Napoli 1799. Cap. XVIII - Caduta della Repubblica Napoletana

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Creato Giovedì, 10 Dicembre 2015 21:37
Ultima modifica il Giovedì, 10 Dicembre 2015 21:38
Pubblicato Giovedì, 10 Dicembre 2015 21:37
Scritto da Ciro Raia
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I destini della Repubblica Napoletana si incrociano, ancora una volta, con quelli della Francia.

Alla fine del mese di aprile del 1799 la Francia, infatti, vive momenti di difficoltà nell’alta Italia, dove è sconfitta dall’esercito austro-russo nella battaglia di Cassano d’Adda, in seguito alla quale perde anche le città di Milano, Modena e Reggio Emilia. Il Direttorio, perciò, vista la situazione, ordina al generale Macdonald di tenere concentrato il suo esercito ed essere pronto a partire per la Lombardia.

Intanto Macdonald, che, per preservare i suoi uomini dalle delizie e dai vizi della città di Napoli li ha spostati a Caserta, è costretto a combattere contro una legione inglese e cinquecento soldati del re Ferdinando, che insieme ai cittadini borboniani, si sono impadroniti della città di Castellammare. Siccome, poi, lo sbarco di Castellammare ha acceso focolai di insurrezione anche a Salerno, Vietri sul mare, Cava dei Tirreni, Gragnano, Lettere, Pagani e Nocera, il generale francese è costretto a ricorrere alle armi ed a sedare la rivolta nata in favore del re Borbone.

E’ l’ultimo intervento dei Francesi a sostegno della Repubblica Napoletana. Subito dopo, infatti, il generale Macdonald riunisce i governanti della città e dice: “Uno stato non può dirsi libero appieno se protetto da armi straniere. La finanza napoletana non può più mantenere l’esercito francese, e voi di questo non avete più bisogno o cittadini se la parte amante di libertà vorrà combattere le poche disgregate bande della santa fede.

 

Io lascio forti presidii a sant’Elmo, Capua e Gaeta e partirò col resto dell’esercito a rompere i nemici delle repubbliche scesi in Italia, confidando meno nella virtù delle armi loro che nelle discordie italiane o nelle sue lunghe pratiche di servitù. Io fo voti di felicità per la repubblica napoletana e riferirò al mio governo quanto sia degno di libertà il popolo napoletano;perché altro è popolo,altro è plebe;e questa sola non quello sotto le bandiere del tiranno combatte per il servaggio,pronta ella stessa a mutar fede come gente ingorda di guadagni e furti”.

Il 7 maggio 1799 l’esercito francese si mette in marcia verso l’alta Italia.

Appena i Francesi lasciano i territori della Repubblica, i governanti di Napoli con un manifesto si rivolgono al popolo: “Lo straniero che aborrivate è partito, noi siamo liberi e decisi di operare ad ogni costo il bene di tutti: i diritti feudali aboliti per legge lo saranno di fatto: nuovi codici informati al vero ed al giusto vi renderanno uguali innanzi ai magistrati, e tuteleranno con forme inviolabili l’onore, la roba e la vita dei cittadini. La religione, fonte di mitezza, di tolleranza e di morale, sarà osservata e rispettata nel vero senso con cui Cristo la dettava, onde divenga simbolo di amore fraterno, non segno di furibonde passioni; l’educazione pubblica sarà obbligatoria per tutti, gratuita e larga, onde il povero ed il ricco vi abbia accesso, ne approfitti, e possa pretendere agli impieghi ed alle cariche civili e militari che non più alla nascita, ma al merito saranno accordate, il commercio verrà favorito, l’industria protetta, l’agricoltura aiutata e ben diretta, l’onesta povertà troverà soccorsi e favori, la vecchiaia avrà gli asili e le cure, onde non più maledica la patria pel triste abbandono a cui vedesi condannata. Voi sceglierete i rappresentanti, i legislatori, i delegati della assoluta sovranità vostra; un magistrato di censura veglierà sul pubblico costume e sull’osservanza delle leggi. Voi sarete infine uomini e liberi padroni di voi medesimi, non più schiavi sottomessi al capriccio d’un despota ed agli sfrenati voleri dei suoi ministri, perciò noi vi consigliamo e vi preghiamo o cittadini di non più straziare la patria, ma di tornare tutti agli uffizj di pace ed al godimento dei beni che i cieli ci preparano. Non siamo noi tuttti figli della stessa terra?”.

Il manifesto è deriso dai nostalgici monarchici, mentre incontra il favore di quanti hanno creduto e credono nell’idea repubblicana. E specie nella città di Napoli un gran fervore di idee e di azioni repubblicane accomuna uomini e donne, intellettuali e gente semplice. Anche nei teatri ci sono rappresentazioni di opere che fanno riflettere sul tema della libertà ed infiammano i cuori e le menti di quanti riempiono le sale cittadine.[1]

Ma, purtroppo, arriva inattesa una ferale notizia: le truppe sanfediste hanno distrutto Altamura, un baluardo della democrazia. Ora la Repubblica Napoletana è in serio pericolo e col rischio che si combatta una guerra civile. Così alla fine di maggio la città di Napoli appare chiusa da ogni lato, dalla terra e dal mare. Il cardinale Ruffo continua la sua marcia di avvicinamento a Napoli; in città è ordinato l’armamento generale di tutta la classe borghese; le società patriottiche si armano e scelgono i propri ufficiali; Michele Marino e Antonio Avella propongono di armare ventimila lazzari, ma il governo - non fidandosi di tanti mercenari - ne arma solo duemila. Lo scontro non è più procrastinabile!

E lo scontro, cruento e feroce, avviene il 13 giugno 1799, il giorno in cui si festeggia “Sant’Antonio glorioso”. Per più giorni si fronteggiano sanfedisti e repubblicani, ma “la ferocia dei repubblicani calabresi, l’atto disperato di Vigliena, ed il coraggio smisurato dimostrato in tutti i fatti dei democratici, avevano dato molto da pensare a Ruffo: si era persuaso che senza molto sangue e forse lo sterminio di tutta la città, non avrebbe potuto riuscire a fine della sua impresa.

Il castel sant’Elmo avrebbe potuto, dominando Napoli, ruinarla da capo in fondo. Questo castello era per verità in mano dei Francesi e particolarnente del comandante Mégean, col quale il cardinale aveva avuto qualche pratica e sopra cui se ne viveva con molta sicurtà. Ma vi erano non pochi Napoletani, amatori della Repubblica, i quali uomini disperati essendo ed in caso disperato ritrovandosi, potevano facilmente fare qualche risoluzione molto pregiudiziale a Mégean medesimo e alla città. Oltre a ciò avevano i repubblicani in mano loro nei castelli i prossimi congiunti del cardinale, né poteva restar dubbio, stante la rabbia loro e le mortali ingiurie corse fra le due parti, che nell’ultimo furore non gli immolassero ove l’estremo dei tempi fosse arrivato”.

Forse è meglio negoziare la pace, un’idea incoraggiata anche dal generale d’artiglieria Oronzo Massa, strenuo difensore di castel sant’Elmo, che sostiene: “Siamo ancora padroni di queste mura, perché abbiamo incontro soldati non esperti, torme avventicce, un chierico per capo. Il mare, il porto, la darsena son del nemico; l’ingresso per la porta bruciata è inevitabile; il Palazzo non ha difesa delle artiglierie, la cortina verso il nemico è rovinata; infine, se mutate le veci, io fossi assalitore del castello, saprei espugnarlo in due ore”.   

Il negoziato di pace è sottoscritto nella casa del cardinale Ruffo di Bagnara in questi termini:

Art.1) Il Castel Nuovo ed il Castel dell’Uovo saranno rimessi nelle mani del comandante delle truppe di sua maestà il re delle due Sicilie, e di quelle dei suoi alleati il re d’Inghilterra, l’imperatore di tutte le Russie e la Porta Ottomana, con tutte le munizioni da guerra e da bocca, artiglieria ed effetti d’ogni specie esistenti nei magazzini, di cui si formerà inventario dai commissari rispettivi dopo la firma della presente capitolazione.

Art.2) Le truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro forti fino che i bastimenti, di cui si parlerà qui appresso, destinati a trasportar gli individui che vorranno andare aTolone, saranno pronti a far vela.

Art.3) Le guarnigioni usciranno cogli onori di guerra, armi, bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, miccia accesa, e ciascuna con due pezzi di artiglierie; esse deporranno le armi sul lido.

Art.4) Le persone e le proprietà mobili ed immobili di tutti gli individui componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite.

Art.5) Tutti gli suddetti individui potranno scegliere d’imbarcarsi sopra i bastimenti parlamentari, che saranno loro presentati per condursi a Tolone o di restarne in Napoli, senza essere inquietati né essi né le loro famiglie.

Art.6) Le condizioni contenute nella presente capitolazione son comuni a tutte le persone dei due sessi rinchiuse nei forti.

Art.7) Le stesse condizioni avran luogo riguardo a tutti i prigionieri fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di sua maestà il re delle due Sicilie e quelle dei suoi alleati,nei diversi combattimenti che hanno avuto luogo prima del blocco dei forti.

Art.8) I signori arcivescovi di Salerno,Micheroux, Dillon ed il vescovo di Avellino saranno rimessi al comandante del forte sant’Elmo, ove resteranno in ostaggio, fino a che sia assicurato l’arrivo a Tolone degli individui che vi simandano.

Art.9) Tutti gli ostaggi e i prigionieri di Stato, rinchiusi nei due forti, saranno rimessi in libertà subito dopo la firma della presente capitolazione.

Art.10) Tutti gli articoli della presente capitolazione non potranno eseguirsi, se non dopo che saranno stati interamente approvati dal comandante del forte sant’Elmo.

La capitolazione è sottoscritta da Ruffo e dal colonnello Micheroux per il re di Napoli, da Foote per l’Inghilterra, da Baillie e Kerandy per la Russia, da Bonieu per la Porta Ottomana, dai generali  Massa e Méjean per la parte repubblicana.

Dopo qualche giorno, poi, “il cardinale, a nome del re e come vicario generale del regno di qua del Faro, pubblicò per tutto il reame un editto, per cui perdonava ogni colpa e pena ai repubblicani, promettendo piena ed intiera salute a tutti coloro che restassero; e facoltà di imbarcarsi per Marsiglia a tutti quelli che amassero meglio lasciando la patria andarsene a vivere in lontane e forestiere contrade”.

Ma gli editti e le decisioni del cardinale Ruffo non hanno alcun valore. Ferdinando e Carolina, dalla Sicilia, hanno sete di vendetta. Il re, tramite l’ammiraglio Nelsone che fa vela verso Napoli, invia un decreto che chiarisce “Non essere sua intenzione capitolare co’sudditi ribelli; perciò le capitolazioni de’castelli rivocarsi. Essere rei di maestà tutti i seguaci della così detta repubblica, ma in vari grado; giudicarli una giunta di stato per punire i principali con la morte, i minori con la prigionia o con l’esiglio, tutti con la confisca. Riserbare ad altra legge la piena esposizione delle sue volontà, e la maniera di eseguirle”.

E così, quando a Napoli si attendono venti propizi per far partire le navi verso la Francia, come sottoscritto nella capitolazione, giunge Nelson a bordo del vascello “Fulminante” e blocca ogni operazione di imbarco, giustificandosi col dire che i re non patteggiano coi sudditi, che sono abusivi e nulli gli atti del suo vicario, che Sua Maesta Reale intende esercitare la piena autorità sopra i ribelli.

Quindi l’ambasciatore inglese Williams Hamilton scrive al cardinale Ruffo “Eminenza, l’ammiraglio Nelson mi prega di informarvi che ha ricevuto da Foote una copia della capitolazione, ch’egli disapprova completamente”.

Il cardinale Ruffo si duole di non poter tenere fede alle sue promesse e si reca a bordo del “Fulminante”, per invocare il rispetto degli accordi.

“Ma l’inglese come se temesse che la fede e l’umanità contaminassero le vittorie, non si lasciò piegare; anzi non potendo rispondere agli argomenti e alla facondia del cardinale, scusandosi con dire che non sapeva la lingua italiana, prese la penna e scrisse da vittorioso la crudele sentenza”.

L’otto luglio 1799 re Ferdinando fa ritorno a Napoli e, pur senza mai scendere dalla nave che ve l’ha condotto, provvede a riordinare lo Stato. Lo assistono il suo sdegno di sovrano umiliato, l’animo vendicativo di sua moglie, i consigli di Acton (condotto seco dalla Sicilia) e di Nelson. “Prestabilite le scale dei delitti e delle pene, con legge detta in curia retroattiva,perciocchè le azioni la precedettero, e scelti a grado i magistrati,bisognavano le regole del procedimento. Quelle dei nostri codici non bastando al segreto ed alla brevità, furono imitate le antiche dei baroni ribelli della Sicilia; ed erano il processo inquisitorio sopra le accuse e le denunce; i denunziatori e le spie validi come testimoni; i testimoni ascoltati come in privato, o sperimentati, a volontà dell’inquisitore, coi martorj; l’accusato solamente udito su le domande del giudice, impeditegli le discolpe, soggettato a tortura. La difesa nulla; un magistrato, scelto dal re,farebbe le mostre più che le parti del difensore; il confronto tra l’accusato e i testimoni; la ripulsa delle prove, i documenti e i testimoni a discolpa, tutte le guarentigie della innocenza, negate. Il giudizio nella coscienza dei giudici; la sentenza breve, nuda, sciolta dagli impacci del ragionamento, libera come la volontà; e quella sentenza inappellabile, emanata, letta, eseguita nel giorno stesso. Ma per quanto le forme fossero brevi,essendo assai maggiore la voluta celerità delle pene, il re nominò altra giunta, detta dei generali; e, ad occasione, in città o nelle province, tribunali temporanei e commissioni militari, le quali sul tamburo, ad horas et ad modum belli, spedissero i processi e le condanne”

 

 



 
 
[1] E’il caso del teatro san Carlo, dove si rappresenta  “Virginia” di Vittorio Alfieri.
 
 

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Napoli 1799. Cap. IX - L’albero della Liberta’ (2)

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