Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Procida 1799. Cap. VII "Verso Napoli nella tempesta"

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All’alba Giacinto era già al porto a bordo di una barca a vela  con altri marinai pronti a tirare su gli ormeggi,

Bernardo e don Antonio si incontrarono per strada, infreddoliti e con la preoccupazione scolpita sul volto.

-Non avete una bella cera Bernardo, direi che non avete proprio dormito stanotte.

-Si, non sono riuscito a chiudere occhio. Mi sento trepidare al pensiero che da un momento all’altro possiamo essere attaccati. Vorrei poter fortificare la difesa dell’isola e fare qualcosa per metterci al riparo, ma non so cosa…

-Intanto andiamo a Napoli e speriamo di farci ascoltare. Il Generale francese Macdonald  potrebbe mandarci un presidio di guardie francesi.

-Macdonald? Sinceramente dubito che muoverà un dito. Stanno già raccattando armi e bagagli.

-Ma allora anche Napoli si ritroverà nella nostra situazione?!

-Si, e sarà la fine! Non abbiamo un esercito nostro su cui contare. Ettore Carafa per partire alla conquista dell’Abbruzzo e della Puglia ha organizzato la sua legione con gli uomini che avevamo sul territorio, oltre ai francesi ed altri soldati che lo hanno seguito dal nord. Quando è scappato da Castel Sant’Elmo è riuscito ad entrare in contatto con i rappresentanti della Repubblica Cisalpina ed ha avuto tempo per reclutare aiuti.  Noi non abbiamo nessuno!  In tutta Procida siamo un pugno di uomini!

-Noi siamo un’isoletta, Bernardo, piccola ma strategica per il Borbone. Se riuscirà a riconquistarla riconquisterà anche Napoli.

-Questo è sicuro, ma a Napoli lo hanno compreso?

-Se non lo hanno ancora fatto toccherà a noi farglielo capire!

-Andiamo, vedo Calise già pronto a tirare su l’ancora!

Salparono da Procida che stava facendo giorno, seguiti dal verso dei gabbiani ed i primi raggi di un tiepido sole; il tempo prometteva bene, il mare ondeggiava lento ed il vento era dalla loro  parte.

Durante il viaggio non fecero altro che discutere di ciò che era stato e di ciò che si presagiva. Verso mezzogiorno Calise tirò fuori da un cesto una grossa forma di pane, del formaggio, un vaso di  coccio colmo di alici marinate, un fiasco di vino e qualche brocca. Consumarono quel pasto veloce tra una congettura e l’altra, mentre Napoli si avvicinava all’orizzonte.

Giunsero al porto nella tardissima mattinata: il tricolore della Repubblica Napoletana sventolava su Castel Nuovo e Castel Sant’Elmo, che dall’alto della collina troneggiava  austero con tutta la capitale ai suoi piedi.

La darsena era popolata dalla flotta dell’Ammiraglio Caracciolo, velieri e barche da pesca, le banchine brulicavano di marinai, scaricatori, commercianti e lazzari mendicanti. Come attraccarono al molo furono investiti da sguardi curiosi, scrutanti, finché si avvicinò un soldato francese ed Alberini si fece riconoscere quale rappresentante del Governo.

-Commissario, ci vediamo qui prima di sera! – fece Calise mentre lui si apprestava ad allontanarsi con don Antonio.

-Non volete venire con noi?

-Preferirei farmi un giro per i quartieri e sentire un po’ che aria tira. – rispose il marinaio con fare d’intesa.

-Si, è meglio, mi sembra una buona idea. Ci vediamo qui più tardi! –ammiccò Bernardo, percependo il sottaciuto intento e si allontanò con Scialoja.

-Cosa ha intenzione di fare Calise?

-Quello che ha detto.  Conosce i rappresentanti del popolo e va a farli visita.

-Ah, ora capisco quella vostra ammiccata!

-Ha evitato di fare nomi, ma ci siamo intesi al volo. Qui ci sono orecchie dappertutto!

-Bello avere dei collaboratori così affiatati!

-Si, Calise è una brava persona. Se fossero stati così tutti i marinai di Procida a quest’ora non avevamo proprio nulla da temere, ma purtroppo è proprio tra loro che si stanno annidando i peggiori nemici. La facilità con cui si muovono da un porto all’altro poteva essere il nostro punto di forza e invece sta divenendo la nostra debolezza.

-Cosa intendete dire?

-Ho la sensazione che la rissa che è scoppiata ieri in quell’osteria non sia stata causata da un semplice gioco di carte ed una sbronza. Penso ci sia dell’altro.

-Dell’altro? E cosa?

-Non lo so,  ma nello sguardo di quel marinaio ubriaco ho avvertito dell’odio puro, un sottaciuto proposito di vendetta.

Scialoja aggrottò la fronte  angustiato e continuò a seguirlo meditando su quelle parole.

Erano giunti intanto al largo del Castello, quando per un soffio non furono investiti  da un’orda di forsennati in preda ad un’ira vendicativa: alcuni venivano trascinati con forza dai soldati francesi tra urla ed epiteti, donne imbestialite si strappavano i capelli inveendo contro il Governo, pochi coraggiosi assecondavano l’accaduto controbattendo a gran voce: - A morte i traditori! Viva la Repubblica!

-Cosa è successo? – chiese Alberini ad uno degli astanti che gli apparve  meno coinvolto.

-Sono stati appena fucilati quattro realisti. Avevano congiurato contro il Governo!

-Li hanno fucilati? – richiese sbigottito il Commissario.

-Si, e mica solo loro! L’altro giorno il Commissario di polizia Vincenzo Lupo ha sparato ad un prete perché nel vederlo passare gli aveva gridato Viva il re!

-Ma ne siete sicuro?

-Certo che ne sono sicuro! Scusate ma voi da dove venite? Siamo in guerra qui, non lo sapete? I repubblicani odiano i realisti ed i realisti odiano i repubblicani e tutti i giorni sono si contano morti e feriti! Ma non siete di qua?

-Si, ma mancavamo da un po’… grazie! – fece il Commissario, congedandosi risoluto.

-Dio benedetto! – esclamò Scialoja allibito– Ma questo è un inferno!

-Sono esterrefatto anch’io, non immaginavo una simile baraonda!  Ma adesso cerchiamo di entrare a Castel Nuovo.

Non fu un’impresa facile; il castello era presidiato dalle guardie francesi che si affaticavano dentro e fuori a disperdere la folla accorsa per le esecuzioni. Impiegarono oltre mezz’ora per farsi riconoscere quali rappresentanti del Governo ma, finalmente, dopo mille peripezie, riuscirono ad incrociare la marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel  sulla soglia della sala dei Baroni;  aveva una lunga veste scura ed i capelli corti, mossi ed un po’ ingrigiti,  frenati sulla fronte da un nastro nero.

-Donna Eleonora….donna Eleonora!

-Commissario Alberini, don Antonio Scialoja, come mai qui?

-Abbiamo urgenza di parlare con voi e l’Ammiraglio Caracciolo! – fece  Alberini, raggiungendola a passo svelto.

-Cosa è successo?

-Notizie preoccupanti! Le ha ricevute il Comandante Buonocore ad Ischia e sono stato incaricato di comunicarvele al più presto.

-Certo, venite,  faccio chiamare subito l’Ammiraglio.

Nel giro di pochi minuti Francesco Caracciolo si presentò in sala con passo deciso e stazza imponente nella sua divisa fregiata. I convenevoli furono brevi, Alberini passò subito all’esposizione dei fatti e la richiesta di aiuto.

-Questa è una notizia terribile! – commentò allarmata la marchesa, mentre Caracciolo rimase qualche attimo in raccoglimento, cupo e perplesso – Bisogna intervenire subito, Procida rappresenta un punto strategico e se riusciranno a prenderla li avremo a due passi da noi!

-Organizzerò delle navi d’osservazione! – decretò Caracciolo e concluse perentorio e laconico – Per ora non possiamo fare altro! Le truppe francesi a breve ci lasceranno e quindi non possiamo chiedere al Generale Macdonald  di mandare a Procida un loro presidio. Mi dispiace Commissario, vorrei poter fare di più, ma da come potete vedere, anche qui la situazione è precaria. I seguaci del tiranno ci stanno congiurando contro e fra non molto anche noi saremo sprovvisti di uomini. Napoli dobbiamo difendercela da soli e siamo un numero esiguo di patrioti, manchiamo di munizioni e la mia flotta che è anche un po’ malconcia. Useremo le armi che ci sono rimaste ed interverremo qualora verrete attaccati, ma non possiamo far guerra alla flotta anglo-borbonica lontano dalle nostre coste, sarebbe un suicidio per tutti noi.  L’unico consiglio che posso darvi è di reclutare più patrioti procidani e costituire una maggiore difesa interna all’isola. Noi non possiamo offrirvi niente di più!

Detto questo, batté i tacchi e si congedò, lasciando la marchesa col volto afflitto e i due sprofondati nel silenzio più desolante.

-Coraggio Bernardo, non vi avvilite! Abbiamo fatto tanto per la nostra Repubblica e troveremo i mezzi per difenderla. Non vi avvilite! – provò a rassicurarlo Eleonora, mentre don Antonio gli stringeva un braccio per scuoterlo.

-Non è facile sentirsi abbandonati a se stessi, cara marchesa… Non appena siamo arrivati alla darsena ci siamo resi conto da noi delle difficoltà che state vivendo. La situazione nelle isole apparentemente è più calma, ma l’acqua cheta fa paura! Tra Procida ed Ischia siamo poco più di trecento patrioti. Tutti gli altri stanno in silenzio, aspettano e tramano!– commentò Scialoja.

-Si, posso immaginare, e vorrei fare qualcosa in più. Io combatto con la mia penna e cerco di fare il mio lavoro con passione e spirito patriottico e, credetemi, dare delle notizie così poco rassicuranti non è facile, soprattutto quando sapete che queste giungeranno ai nostri fratelli che stanno combattendo nelle province armati d’amor di Patria, ed a quelli che invece sperano nella nostra fine! Stiamo combattendo tutti,  e tutti continueremo a farlo finché avremo la forza e la sorte non ci sarà avversa!

-Su questo non ci sono dubbi! – Fece Bernardo riprendendosi duro a denti e pugni stretti. - Io combatterò fino a quando non cadrò sul campo o sul patibolo. Ho giurato fedeltà alla Repubblica e mai mi tirerò indietro!

-E io nemmeno! –  Ribadì di impulso Scialoja – Costi quel che costi!

-Siete dei patrioti valorosi e un giorno la storia vi ricompenserà! La storia Patria non dimentica i suoi figli, coloro che hanno dato se stessi per amor suo! Potranno ucciderci tutti, ma non potranno cancellarci dalla memoria dei posteri. Un giorno gioverà ricordare tutto questo!  E quel giorno sapremo che il nostro sacrificio non è stato vano. Gli uomini liberi verranno a liberarci dalle tenebre del tiranno, ritroveremo luce e  tutto il mondo saprà chi è stato il Borbone e quanto gloriosa è stata la nostra impresa. Io morirò con questa fede! La mia arma è la penna ed a lei affiderò la grande speranza di far sopravvivere la memoria di tutti noi! – fece solenne Eleonora, e concluse  accennando un amaro  sorriso – Con tutto il mio cuore, vi sarò sempre vicina!

Si abbracciarono forte, consapevoli nell’anima loro che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Fuori dal Castello don Antonio e Bernardo si divisero.

-Prima di tornare a Procida vorrei approfittarne per fare visita a mio cugino Marcello Eusebio  Scotti. Volete venire con me?

-No, don Antonio, perdonatemi. Sono a due passi dalla casa dei miei genitori, manco da tanto tempo e vorrei passare a salutarli.

-Giusto, ragazzo mio, andate e tranquillizzateli. Sicuramente saranno in pena per voi. Ci vediamo più tardi giù alla darsena.

Si divisero in prossimità del castello. Con andatura svelta ed esperta del luogo,  Bernardo si inoltrò in un groviglio di vicoletti, grigi e stretti, brulicanti di lazzari dalla cera bieca che lo scrutavano da capo a piedi. Donne dai corpi sfatti, abbrutite dalla miseria e dall’ignoranza, sedevano in prossimità di bassifondi,  intente a pulire verdure, altre stendevano cenci sudici e rattoppati, berciando e sollevando di tanto in tanto sguaiati epiteti seguiti da risate grasse. Odori nauseabondi di cibi cotti e sporcizia esalavano dalle loro topaie,  animate da un movimento convulso di bambini scalzi e anneriti che si rincorrevano sguazzando tra  pozzanghere e immondizie, richiamati di continuo dalle grida animalesche delle madri o di qualche viandante.

Niente di nuovo agli occhi di Bernardo. Passò dinanzi a quello scenario pietoso con estrema indifferenza, preso dai suoi pensieri. Giunto al vicolo Dei tre Cannelli, poco distante da Porta di Massa, si addentrò in un palazzotto ben curato, adornato di piante e da una fontanina di marmo.

-Signorino Bernardo! Ma che bella sorpresa! – esclamò un’anziana domestica nel vederlo comparire sulla soglia.

-Buongiorno Assunta, come state?

-Non mi lamento, si tira avanti, ma voi, piuttosto vi vedo pallido e sciupato! E’ da tanto che mancate da casa. Saranno sicuramente felici i vostri genitori.  Venite, stanno di là nel salone.

Avevano perso calore quelle pareti domestiche tra le quali era nato e divenuto un uomo, o forse era il suo animo che si era indurito da quando le aveva lasciate. Non provò alcuna nostalgia nel ritrovarle immutate, statiche e non trasparì alcuna emozione dai suoi occhi nello scorgere l’anziano padre, seduto alla scrivania dai fregi dorati, seppellito  imperturbabile tra le sue carte, avvolto in una lunga marsina da camera verde ed un fazzoletto bianco annodato al collo, e la madre intenta a ricamare davanti al camino, con la solita veste scura e castigata, i capelli grigi raccolti in una cuffia merlettata.

-Oh,  ma quale onore, la nostra pecora nera è tornata all’ovile! – sbottò il vetusto genitore nel vederselo davanti,  senza lasciar trapelare alcun moto d’affetto. La madre, invece, ebbe uno slancio di gioia e  sorridente si levò  acciaccata dalla poltrona e gli andò incontro a braccia aperte con passo arrugginito.

-Bernardo, figlio mio, quanto sono felice di rivederti!

-Come state mamma?

-Con i miei soliti dolori alla schiena, ma tu piuttosto…. Ti vedo così pallido e trasandato!

-Mah,  io sto bene!

-Eh, già… - commentò il padre, sprezzante e provocatorio – lui si sente bene perché fare il Commissario della Repubblica dei giacobini lo fa sentire un eroe!

-Sono venuto giusto a salutarvi e non per ricevere i vostri soliti  sermoni, padre!

-Se aveste ascoltato i miei sermoni a quest’ora stavate facendo una vita serena e tranquilla!  Ma non vedete come vi siete ridotto? Siete bianco come un cencio, cagionevole, gli occhi di un folle! Pensate che sia bello per me e vostra madre vedervi  in questo stato?

-Ho fatto una scelta e la rifarei altre mille volte se fosse necessario!

-Voi avete fatto una scelta da folle, voi come quegli altri poveri illusi che sperano di continuare con questo sogno rivoluzionario! Figli come voi hanno sconvolto le migliori famiglie di Napoli: i Carafa, i Serra, i Pignatelli, i Colonna!  Pazzi, esaltati, altro non siete che degli illusi! Ed avete trascinato anche noi nelle vostre scelleratezze! Quando il re tornerà la sua vendetta si abbatterà su tutti noi! Voi finirete sul patibolo e noi nelle miserie più nere!

-Potete sempre rinnegarmi, padre, non siete obbligato a sentirmi vostro figlio!

-Mio figlio.. mio figlio!!! Dov’è finito quel figlio che avevamo allevato con tanta dedizione, quel figlio che avevo fatto studiare legge e per il quale speravo una vita agiata, con una buona moglie al fianco?! Mi avete creato solo disagi e vergogna! Il barone De Simone vi aveva promesso in sposa sua figlia, e voi nemmeno vi siete degnato di andarvi a scusare con lui.

-E di cosa mi sarei dovuto scusare? Di un affare che voi due avevate concordato a tavolino, violando la volontà e la dignità di due persone? No, non avrei mai sposato quella donna senza provare alcun sentimento, non avrei mai potuto vivere accanto a qualcuno che mi era stato imposto e il mio cuore non aveva scelto. Mi dispiace, non so quale sangue scorra nelle mie vene, ma  è ben diverso dal vostro. Io sono nato libero e da uomo libero morirò!

-Voi siete nato pazzo! Pazzo! Pazzo!

-Basta! Smettetela di umiliarlo! – Gridò la madre, esausta ed in lacrime, ma l’anziano continuava:

-Solo un pazzo tira fuori la sciabola e si mette contro il re! Solo un pazzo si aggira di notte cospirando, imbrigliandosi in logge massoniche, frequentando salotti di donne perse! Quella marchesa de Fonseca che tanto ammirate e che si sta adoperando per la causa! Bell’esempio di donna! Non è stata capace di essere una buona moglie, ha chiesto un divorzio noncurante dell’onta vergognosa, ha trascinato in tribunale un marito devoto e…

-Un marito che la picchiava e la tradiva,  un marito che con le sue violenze l’aveva fatta abortire due volte, un marito che l’aveva ridotta a vivere nella miseria più nera dopo aver fatto vilipendio della sua dote!? Questo per voi significa essere un marito devoto? Queste per voi non sono delle buone ragioni per divorziare? La marchesa Eleonora in quando donna doveva subire, lasciarsi soffocare in silenzio, tacendo tutto pur di salvaguardare l’onore della famiglia! Il pazzo siete voi, anzi, peggio. I pazzi hanno qualcosa di geniale nel cervello! Voi non siete altro che un povero  servo del re e dei preconcetti che questa società bigotta e primitiva vi ha inculcato nei pensieri facendovi marcire l’anima!!!!!

-Non vi permetto di parlarmi così! Dovete portarmi rispetto, io sono vostro padre!

-No! Voi non siete più mio padre ed io non sono più vostro figlio!

-Basta! Vi prego, basta! – continuava a gridare la madre, piangendo disperata e ricurva su se stessa.

-Ero passato a salutarvi perché  non ci saranno altre occasioni di rivederci e, come al solito, mi avete riservato la vostra accoglienza calorosa! Ancora una volta ho sbagliato io, illudendomi di trovare in voi un  minimo di umanità, di affetto. Tenetevi il vostro amato re, diseredatemi, rinnegatemi, in questa casa non ci metterò mai più piede. Addio!

-No, Bernardo, ti prego, non te ne andare! – urlò lei singhiozzante cercando di rincorrerlo, ma l’impeto di lui fu irrefrenabile: girò le spalle e richiuse l’uscio con veemenza, lasciando l’attempata donna  ed anche la domestica in lacrime, ed il padre coi pugni stretti ed il volto rugoso contorto in una smorfia di rabbia.

 

 

Si ritrovò con Giacinto Calise e don Antonio Scialoja giù alla darsena all’ora stabilita. Aveva il volto addolorato, stanco, ma non proferì parola ai due su quanto era accaduto con la famiglia. Il sacerdote era tornato sereno dal suo incontro col cugino, Marcello Eusebio Scotti,  invece Calise appariva preoccupato.

Non appena tolsero l’ancora e  furono lontani dalla darsena il marinaio si aprì.

-Perché siete così agitato, Giacinto, cosa è successo?

-E’ la gente che mi fa innervosire, la gente di Napoli! Mi sono fatto un giro per Porta Capuana e il Mercato ed ho incontrato i due capi lazzari, Michele il pazzo e Pagliuchella. Mi hanno fatto mille domande, un vero e proprio interrogatorio, volevano sapere da me perché ero a Napoli, da chi ero andato e perché e per come… manco se Napoli fosse la loro! Purtroppo quella gente la legge se la girano e se la rivoltano a modo loro, ecco perché stiamo in mezzo ad una torre di babele, chi la dice cotta, chi la dice cruda. Quei due stanno lì a minacciare peggio di come facevano le guardie di Ferdinando e in certi quartieri il popolo non solo deve pagare le tasse al Governo, ma deve dare anche il resto  a loro. Si stanno annidando congiure dappertutto, c’è del losco in ogni angolo, sul viso di tutti. Ho dei presentimenti molto brutti.  Se a Procida siamo soli, qui i patrioti stanno peggio!

-Si, è la stessa cosa che mi ha riferito Marcello – intervenne don Antonio – le fucilazioni dei realisti hanno innescato una smania di vendetta diabolica. L’odio si sta radicando e salterà fuori non appena Ferdinando comparirà all’orizzonte.

-Bisogna convocare tutti i rappresentanti procidani– fece Alberini risoluto – non appena arriviamo sull’isola dobbiamo informarli su tutto ciò che sta succedendo. Non possiamo fare altro che seguire il consiglio di Caracciolo. Dobbiamo fortificarci tra noi, reclutare più gente. È l’unica possibilità che abbiamo per sopravvivere.

-Come se fosse facile – borbottò Calise – giù a Saint’ Co’ sto vedendo degli stani movimenti peggio che a Napoli. Quando mi incrociano mi evitano, mi guardano torvi. Stanno tramando qualcosa di grosso!

-Si, ho avuto anch’io questa sensazione e proprio per questo non dobbiamo abbassare la guardia. Potrebbero farci saltare tutti in aria da un momento all’altro. Domattina bisogna che andate ad Ischia ed informare il Comandante Buonocore.

-Ci vado senz’altro, Commissà, state senza pensiero.

Tra una parola e l’altra giunsero sull’isola che si era fatto buio,  stanchi, delusi e con la mente frastornata. Dopo aver  consumato un pasto veloce in un’osteria del porto, i tre si ritirarono al quartier generale ed a notte inoltrata  fu convocata un’assemblea straordinaria. Si presentarono tutti, avendo presagito spiacevoli notizie.

-Cittadini Rappresentanti, non voglio creare allarmismi, ma è mio dovere informarvi su quanto sta accadendo. Ieri mi è stato riferito ieri dal Comandante del castello d’Ischia, il Comandante Francesco Buonocore che da Palermo è giunta la notizia che Ferdinando ha trovato aiuto negli inglesi e nel cardinale Ruffo. L’Ammiraglio inglese Nelson sta preparando una flotta che potrebbe venire ad attaccarci per la fine di marzo. Stamane con Giacinto Calise e don Antonio Scialoja sono andato a Napoli ed ho personalmente informato l’Ammiraglio Caracciolo. Purtroppo anche loro versano in condizioni difficili per la mancanza di uomini e mezzi. Verranno in nostro aiuto qualora saremo attaccati, ma intanto dobbiamo aiutarci con ciò di cui disponiamo. Noi patrioti siamo un numero esiguo, è vero, ma questo non ci rende incapaci di difenderci. Pertanto, cerchiamo di non perderci d’animo e  rafforziamo la sorveglianza dappertutto. Bisogna reclutare altri uomini, cercare mezzi. Lo so che non è un’impresa facile, ma dobbiamo sforzarci. E’ nostro dovere difendere la  Repubblica e la libertà che abbiamo faticosamente conquistato e  per  la quale si sta versando tanto sangue. Cerchiamo di essere uniti e molto oculati. Ho ragione di credere che, specie tra i marinai, si stanno tramando colpi di mano. Vi prego, per questo di essere sempre molto cauti nell’esporvi e nel riferire prontamente al quartier generale qualsiasi informazione utile a scongiurare agguati. Questo è tutto!

Ci fu un brusio nella sala, volti angustiati, perplessi,  ma nessuno chiese la parola dopo Alberini; in fondo  non c’era nulla da aggiungere, era solo tempo di stare in guardia e di prepararsi al peggio.

Nel giro di pochi minuti si ritirarono tutti eccetto il buon padre Scialoja, suo fido consigliere ed amico,  che gli si avvicinò mettendogli calorosamente una mano sulla spalla.  

-Sarà una battaglia dura Bernardo….La Repubblica ci ha resi liberi, ma le responsabilità che pendono sulle nostre teste la stanno rendendo un fardello grave da sostenere.  Ferdinando su quest’isola aveva trovato una miniera d’oro e non rinuncerà a riconquistarla a costo di ammazzarci tutti impietosamente. Le nostre terre sono fertili, c’è abbondanza di ogni grazia di Dio, selvaggina, frutta, verdura, il mare è generoso, la lavorazione dell’oro che ci arrivava dalle Indie, per secoli ci ha reso ricchi, e lui di questa ricchezza se ne era appropriato e la rivuole. Infame, ingordo e scellerato! Investirà tutte le sue forze pur di rimettere le mani sull’ isola e sui nostri cadaveri. Mi chiedo come Dio possa permettere tanta cattiveria e come possa non bruciare il suo nome sulla bocca dei tanti  tiranni che se ne servono per sottomettere la povera gente. E adesso si è messo pure il cardinale Ruffo… Lui che dovrebbe essere un uomo di fede e di pace, lui che porta il crocifisso sul suo petto e  dovrebbe spendere una parola buona per la vita di tutti noi! Ma come si fanno ad usare Dio ed i Santi per permettere ad un carnefice di massacrarci tutti! Come può Dio acconsentire a tutto questo! E’ un’offesa al suo nome ed al genere umano. Ma siamo o non siamo  figli suoi?

-Chiedetelo al vostro Dio, padre Scialoja. Voi siete più vicino a lui che non io… io ho solo creduto e credo nella vita, nella libertà ed ora più che mai sono pronto a morire. Oramai la morte è mia parente, la sento addosso, sulla pelle, nei pensieri, ma non la temo, no… si nasce per morire ed io almeno non ho consumato inutilmente la mia vita, questo dono immenso che qualcuno o qualcosa mi ha fatto. Morirò da uomo libero, morirò con dei valori, con dignità e con coraggio.

-Avete tutte le vostre ragioni ed io, oramai, non sono più capace di consolare nessuno, nemmeno me stesso. Tanta crudeltà mi ha fatto già morire. Voglio solo sperare che la sofferenza purificherà le nostre anime! Ma ora non statevene qui a logorarvi i pensieri. Siete stanco e provato. Andate a ritemprarvi con qualche ora di sonno. Ne riparliamo domani. Se vi fa piacere vi aspetto per pranzo a casa mia!  

Bernardo accondiscese accennando un sorriso, ma tornato solo coi suoi pensieri  piombò in un cupo silenzio, assordante e minaccioso. Si distese sul letto con le braccia conserte,  ripassò le scene di quella lunga giornata: i volti di Caracciolo, Eleonora e quello indignato del padre, le lacrime delle due anziane…riudì l’eco della loro voce, i rimproveri assordanti, la desolanti parole dell’Ammiraglio, quelle confortevoli della marchesa,  poi tutto si confuse con le ombre chiare del sonno. Poche ore e  giunse l’alba di un nuovo giorno.

 

 

 

Procida 1799. La rinascita degli eroi. Introduzione di Renata De Lorenzo

Procida 1799. Cap. I "Un destino segnato"

Procida 1799. Cap. II "La luce dell'Aurora"

Procida 1799. Cap.III "Il dolce soffio della Libertà"

Procida 1799. Cap.IV "Luci ed ombre della Repubblica"

Procida 1799. Cap. V “Un posto nella storia”

Procida 1799. Cap. VI "Isole nel vento rivoluzionario''

 

 

 

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