Procida 1799. Cap. XIII "La battaglia di Procida"
E mentre il massacro si perpetrava, la notizia era giunta a Napoli. Sul numero sedici del Monitore del 2 aprile in poche righe era stato reso noto l’avvistamento di quattro vascelli e tre fregate inglesi ancorate a Procida, con la supposizione di essere imbarcazioni fuggite da Livorno che, per mancanza di vento, erano state obbligate ad entrare nel Golfo. Sui numeri seguenti le notizie giunsero via via più precise: si disse della cattura dei rappresentanti del Governo e di altri cittadini, l’intervento del generale francese Macdonald presso il Comandante inglese Troubridge, minacce e trattative sul rilascio dei prigionieri, e la partenza dell’Ammiraglio Francesco Caracciolo con diverse barche cannoniere di osservazione. Il 18 maggio la Pimentel riportava la notizia di un tentativo di riconquista dell’isola da parte dei repubblicani per effetto di un’azione dell’Ammiraglio Caracciolo che era partito con altri patrioti alla volta di Procida con due galeotte, otto cannoniere, sei bombardiere e vari feluconi. La spedizione era stata organizzata in seguito allontanamento di alcune navi inglesi dall’isola. In effetti l’allontanamento avvenne non per una ritirata degli inglesi, ma quando Vincenzo Speciale, a processi conclusi, tornò per affari suoi a Palermo e per la sconsacrazione dei tre sacerdoti a Cefalù. La notizia dell’allontanamento delle navi , scrisse la Pimentel, era giunta a Napoli tramite una misteriosa persona che era riuscita ad arrivare da Procida. Chi? Non si seppe mai.
L’Ammiraglio Francesco Caracciolo giunse sull’isola tentando di portare il suo tanto sospirato aiuto solo a metà maggio, dopo oltre un mese e mezzo da che era stata presa dai Borboni, ed il porto di Marina Grande era ancora popolato da fregate e corvette inglesi nelle cui stive i prigionieri allo stremo, pativano torture infernali. Seppur inferiori di numero, i patrioti repubblicani comandati dall’Ammiraglio riuscirono a fare fuoco ed a far ricadere delle bombe sulle imbarcazioni nemiche. Al grido di Viva la Repubblica, Viva la Libertà, riuscirono a rompere gli alberi della fregata, ma gli inglesi risposero da terra provocando ingenti danni anche alla flotta repubblicana. Caracciolo fu costretto a tornare a Napoli con cinque morti e tre feriti. I nostri patrioti prigionieri, oramai tramortiti, vissero ore di trepidazione: si aggrapparono a quello spiraglio di luce sperando e pregando con tutta l’anima, si illusero che quell’incubo stava per finire e finalmente sarebbero potuti tornare liberi. E invece no! Dopo una estenuante battaglia sentirono le navi di Caracciolo allontanarsi e l’inesorabile morte farsi più vicina. Il tentativo di riconquista dell’isola da parte dei repubblicani passò alla storia come una impresa eroica: Vincenzo Cuoco, nel suo Saggio Storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, con queste testuali parole lo descrisse: -Caracciolo valeva una flotta. Con pochi, mal atti e mal serviti barconi, Caracciolo osò affrontar gli inglesi: l’officialità di marina, tutta la marineria era degna di secondar Caracciolo. Si attacca, si dura in un combattimento ineguale per molte ore; la vittoria si era dichiarata finalmente per noi, che pure eravamo i più deboli; ma il vento viene a strapparcela dalle mani nel punto della decisione e Caracciolo è costretto a ritirarsi lasciando gli inglesi malconci, e si potrebbe dire anche vinti se l’unico scopo della vittoria non fosse stato quello di guadagnar Procida. Un altro momento, e Procida forse sarebbe stata occupata. Quante grandi battaglie, che sugli immensi campi del mare han deciso della sorte degli Imperi, non si possono paragonare a questa picciola azione per l’intelligenza e pel coraggio dei combattenti! Il vento che impedì la riconquista di Procida fu un vero male per noi, perché tratanto i pericoli della Patria si accrebbero. Le disgrazie diluviavano: dopo due o tre giorni si ebbero altri mali a riparare, più urgenti di Procida; e la nostra non divisibile marina fu costretta a difendere il cratere della Capitale.
Il ministro della guerra Gabriele Manthonè cercò allora di organizzare un estremo tentativo di attacco dalle spiagge vicine di Miliscola e Pozzuoli. Palpitante di amor di Patria la sua lettera a tutti i rappresentanti della Marina: -Cittadini. Voi sentite il sacro fuoco della Libertà. Voi lo sviluppate contro il più scellerato de’ nostri nemici l’Inglese. Egli fa la guerra; ma quella dell’inganno e del tradimento. Marinai scuotetevi contro costoro. Gli inglesi fanno la guerra contro il popolo e contro i suoi diritti: rinfacciategli che la guerra si fa con le armi, e contro le armi, non già con la frode. Mostrate nel vostro coraggio l’orrore per i loro misfatti, la pietà per quegli infelici che essi trascinano alle stragi…Inglesi… l’ora del disinganno suona tra il Popolo Napoletano… Conoscerà la perfidia che vi guida, i disastri che provocate contro degli infelici, vi maledirà…vi aborrirà, volerà infine, raccolto in massa a farvi espiare con la morte la serie mostruoso dei vostri delitti. Si: sarete una volta conosciuti e puniti: Viva il Popolo Napoletano. (Napoli 30 Fiorile.anno 7 della Libertà).
Ma anche questo tentativo risultò vano. Nonostante l’ardente amor di Patria, dalle spiagge vicine i patrioti altro non poterono fare che osservare il nemico mentre riparava velocemente i danni subiti alle imbarcazioni e si fortificava tirando a terra un’altra cannoniera. A nulla servirono i propositi di vendetta. Il primo giugno la Repubblica Napoletana santificò i suoi primi eroi. Il patibolo fu eretto nella piazza di Santa Maria delle Grazie, nello stesso luogo in cui i patrioti avevano piantato il loro albero della libertà, dove era nato l’amore tra Bernardo ed Aurora ed in cui la storia, quasi un secolo dopo, avrebbe immortalato la loro memoria su un cenotafio. Dopo due mesi di catene e torture ascesero al patibolo: Vincenzo Assante, Francesco Buonocore, Giuseppe Cacace, Andrea Florentino, Salvatore Schiano, Onofrio Schiavo, Francesco Feola, Giacinto Calise, Cesare Albano di Spaccone, Michele Costagliola, Michele Ciampriamo, Leopoldo D’Alessandro. I condannati giunsero alla forca incatenati, trascinandosi a stenti l’un l’altro, ed al loro seguito uno stuolo di sgherri, marinai e preti. L’efferato Speciale mantenne la sua perversa promessa. I familiari furono costretti a presenziare e ad indossare abiti a festa come tutto il folto pubblico che accorse ad assistere al macabro spettacolo. Il tripudio doveva essere grande. L’ignoranza e la tirannia avevano vinto sull’intellighentia, la democrazia e la libertà! Le urla delle mogli dei condannati si udirono per tutta l’isola. La moglie di Buonocore, dopo che anche Napoli fu presa, fu rinchiusa nelle carceri della Vicaria ed ebbe compagna di cella Luisa Sanfelice. Dopo due mesi partorì una bambina già morta, tutti i beni furono confiscati e la vendetta del Borbone perseguitò la sua famiglia per generazioni. I sacerdoti Antonio Scialoja, Niccolò Lubrano ed Antonio De Luca, furono mandati in Sicilia per essere spogliati dell’abito. Tornarono il 15 giugno; il capestro fu lasciato nella piazza ad attenderli. Anche per Scialoja, Vincenzo Speciale non fece sconti. Furono obbligati ad essere spettatori alla sua esecuzione tutti i parenti, bambini compresi. E fu in quell’occasione che la sorella di Antonio, Teresa, maledisse pubblicamente quel giudice infame, pregando Dio affinché lo facesse morire dannato coperto dai suoi stessi escrementi, maledizione che si rivelò presto profezia per la fine drammatica che ebbe questo mostro umano pochi anni dopo. Il martiri della libertà di Procida furono tutti seppelliti nella vicina chiesa di Santa Maria delle Grazie. Il 13 giugno Napoli fu presa dalla truppe sanfediste comandate dal cardinale Fabrizio Ruffo. Il tiranno Borbone tornava trionfante nel suo regno intriso di sangue, tra le grida festose del suo fedele popolo di lazzari e adepti. Si spegneva il sogno repubblicano, si mettevano a tacere con la morte quegli spiriti elevati che avevano osato credere nella libertà e nell’uguaglianza, coloro che avrebbero voluto rendere cittadini una nobiltà parassita e popolo una plebe incolta, abituata a vivere di elemosine ed espedienti, incapace di comprendere il senso della libertà, quale diritto legittimo di ogni democrazia. La reazione borbonica fu efferata: non solo furono condannati al patibolo tutti i rappresentanti del Governo repubblicano e i cittadini che avevano collaborato, ma fu condannata a morte la memoria di essi e di tutti gli avvenimenti. Processi, documenti, ritratti, tutto fu dato alle fiamme, qualunque cosa potesse riportarli alla storia. Assetati di sangue, accecati dalla smania di vendetta, i Borboni non compresero quanto quella strage avrebbe segnato l’inizio della loro fine e la nascita, nel cuore di chi la Patria l’amava, di idee che nessun esercito avrebbe potuto vincere. Un cono di luce sarebbe riapparso dall’oscurità: la storia avrebbe vinto glorificando i suoi martiri.
Procida 1799. La rinascita degli eroi. Introduzione di Renata De Lorenzo Procida 1799. Cap. I "Un destino segnato" Procida 1799. Cap. II "La luce dell'Aurora" Procida 1799. Cap.III "Il dolce soffio della Libertà" Procida 1799. Cap.IV "Luci ed ombre della Repubblica" Procida 1799. Cap. V “Un posto nella storia” Procida 1799. Cap. VI "Isole nel vento rivoluzionario'' Procida 1799. Cap. VII "Verso Napoli nella tempesta" Procida 1799. Cap. VIII "Signora Libertà" Procida 1799. Cap.IX "La sommossa dei realisti" Procida 1799. Cap.X "Amari presagi" Procida 1799. Cap. XI "E venne marzo" Procida 1799. Cap. XII "La fine del sogno repubblicano"
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