Anton Sminck Pitloo. Luci ed ombre di un artista dimenticato

Categoria principale: Storia
Categoria: Memorie alte e nobili di Napoli e del Sud Italia
Creato Martedì, 16 Giugno 2015 14:41
Ultima modifica il Venerdì, 19 Giugno 2015 19:38
Pubblicato Martedì, 16 Giugno 2015 14:41
Scritto da Antonella Orefice
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Pitloo "Castel dell'Ovo dalla spiaggia" 1820Il soggiorno di Caravaggio a Napoli aveva lasciato un segno profondo nella pittura dell’Italia meridionale. La natura  aveva acquistato una grande importanza nell’arte, anche per la particolare intensità dei colori e degli elementi paesaggistici di quei luoghi.

I pittori che avevano avuto la fortuna di vivere o lavorare in questa terra, potevano cogliere anche il più superficiale senso di veduta o di paesaggio, perché tutti i turisti italiani e le migliaia di stranieri, inglesi soprattutto, che da fine Settecento visitavano la capitale del Sud, volevano un souvenir dipinto, di piccolo formato.

Napoli era una delle mete del grand tour europeo: vi arrivavano poeti ed artisti in cerca di quell’atmosfera unica che la caratterizzava. I quartieri popolosi del centro e le sue coste sul mare diventarono un soggetto ricorrente nella pittura sette e ottocentesca.  

Fu così che nacque la  ‘Scuola di Posillipo’ dove si riunirono i pittori specialisti delle più tradizionali vedute e scene di vita napoletane.

La denominazione si rifaceva a Posillipo perché la maggior parte di questi artisti, quasi artigiani, viveva nel quartiere più frequentato e agognato dai turisti.

A portare alla nascita di una vera corrente pittorica  fu Antonio Pitloo, un giovane olandese che era giunto a Napoli nel 1815. Anton Sminck Pitlo (egli stesso aggiunse a Napoli una seconda "o" al cognome probabilmente per sottolineare l'origine straniera) fu il primo a sperimentare a Napoli, la città che avrebbe amato per tutta la sua esistenza,  la tecnica della pittura en plein air, "all'aria aperta", dipingendo in splendidi olii ricchi di luce ed effetti cromatici i paesaggi più classici della città partenopea.

Intorno alla scuola si raccolsero diversi artisti, tra cui i fratelli Palizzi, Teodoro Duclere, Gabriele Smargiassi, Alessandro Fergola e Giacinto Gigante. Quest'ultimo, alla morte del Pitloo, ne prese per alcuni anni le redini, diventando uno dei maggiori interpreti.

Pitloo 'Boschetto Francavilla al Chiatamone' 1824Tra i dipinti più belli che Pitloo dedicò alle ricerche sulla luce, il ‘Boschetto Francavilla al Chiatamone’  consentì all’artista di vincere nel 1824 il concorso per succedere alla cattedra di Paesaggio dell'Accademia delle Belle Arti.

Ma nel 1836 il colera che imperversava in Europa già da sei anni, raggiunse anche Napoli.

La miseria diffusa di gran parte degli abitanti, la  precarietà del sistema fognario, l’insufficienza della distribuzione dell’acqua, resero la città particolarmente esposta al contagio con mortali conseguenze.

I napoletani e le altre popolazioni colpite, specialmente quelle più misere, reagirono con pregiudizi e diffidenza verso lo Stato, i medici e gli ospedali, temendo un’opera di avvelenamento da parte dei sovrani. In molti luoghi scoppiarono  tumulti, che in vari casi sfociano in vere e proprie sommosse. Della malattia non si conosceva niente, la medicina era ancora assai approssimativa e in tanti casi fece ulteriori danni. Gli ‘untori’ furono nuovamente chiamati in causa, ma non come soggetti occulti, bensì come agenti dei governi incaricati di spargere veleno.

“E ci voleva pure il colera! Questo ignoto e sinistro morbo!”, commentò amaramente Francesco de Sanctis ne 'La Giovinezza'.

Si facevano processioni, si esponevano Santi e Madonne, s’invocavano  le intercessioni dei Santi, si pregava e si facevano penitenze, e più la gente si riuniva, più il contagio aumentava.

Nel settembre del 1837 l’epidemia volse al termine dopo aver mietuto ventiduemila vittime, non risparmiando Antonio Pitloo, allora 47enne e Giacomo Leopardi, uno dei più grandi poeti del romanticismo europeo.

Con la morte di Pitloo si esaurì la Scuola di Posillipo. Fatta eccezione per Giacinto Gigante, tutti gli altri artisti fecero prevalere l'interesse documentario sulle più libere e sottili emozioni liriche del primo tempo romantico.

Nonostante lo stipendio fisso dell'accademia e gli importanti committenti tra Roma e Napoli (compresa la corte), Antonio Pitloo  lasciò in condizioni indigenti la moglie (che morì poco dopo, anche lei per colera) e i sei figli.

Il collega e amico belga Vervloet organizzò con i propri dipinti una mostra a beneficio dei figli e, in Olanda, si formò un comitato che raccolse opere d'arte per una lotteria i cui proventi furono inviati agli eredi napoletani del degno trapassato.

Non ci fu nessuna iniziativa da parte degli artisti napoletani, compresi gli allievi della scuola. La burocrazia borbonica si rifece con la restituzione della medaglia d'oro del Real ordine di Ferdinando I di cui Pitloo era stato insignito. Fu chiesta agli eredi per essere consegnata al successore sulla cattedra dell'accademia.

La maggior parte delle opere di Pitloo, che erano nel suo studio al momento della morte, furono acquistate dai Conti Correale e sono attualmente conservate nell'omonimo museo di Sorrento. Altro significativo gruppo di opere si trova nel Museo nazionale di Capodimonte a Napoli

L’unica eccezione in memoria dell’artista fu un busto che nel 1843 venne  eretto da un comitato di artisti olandesi e napoletani sulla tomba nel cimitero protestante di Santa Maria la Fede.

Quando quest’ultimo nel 1893 fu chiuso a seguito dello  sviluppo urbanistico del Risanamento, la tomba di Pitloo fu smembrata ed i pezzi portati nel giardino della Certosa di San Martino. Da allora giacciono dimenticati nei depositi dello stesso museo.