gli esponenti del sesso maschile c’era lo stacco enorme tra l’alta cultura dei pochi e l’ignoranza delle masse, nel mondo femminile regnavano sovrani analfabetismo e ignoranza.

Anche fra le donne di considerevole condizione sociale era cosa rara trovare la cultura nelle sue forme più elevate, dato che per le nobildonne napoletane la cultura costituiva abitualmente più un fatto di vuota mondanità che un elevato e sereno luogo dello spirito: il che non poteva essere altrimenti data l’educazione e l’istruzione ricevute nei monasteri e, in alcuni casi, tra le pareti domestiche dalle cosiddette governanti.

In un tale contesto appare chiara l’eccezione rappresentata da una figura femminile del tutto rivoluzionaria per l’epoca, quale fu quella di Eleonora de Fonseca Pimentel, con la sua cultura illuminata e progressista che la rese l’emblema della donna indipendente,  libera dagli orpelli morali e sociali del suo tempo.

Se la carenza di cultura dava luogo, nelle classi più elevate, all’ozio elegante e parassitario e a una soverchia, se non inutile, cura dei rapporti sociali, fra i mento abbienti, invece, l’analfabetismo e l’assenza di ogni alito vivificatore produceva veri fenomeni di degradazione morale.

Le precarie condizioni economiche da una parte, e il disinteresse dello Stato dall’altra, mettevano non poche ragazze povere nell’impossibilità di formarsi una famiglia.

A Napoli la consuetudine dei “maritaggi” ebbe, per tanto,  il grande merito di permettere alle classi più diseredate di formarsi un proprio nucleo familiare.

Se qualche volta le autorità pubbliche, per porre un argine alle deleterie conseguenze della miseria, che nei ceti popolari era spesso cattiva consigliera e talvolta minacciava di mettere in forse finanche la stabilità politica del regime borbonico, erogavano maritaggi o altre provvidenze, furono però le organizzazioni religiose e i privati a creare una vasta rete di istituzioni benefiche per l’educazione e la sistemazione nel matrimonio o per la redenzione sociale delle giovani donne prive di mezzi.

Sono eloquenti i processi di canonizzazione conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Napoli. La beneficenza era fatta non solo dai santi, ma anche da quanti subivano il loro influsso: dalle dame della nobiltà alle bizzoche figlie del popolo, dai ricchi pietosi dei miseri agli usurai convertiti, da preti e frati poverissimi, ma generosi, ai piccoli bottegai e artigiani.

Tutto questo divenne causa di crescente miseria perché favorì l’inerzia delle autorità preposte;  però è anche indubbia prova dei nobili sentimenti dei napoletani verso gli umili. La religiosità dei napoletani del’600 e ‘700 poteva anche essere, come spesso era,  “esteriore, superstiziosa e pinzochera” per stare alle espressioni di Benedetto Croce,  ma “anche quel costume aveva il suo vantaggio e il suo lato positivo, e adempiva a fini morali più spesso che non paia a chi lo misura con la misura di una diversa civiltà. Banchi, monti di pegni, ospedali, ricoveri per mendici, monasteri per pentite, e simili istituzioni, quali allora sorsero in gran copia, si dovettero alla religiosità del tempo, quale che ne fosse la forma”.(1)

I conservatori e i ritiri furono le istituzioni di maggiore spicco della storia sociale religiosa napoletana in epoca moderna. Ciò, però, non vuol dire che questi istituti risorsero tutti i gravi e numerosi problemi connessi alla precaria condizione femminile. Tra l’altro, il numero degli istituti fu sempre inferiore ai bisogni, anche perché non pochi di essi preferirono accogliere monache e converse anzicchè educande.

L’educazione impartita in questi istituti era rigorosamente monacale. A Napoli fu costante la tendenza a trasformare le educande in monache, e i conservatori in monasteri. L’istruzione non andava oltre l’apprendimento delle arti donnesche e della Dottrina Cristiana.

L’espulsione dei gesuiti che aveva privato il regno delle poche strutture scolastiche segnò una svolta importante nella seconda metà del Settecento. Lo Stato, pur se lentamente e tra enormi difficoltà,  cominciò a porsi il problema dell’istituzione scolastica, cercando di istituire delle scuole ‘normali’ accessibili anche alle classi sociali meno abbienti, un provvedimento, questo, che avrebbe rappresentato un fatto di notevole portata sociale se Ferdinando IV di Borbone fosse uscito dagli schemi dell’assolutismo, cosa che, però,  mai fece. Le difficoltà economiche, i timori di carattere politico e la scarsa fiducia della classe politica dirigente nella bontà della causa, non permisero alle scuole normali di avere vita lunga. Particolarmente le scuole femminili furono le più colpite dai rivolgimenti politici dell’ultimo decennio del secolo e dai  pregiudizi di carattere sociale, che era impossibile scrollarsi di dosso in pochi anni.

 

 

Bibliografia e nota

Antonio Illibato, La donna a Napoli nel Settecento, Napoli 1985, pp.103-110

(1) Benedetto Croce, Storia del regno di Napoli, Milano, 1925, p.129

 

 

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