Riforme della Repubblica del 1799: l'abolizione della feudalità
Erano, però, gli ultimi giorni della Repubblica, che durò solo cinque mesi; tuttavia la nuova legge costituiva una delle riforme sociali che i patrioti perseguivano ardentemente ma non concordi sulle modalità effettive di attuazione. Emergevano proposte divergenti, per cui all’approvazione si giunse dopo lunghissimi dibattiti nell’ambito degli stessi organismi legislativi della Repubblica. Il rinvio già preludeva a quello che sarebbe stato uno scontro, in quanto, come anche riportava Carlo De Nicola nel suo diario, i due primi progetti di Giuseppe Raffaele e Nicola D’Amico, presentati rispettivamente il 21 e il 23 febbraio, non avevano riscosso il consenso di Mario Pagano, che aveva chiesto il differimento di dieci giorni per motivi di salute, ma, come evidenziava il De Nicola “io l’ho veduto bene e mi pare che non sia molto contento dei compagni”. In particolare il D’Amico aveva rimarcato, dopo una lunga storia del feudalesimo napoletano: “la feudalità è un invenzione de’ tempi della barbarie e dell’oppressione. Restino perciò aboliti i feudi e tutti i diritti feudali “senzacché si possa pretendere alcun compenso” fino a quando una commissione avrebbe stabilito un compenso. Riguardo a tale problematica del compenso si incentrò un lungo dibattito tra i patrioti. Nella data del 7 marzo si ebbe la prima discussione pubblica dove emersero due posizioni diverse: quella di Cestari, Lauberg e Paribelli da un lato e quella di Mario Pagano dall’altro. Per Cestari, non si era dovuti pagare un compenso a coloro che erano stati oppressori e quindi i fondi feudali potevano essere reintegrati tramite “l’incorporamento alla Nazione”, a cui erano stati sottratti con la forza e con la violenza. Questo intervento radicale trovò la ferma opposizione di Francesco Mario Pagano. Secondo le cronache del Monitore Napoletano, all’approvazione della legge si giunse non solo tramite dibattiti pubblici che si tenevano davanti al Consiglio Legislativo, ma anche in colloqui privati per trovare un compromesso tra posizioni diverse, a cui parteciparono Albanese, Cestari, Lauberg, Paribelli, Pagano, Bisceglia, Fasulo e altri. Sulla questione Vincenzo Cuoco riportava: “La discussione del progetto di legge fu interessante. Le due parti contendenti seguivano opinioni diverse[…] I feudatari credevano legittimi tutti i titoli che dipendevano dall’antico governo; i repubblicani la credevano sempre una forza, e, quando anche avesse potuto diventare diritto, dicevano che, se un tempo i baroni aveano conquistata la nazione, ora la nazione avea conquistato i baroni: una nuova conquista potea spogliare gli usurpatori nel modo stesso e collo stesso diritto con cui essi aveano altri usurpatori più antichi[…] Ad onta di tutto ciò il progetto non passò senza grandi dispareri…[…]Pagano credeva non essere giunto il tempo di decidere la controversia: egli riconosceva necessarie e giuste le abolizioni dei diritti, ma voleva che non si toccassero i terreni”. Il Comitato di Legislazione, di cui facevano parte Francesco Mario Pagano, Giuseppe Albanese, Domenico Forges Davanzati e Giuseppe Logoteta, fu pertanto chiamato a conciliare proposte differenti mirate ad abolire la feudalità. Inoltre, l’invito fu esteso ai cittadini ed ebbe come conseguenza una produzione di scritti che non fece altro che acuire le posizioni differenti in seno al Comitato di Legislazione, dove era presente una contrapposizione tra l’ala radicale capeggiata da Giuseppe Cestari e l’ala moderata di Francesco Mario Pagano. Dopo una dialettica pur dura fra i moderati e i radicali, fu una Commissione, presieduta da Ercole D’agnese e composta da Abbamonte, Ciaja, D’agnese, Albanese e Delfico, a trovare un compromesso, in virtù del quale il 26 aprile 1799 fu pubblicata la legge abolitiva della feudalità. I patrioti trovarono un ostacolo anche da parte dei francesi del Direttorio, per cui si rese necessaria una lettera in cui i patrioti repubblicani napoletani ricordavano agli stessi alleati d’oltralpe che una legge sull’abolizione della feudalità era stata dagli stessi francesi approvata “sotto la monarchia costituzionale e che, durante la Repubblica, in Francia, furono prese delle decisioni al riguardo ben più radicali”, ma si era nel periodo storico del Direttorio. La riforma fu approvata definitivamente il 30 maggio ‘99. Di seguito alcuni articoli: Articolo 1 “ Resta abolita qualunque istituzione e qualificazione feudale e tutti i cittadini per lo innanzi chiamati principi, duchi baroni ecc. rientreranno nella classe degli altri Cittadini né potranno assumere altra denominazione”. Articolo II “Tutte le giurisdizioni feudali di qualunque natura rimangono vietate e annullate come anche tutte le concessioni in feudo”. Articolo VI “Tutti i diritti di terraggio, di decima, vigesima, fida, diffida, parata e cosiddette Corse in Calabria di origine feudale restano aboliti e vietati, rimanendo i fondi de’ particolari e delle Comuni liberi di servitù, eccetto quelle prestazioni che si pagano agli ex Baroni per titolo di censo, di colonia e di concessione enfiteutica, purché esista il titolo primitivo e il contratto privato di concessione[..] Articolo VIII “Tutti i demani feudali, sopra de’ quali i Cittadini dell’anzidetto feudo esercitavano in qualunque maniera l’uso civico di pascere, di seminare e altro, appartengono alla Comune nella quale sono situati”. Infine si ribadiva che “ la suddetta Legge s’intende ancora per tutti gli ecclesiastici e Luoghi pii, che posseggono beni e diritti di feudalità”. Approvata la riforma in seguito ad un compromesso tra le posizioni radicali di Albanese e Cestari e quelle moderate di Mario Pagano, il Governo si preoccupò di far conoscere in tutta la Repubblica la nuova legge “con quella solennità e pompa che ricorda la più felice della nostra generazione”. Pertanto “ogni autorità costituita, i Vescovi, i Parrochi delle comuni si presentino al pubblico con annunciarsi la rottura delle catene anarchiche e tiranniche, il vantaggio del nuovo governo!” Ma ormai la controrivoluzione aveva già conquistato le province e si apprestava a sconfiggere la Repubblica, grazie anche agli interventi delle armate russe, inglesi, portoghesi, svizzere e turche. Nella Premessa della legge sull’abolizione della feudalità del 30 maggio 1799, il Governo repubblicano accusava esplicitamente gli ex-baroni che “per mezzo dei loro agenti ed erarj, si interessano a inutilizzare la legge feudale e che molte insurrezioni sono state fomentate da detti agenti ed altri dipendenti degli ex baroni”. D’altronde- come ha scritto Mario Battaglini- “questa resistenza passiva dei baroni contro le misure antifeudali era ben nota alle autorità napoletane alle quali, invano, già nel 1792 si era rivolto Galanti in una sua relazione sulla Calabria meridionale”. Tuttavia non vi era alcun riferimento nella legge sull’abolizione della feudalità a qualsiasi pena da comminare e della stessa entità di una mancata attuazione, per cui i baroni si mostrarono sollevati da ogni responsabilità, mentre la Repubblica stava per crollare e tantissimi uomini di cultura, di scienze, nobili illuminati, avvocati, un ammiraglio come Francesco Caracciolo, uomini della media borghesia, il “ fiore” della cultura napoletana, come li definirà lo stesso zar che aveva aiutato suo cugino Ferdinando IV a riprendere il trono, si sarebbero avviati dignitosamente alla morte per decapitazione o impiccagione.
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