Procida 1799. Cap. II "La luce dell'Aurora"
La libertà a Procida era durata poco più di due mesi, giusto il tempo di respirarne l’aria. Esiliato a Palermo il governatore del re, Michele De Curtis, il Governo Provvisorio della Repubblica aveva nominato ad amministrare l’isola personalità influenti e capaci, tra cui sacerdoti, uomini di legge e di cultura che, con spirito patriottico e mente aperta al grande cambiamento, avevano accettato l’incarico, pur consapevoli del grande rischio che un ritorno del dispotico Borbone avrebbe comportato. Libertà o morte, Repubblica o morte, era l’unico imperativo categorico a cui obbedivano, senza remore. Ai Borbone erano state molto care le isole del golfo, Procida in particolare. Antico feudo normanno, nel 1529 l’isola era stata concessa ad Alfonso d’Avalos che fece costruire uno splendido castello e fece ampliare l'Abbazia di San Michele. Durante la sua signoria, Procida fu colpita da continue invasioni barbariche e per cercare di difenderla furono costruite tre torri di avvistamento nelle località Cottimo, Chiaiolella e Punta Lingua. Fu proprio nel periodo di Innico d'Avalos, l'otto maggio del 1535 che avvenne la famosa apparizione di S. Michele: comparve nel cielo con una spada di fuoco fra le mani e mise in fuga i saraceni salvando i procidani. Il castello d'Avalos si ergeva apparentemente solitario dalla parete di tufo a picco sul mare, ma nascondeva dietro di sé il centro abitato della Terra Murata. Possedeva il doppio carattere di palazzo signorile e di fortezza: la facciata rivolta verso il mare rivelava la fortificazione, in modo da incutere timore a possibili invasori, mentre il lato a sud, aperto sulla piazza d'armi, rispondeva ad esigenze di rappresentanza e denotava un aspetto signorile. Nel 1735 Carlo di Borbone elesse Procida e l’annessa isoletta di Vivara a luogo preferito per la caccia e fece ristrutturare il castello, almeno negli interni. Solo nella prima metà dell’Ottocento sarebbe divenuto carcere borbonico che ne avrebbe segnato il declino e l’attuale stato di incuria. In quella fredda notte del 27 gennaio del 1799 il castello era un tripudio di luci: musica, canti e cori patriottici si levavano più forti delle onde tempestose che si infrangevano sulla scogliera ai piedi della maestosa fortezza. - Viva la Repubblica! Viva la libertà! - Siamo liberi infine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiamo pronunciare i sacri nomi di libertà e di uguaglianza, ed annunciarci alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; ai popoli liberi d'Italia e d'Europa, come loro degni confratelli! Era emozionata la marchesa Eleonora nel pronunciare il suo discorso anche a Procida. Con altri patrioti aveva affrontato il mare procelloso senza indugio, pur di raggiungere l’isola per la proclamazione del neonato Governo. Fu piantato l’albero della libertà nella piazza di Santa Maria delle Grazie, tra ceppi ardenti, balli e canti, che si consumavano sotto lo sguardo incredulo di alcuni silenziosi astanti, mentre altri se ne stavano riuniti a mormorare in capannelli, nell’aria un odore acre di fumo, fiaccole, vino e tanta esultanza. Era l’alba della Repubblica, un sogno che sarebbe durato poco più di due mesi, era la festa dei soli patrioti giacobini, il popolo faceva da sfondo, perplesso, spettatore arcigno e dissidente. L’impatto non era stato facile: all’arrivo dei repubblicani le fazioni borboniche avevano tentato la difesa dell’isola sostenendo il governatore De Curtis, ma i patrioti avevano avuto la meglio, riducendo il governatore in fuga verso Palermo, al seguito della corte borbonica, ed i dissidenti asserragliati nelle loro case a rimuginar vendette. - Ma chi sono sti patrioti? - Sono una zuppa di francesi e napoletani usciti pazzi! Si sono presi il regno di Ferdinando ed ora pure la nostra isola! - Ma io vedo tra loro i padri della nostra chiesa, don Antonio Scialoja, don Niccolò Lubrano e pure don Francesco Buonocore che era tanto amico del nostro re. Il diavolo…questa è opera del diavolo! - Si, solo il diavolo poteva fare questo. Guardate che sacrilegio. I nostri sacerdoti che si mettono a gridare con quei forestieri Viva la Repubblica, viva la libertà. E quelle femmine chi sono? - Qualcuna è arrivata da Napoli stasera, altre mogli e parenti di questi indemoniati che sembravano tanto onesti e fedeli al nostro re! - Chiudiamoci in casa! Non voglio nemmeno ascoltare quello che dicono. Cos’è sta libertà, cos’è sta Repubblica? Che Iddio protegga il nostro re e lo faccia tornare presto! Questa è la fine del mondo!! - Si…si è la fine del mondo! Hanno detto che pure San Gennaro si è fatto giacobino!!! - San Gennaro?? - Si, San Gennaro, è la verità! Ha fatto il miracolo davanti ai francesi. E’ un giacobino pure lui!!!!! - Ma allora stiamo rischiando di perdere pure a San Michele! Andiamo via! Chiudiamoci dentro! Ma il popolo non era l’unico dissidente, anzi, una fitta schiera di seguaci del re meditava vendette dietro le quinte: preti, possidenti, nobili che temevano di perdere i privilegi di cui avevano da sempre goduto. E con tanti nemici intorno la vita della neonata Repubblica certo non si annunciava facile, né lo fu per un sol giorno. Una figurina esile e sfuggevole aveva rapito lo sguardo del Commissario Bernardo Alberini da quando l’aveva scorta in piazza tra la folla: se ne stava solitaria in disparte osservando, accennando sorrisi, perdendosi sul volto di tutti come se ne volesse carpire i pensieri. Indossava degli abiti stravaganti e démodé, ma in quella notte di euforia nessuno l’avrebbe notata solo per questo. Bernardo, invece, ne era rimasto folgorato; seguiva ogni suo movimento cercando di capire chi fosse, se mai prima di allora l’avesse incontrata e più la osservava più non riusciva a distogliere lo sguardo, finché non lo colse anche lei. Fu un attimo e quell’attimo bastò per far sprigionare un incantesimo. Attirato come da una potente calamita le si avvicinò col suo bel personale alto, distinto, reso ancor più avvenente della divisa di Commissario della Repubblica nuova di zecca, verde e bianca, dalle spalline e galloni dorati e la fascia tricolore. - Siete la più bella stella di Procida! - Esordì lui facendosi vicino. Lei gli sorrise, ma nel chiarore della luna e i ceppi ardenti i suoi occhi visti ad un passo si rivelarono permeati di tristezza. - E’ una notte di gioia, siamo finalmente un popolo libero. Perché non siete felice? Come vi chiamate? - Aurora – rispose lei con un filo di voce. - Aurora…. Un nome incantevole! Ma ditemi, perché leggo tanta malinconia nei vostri splendidi occhi? Lei abbassò lo sguardo, ingoiando a fatica un amaro ed inconfessabile presagio, i capelli scuri e ondulati le incorniciavano il volto pallido. Trovò lentamente parole gradevoli. - Non sono triste, anzi, sono felice per quanto sta avvenendo. Questi giorni di gloria saranno immortali nei secoli a venire. - Perdonatemi allora, forse ho inteso male io e sono lieto di essermi sbagliato. E’ una notte troppo bella, sarà davvero memorabile per tutti noi, ed ora che vi ho incontrata per me lo sarà ancora di più. Siete di Procida? – e lei rispose evasiva. - Si… no, sto venendo da Napoli. Volevo festeggiare anch’io con tutti voi la proclamazione della Repubblica! - E su quale legno vi siete imbarcata? Non vi ho vista a bordo! - Sono qui già da qualche giorno attendendo il vostro arrivo. - E dove alloggiate? - In una locanda vicino al porto di Sent’ Co’ e voi? - Nel castello, abbiamo lì il nostro quartiere generale. Ditemi qualcosa di voi Aurora. Tanta curiosità di Bernardo conquistò un sorriso di lei; era lusingata dal suo interesse, traspariva dall’intensità dello sguardo, ma ciononostante quel velo di tristezza non accennava a cadere. - Cosa volete sapere? - Qualsiasi cosa…. cosa fate, in quale strada di Napoli vivete? - Abito più o meno al centro. - Conosco benissimo dove intendete. Dei miei parenti abitano a San Giovanni a Carbonara, io invece in una traversa a Porta di Massa. E poi? Ditemi, cosa fate? Oh, perdonate la mia curiosità, ma è così raro incontrare una donna come voi: sembrate uscita da un romanzo, avete un aspetto così… così etereo, così poco comune, oserei dire magico, e la curiosità mi divora. - Volete sapere cosa faccio? Beh, difficile da spiegare, diciamo che cerco di immortalare le grandi imprese e gli uomini che le compiono. - Immortalare? Allora siete un’artista, una pittrice? - In un certo senso…. - Siete enigmatica ed incantevole Aurora. Ditemi, quando posso rivedervi? - E voi siete fulmineo Commissario, nemmeno mi avete detto il vostro nome! - Perdonatemi….vi prego, perdonate la mia irruenza! Mi chiamo Bernardo, Bernardo Alberini. A Napoli lavoro come notaio, ma qui a Procida sono stato nominato Commissario del Governo Provvisorio. Allora? Quando posso rivedervi? Gli occhi turchini di Bernardo luccicavano come lapislazzuli, era impossibile resistere a quel volto angelico, luminoso e ad una personalità così esuberante. - Ci rivedremo presto. - Ditemi quando, vi prego, o penserò di aversi solo sognata. Ogni attimo lontano da voi per me sarà lungo un’eternità. Domani? - Quanta fretta! Non è vantaggioso correre il tempo, sapete? - Il quale locanda alloggiate? Vi aspetto domani giù a Marina Grande? - Certo che siete proprio testardo! E va bene, ci vediamo nel primo pomeriggio, ma qui, accanto all’albero della libertà. - Mi avete incantato, Aurora, e questa è stata la notte più bella della mia vita! Le prese dolcemente la mano e gliela baciò con delicato trasporto; era fredda, un po’ tremante, ma in quella notte di gennaio tutto era avvolto dal gelo, tranne il cuore dei patrioti.
Procida 1799. La rinascita degli eroi. Introduzione di Renata De Lorenzo Procida 1799. Cap. I "Un destino segnato"
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