Voltaire, commento sullo "Spirito delle Leggi"
Tra le grandi opere politiche del Settecento, lo Spirito delle leggi è forse quella più attentamente meditata da Voltaire, e con cui egli si è confrontato in maniera più serrata e continua. Infatti, in quasi tutti i suoi più importanti scritti di carattere storiografico o politico pubblicati dopo l’apparizione del capolavoro montesquieuiano (1748) si incontrano riferimenti, espliciti o impliciti e più o meno ampi, all’insieme di quest’opera o a sue singole teorie e affermazioni. Opinioni di Montesquieu sono inoltre riferite o discusse in varie voci del Dizionario filosofico stampato per la prima volta nel 1764 e delle Questioni sull’Enciclopedia (iniziate nel 1770), nelle uguali figura anche una voce – e tra le più lunghe – specificamente dedicata allo Spirito delle leggi. Nel 1777, infine, ad un anno soltanto dalla sua morte, Voltaire ritorna ancora una volta su Montesquieu, scrivendo e pubblicando il Commentario sullo Spirito delle leggi, in cui riprende esistematizza praticamente tutte le sue precedenti osservazioni e valutazioni. Il testo riproduce, stilisticamente perfezionato e bibliograficamente aggiornato, quello apparso, col titolo Voltaire. Un confronto intenso e continuo, dunque, con il pensiero politico del filosofo di La Brede,durato circa un trentennio (dalla stesura dei Pensieri sul governo nel 1750-1751 al Commentario),e originato, oltre che dalla grande risonanza che subito ebbe, in Francia e fuori, lo Spirito delle leggi, anche e soprattutto dalle particolari teorie che vi vengono proposte, teorie che si pensi, peresempio, a quelle sul dispotismo o sui poteri intermedi – non potevano non suscitare reazioni di consenso o di dissenso da parte di chi come Voltaire era continuamente, e in prima fila, impegnatonel dibattito filosofico, politico e ideologico del suo tempo. Fare i conti con lo Spirito delle leggi eraquindi per lui inevitabile, dato appunto il grande impatto che subito ebbe l’opera negli ambientieruditi e sull’opinione pubblica contemporanei, e dato il ruolo di primo piano da Voltaire stesso assunto soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del XVIII secolo – nella battaglia per il progresso dei lumi all’interno e fuori del suo Paese. Prima di entrare nel merito delle diverse osservazioni voltairiane sullo Spirito delle leggi, è opportuno svolgere qualche rapida considerazione di carattere generale. Anzitutto, dei trentuno libri di cui si compone il trattato montesquieuiano, ad attrarre l’attenzione del patriarca di Ferney sono soprattutto come documentano assai bene anche le note marginali sugli esemplari dello Spirito delle leggi in suo possesso, quasi sempre riprese e sviluppate nei testi a stampa quelli dal secondo al quinto, sulla ≪natura≫ e i ≪principi≫ dei governi e sulle leggi ad essi relative, e quelli dal quattordicesimo al diciassettesimo, dedicati al clima ed alla sua influenza sul carattere dei popoli e sui loro sistemi giuridico-politici. Scarso interesse, invece, destano in lui gli altri libri, come ad esempio il capitolo 1 viene bollato come metafisico, l’ottavo, dedicato alla corruzione dei principi dei governi, in cui più esplicita è la polemica di Montesquieu contro l’assolutismo di Luigi XIV, e il libro diciannovesimo, incentrato sulla teoria dello spirito generale, il che non può non stupire nell’autore del Secolo di Luigi XIV (1751) e del Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1756). In secondo luogo, Voltaire legge lo Spirito delle leggi in modo affatto particolare, e cioè all’opposto di come dovrebbe essere letto. Com’è noto, nell’esposizione del suo pensiero Montesquieu procede per tappe e aggiunte successive, per cui si può avere un’idea sufficientemente adeguata di una nozione, di un concetto o di una teoria solo tenendo presenti tutti o la maggior parte. Anche la corrispondenza testimonia assai bene questo vivo e persistente interesse di Voltaire. Dei luoghi in cui se ne parla. Voltaire ignora completamente questo peculiare metodo espositivo del filosofo di La Brede e prende in esame lo Spirito delle leggi a spezzoni, ossia isolando singole frasi o affermazioni e su quelle costruendo le sue osservazioni. Questo tipo di lettura, se da un lato gli consente di essere più efficace nei suoi rilievi e di mettere in luce più agevolmente il suo talento corrosivo, dall’altro lo fa ‘scivolare’, per cosi dire, più facilmente in interpretazioni tendenziose e in forzature o giudizi riduttivi dei testi. In terzo luogo, le osservazioni di Voltaire – molte delle quali spesso riprese alla lettera o con modeste variazioni da un’opera all’altra non contengono solo delle critiche, come si ritiene di solito, ma anche importanti apprezzamenti, ed espressioni di consenso nei confronti di fondamentali prese di posizione e concezioni montesquieuiane, che nell’insieme testimoniano come egli abbia saputo riconoscere e comprendere il valore, la grandezza, dell’autore dello Spirito delle leggi – assai più di quanto per la verità quest’ultimo non sia riuscito a fare nei suoi confronti. Le critiche, comunque, sono di gran lunga più numerose, e sono quelle che hanno avuto una maggior ‘incidenza’ nel dibattito politico-ideologico della seconda metà del Settecento e una fortuna più duratura, nella letteratura sia voltairiana che montesquieuiana, fino ai nostri giorni. Nelle pagine che seguono ci occuperemo prima delle critiche negative; successivamente dei giudizi più favorevoli. Al riguardo va osservato, in via preliminare, che si tratta di critiche non sempre originali, ma riprese sovente, più o meno integralmente, da altri scritti polemici settecenteschi, in particolare come Voltaire stesso tiene a informarci nella Premessa del commetario. Giudica assai favorevolmente – sage et bien faite, come dice ad esempio in una sua lettera a Mme Dupin del 176115. Inoltre, non poche volte è dato riscontrare nei rilievi critici di Voltaire evidenti esagerazioni, una certa superficialità, la ricerca ad ogni costo della battuta ad effetto, un tono eccessivamente aspro o un intento fortemente denigratorio. Tuttavia, per la maggior parte si tratta di critiche serie e sincere, che nascono da effettive divergenze di vedute in campo teoretico e politico-ideologico e costituiscono, nell’insieme, uno dei più lucidi e radicali attacchi settecenteschi contro il capolavoro montesquieuiano. Ma vediamo nel dettaglio il contenuto di queste critiche, distinguendo, per comodità, quelle di carattere generale, rivolte cioe all’insieme dello Spirito delle leggi, da quelle specifiche concernenti singole teorie o affermazioni. Per quanto concerne le prime, Voltaire imputa in generale al trattato montesquieuiano di essere un’opera carente, difettosa sul piano scientifico, e inutile, priva di efficacia su quello pratico. Carente dal punto di vista scientifico: al pari di altri suoi contemporanei e malgrado le difese che ne aveva fatto d’Alembert, Voltaire accusa lo Spirito delle leggi di mancanza di metodo, di ordine, di unita: è deplorevole, scrive ad esempio nelle Idee repubblicane. Montesquieu non sia riuscito ad ≪assoggettare il suo ingegno all’ordine e al metodo necessari≫; e in A.B.C.: ≪Mi rincresce che questo libro sia un labirinto senza filo e che non vi sia alcun metodo≫. Voltaire sostiene, inoltre, che il capolavoro montesquieuiano è pieno di inesattezze, di citazioni sbagliate o male interpretate; che vi si fa ricorso a fonti scarsamente o per nulla attendibili e che ci si perde talora in digressioni erronee o estranee al soggetto; in una parola, che vi si trattano i vari argomenti con scarsa competenza. E’ stato detto che la lettera uccide e lo spirito vivifica; ma nel libro di Montesquieu lo spirito fuorvia e la lettera non insegna nulla. Montesquieu ha quasi sempre torto con i dotti, perche non lo era. Voltaire, infine, rimprovera il barone di La Brede di occuparsi di una materia seria in modo frivolo. Nella Prefazione dello Spirito delle leggi si dice che nell’opera non vi si troveranno ≪facezie≫, ma il libro non è altro che ≪una raccolta di facezie≫. Nessuno l’ha definito meglio di Mme du Deffand quando ha detto che era stato fatto dello ≪spirito sulle leggi≫. In effetti, da esso emerge piùttosto lo ≪spirito≫ di Montesquieu che non quello delle leggi: Ho trovato – si legge nelle Idee repubblicane – lo spirito dell’autore, che ne ha molto, ma raramente lo spirito delle leggi. Egli saltella più che non cammini; diverte più che non illumini; ironizza, a volte, più che non giudichi; e bisogna rammaricarsi che un si bell’ingegno non abbia sempre cercato di istruire più che di stupire. Opera carente sul piano metodologico e scientifico-erudito, lo Spirito delle leggi è per Voltaire privo di efficacia, inutile – come si accennava – su quello pratico. Vi si menzionano continuamente i Turchi, i Cinesi, i Giapponesi o i Tartari, ma non vi si parla affatto della giurisprudenza civile e penale francese. E invece: ≪Era a correggere le nostre leggi che Montesquieu doveva consacrare la sua opera, e non a sbeffeggiare l’imperatore d’Oriente, il gran visir e il diwan≫, sottolinea Voltaire nel Commentario, è nelle battute iniziali della voce ≪Spirito delle leggi≫ coinvolge nella stessa accusa – di inefficacia pratica, di mancanza di utilita –un po’ tutte le grandi opere politiche moderne. Sarebbe stato auspicabile che da tutti i libri sulle leggi scritti da Bodin, Hobbes, Grozio, Pufendorf,Montesquieu, Barbeyrac, Burlamaqui, fosse derivata qualche legge utile, adottata in tutti i tribunali dell’Europa, vuoi sulle successioni, vuoi sui contratti, sulle finanze, sui delitti ecc. Invece, citare Grozio, o Pufendorf, o lo Spirito delle leggi, non ha mai prodotto una sentenza dello Chatelet di Parigi o dell’Old Bailey di Londra. Ci si appesantisce con Grozio, si passano alcuni momenti piacevoli con Montesquieu; ma se si ha un processo, si corre dal proprio avvocato. Con questa brillante battuta conclusiva, Voltaire esprime icasticamente tutta la sua vocazione alla concretezza, a un sapere immediatamente fruibile, al primato del fare sul pensare e, al tempo stesso, tutta la sua insofferenza (che e anche incomprensione) per le costruzioni sistematiche, le teorie generali, gli schemi astratti – nella fattispecie, la sua avversione, per l’intento prioritariamente teorico dello Spirito delle leggi, per il suo carattere prevalentemente scientifico, ‘sociologico’. Passiamo alle critiche concernenti singole teorie o affermazioni del trattato montesquieuiano. Sono assai numerose (specialmente nella voce ≪Spirito delle leggi≫ e nel Commentario), talune critiche piùttosto puntigliose ed erudite; altre invece – come s’è gia accennato – alquanto esagerate e superficiali; per la maggior parte, tuttavia, fondate, nel senso che colgono effettive inesattezze, imprecisioni e veri e propri errori presenti nello Spirito delle leggi, come ad esempio l’attribuzione al ≪popolo≫ anzichè alla nobiltà dell’amministrazione del celebre Banco genovese di San Giorgio, o l’aver ricondotto alle leggi anzichè ai costumi il fatto che i nobili veneziani non si dedicassero al commercio; o, ancora, l’asserzione – ricordata continuamente da Voltaire che Francesco I (il quale non era ancora nato quando Cristoforo Colombo scopri l’America) aveva rifiutato le proposte del navigatore genovese; o, infine, la tesi secondo la quale l’avvento dell’‘ordine feudale’ in Europa costituisce un evento unico nel suo genere, mentre invece si tratta come ha confermato anche la critica storica successiva di una condizione universale dello sviluppo storico dell’umanità associata. Quattro, comunque, sono i temi montesquieuiani, e tutti fondamentali, sui quali Voltaire ritorna con più insistenza e che critica con più forza – come attestano anche le note marginali sugli esemplari dello Spirito delle leggi in suo possesso e segnatamente: la tesi secondo cui la virtù e l’onore sono i ≪principi≫ o moventi, rispettivamente, della repubblica e della monarchia; la considerazione del dispotismo come forma autonoma di governo, radicalmente antitetica alla monarchia; la teoria dell’influenza dei climi; la dottrina, infine, dei poteri intermedi e la difesa della venalità delle cariche. Per quanto concerne l’onore e la virtù, Voltaire sostiene che l’idea secondo cui l’uno è il principio della monarchia, l’altra della repubblica, è un’idea ≪chimerica≫, astratta, priva di fondamento storico, e che è vero piuttosto il contrario. Se è nella natura dell’onore, infatti, ≪di richiedere preferenze e distinzioni≫, come si legge nello Spirito delle leggi, allora il suo posto –osserva Voltaire in A.B.C. – e nelle repubbliche più che nelle monarchie, come dimostra il caso nei momenti dei suoi più grandi rovesci, quelli che godevano della sua fiducia, i Beauvilliers, i Torcy, i Villars, i Villeroi, i Pontchartrain, i Chamillart, fossero gli uomini più virtuosi dell’Europa. L’esperienza e la storia, dunque, smentiscono, ‘falsificano’ – secondo Voltaire – le tesi di Montesquieu, anzi mostrano che le cose stanno esattamente all’opposto, ossia che c’è più onore in una repubblica che in una monarchia e più virtù in una monarchia che in una repubblica. E’ da osservare, tuttavia, che in questa sua critica delle posizioni montesquieuiane Voltaire – anche sfruttando abilmente, col suo peculiare modo di leggere lo Spirito delle leggi cui si è fatto cenno più sopra, alcuni varchi lasciati aperti da Montesquieu – reinterpreta le nozioni di onore e virtù in un senso eminentemente morale anzichè politico (l’onore – afferma ad esempio nel Secolo di Luigi XIV – ≪e il desiderio di essere onorato, stimato, da cui deriva l’abitudine di non far nulla di cui ci si possa vergognare≫; la virtù, a sua volta, ≪è l’adempimento dei doveri, indipendentemente dal desiderio di stima≫), e ignora completamente, almeno nei testi a stampa, alcune connotazioni essenziali loro conferite nello Spirito delle leggi, come, nel caso dell’onore, il suo aspetto feudale-corporativo, e, nel caso della virtù, il suo inscindibile nesso con il concetto di uguaglianza, un nesso su cui il filosofo di La Brede insiste molto, com’è noto, anche nella famosa Avvertenza dell’Autore roponendo nei primi anni Cinquanta del Settecento (il Secolo di Luigi XIV – si ricordi – esce in prima edizione nel 1751) che Voltaire critica Montesquieu riguardo ai principi della virtù e dell’onore, oltre che, ovviamente, per la sua avversione agli schemi generali e, correlativamente, per la sua propensione alla concretezza, alle quali s’è gia fatto cenno più sopra. Ancora più severe, ma sostanzialmente analoghe, le critiche che il patriarca di Ferney rivolge al concetto montesquieuiano di dispotismo. Da un lato, infatti, egli contesta anche qui – ma in modo assai più esplicito – il significato che Montesquieu attribuisce al temine (o ai suoi derivati) e l’uso che ne fa, dall’altro insiste sul fatto che l’esperienza e la storia rivelano che, cosi com’è raffigurato nello Spirito delle leggi, il dispotismo non esiste in nessuna parte del mondo, nè in Europa nè in Asia. Circa il primo punto, Voltaire sostiene che il potere dispotico, inteso come potere illegale o arbitrario, è solo la forma corrotta della monarchia e non una forma autonoma, ≪naturale≫, di governo, come ritiene Montesquieu: ≪Il dispotismo è l’abuso della regalita, come l’anarchia è l’abuso della repubblica≫, si legge ad esempio nelle Pensieri sul governo. Osserva, inoltre, che Voltaire respinge dunque la tripartizione montesquieuiana delle forme di governo (repubblica, monarchia e dispotismo) e ripropone la bipartizione di origine machiavelliana (repubblica e monarchia), come risulta anche, tra l’altro, dal seguente brano del Supplemento al Secolo di Luigi XIV: ≪Si è giunti ad immaginare una terza forma di amministrazione naturale (administration naturelle) a cui si è data il nome di Stato dispotico, nella quale non v’è altra legge, altra giustizia all’infuori del capriccio di un solo uomo. Non ci si è accorti che il dispotismo, in questo senso abominevole, non è altro che l’abuso della monarchia, cosi come negli Stati liberi l’anarchia è l’abuso della repubblica≫; inoltre, assimila il dispotismo alla tirannide, ossia alla forma di governo tradizionalmente ritenuta la corruzione della monarchia, come appare evidente, oltre che dai testi già citati, anche dalla voce l’uso del termine despota per designare i sovrani dei grandi imperi asiatici, è un uso recente e ingiustificato. Recente, perchè mai prima del XVIII secolo il termine era stato adoperato, a suo avviso, per designare un monarca, bensì solo, come accadeva presso i Greci, il padrone di casa, il padre di famiglia. Ingiustificato – e cosi veniamo al secondo punto – perchè nessun sovrano dell’Asia esercita, secondo Voltaire, il proprio potere in modo illegale o arbitrario. Montesquieu ha ≪immaginato≫, sulla base di ≪relazioni fasulle≫ sull’Impero ottomano, che il sultano governi secondo le sue volontà e i suoi capricci e che nessun cittadino possegga qualcosa in proprietà in quest’immenso Stato; ma un’analisi più attenta dei fatti storici e il ricorso a fonti più attendibili rivelano che tutto ciò è falso, che si tratta anzi – come si legge nel Saggio sui costumi – di un ≪pregiudizio≫. In realtà – insiste Voltaire dalle Pensieri sul governo al Commentario – il sovrano ottomano giura sul Corano di rispettare le leggi e non è affatto il proprietario assoluto delle terre e dei beni dei suoi sudditi. Analogamente, Montesquieu ≪ha osato sostenere≫ che il dispotismo regni nel vasto impero della Cina, ma si tratta di una convinzione altrettanto infondata. Io non sono mai stato in Cina, ma ho conosciuto più di venti persone – scrive Voltaire in A.B.C. – che hanno fatto questo viaggio e credo di aver letto tutti gli autori che hanno parlato di questo paese; per cui ne so certamente molto più di quanto Rollin sapesse di storia antica; so, dico, per i resoconti unanimi dei nostri missionari appartenenti a sette diverse, che la Cina è governata dalle leggi, e non già da una sola volontà arbitraria. ≪E’ piaciuto ai nostri autori (non so perchè) – scrive in A.B.C. – chiamare despoti i sovrani dell’Asia e dell’Africa. Questa parola despota, in origine, significava, presso i Greci, padrone di casa, padre di famiglia. Oggi noi diamo con liberalità questo titolo all’imperatore del Marocco, al Gran Turco, al papa, all’imperatore della Cina≫ e nel Commentario precisa ulteriormente: ≪Mi pare che nessun Greco, nessun Romano si sia servito della parola despota, o di un derivato di despota, per indicare un re. Despoticus non è mai stata una parola latina. I Greci del Medioevo hanno cominciato all’inizio del XV secolo a chiamare despoti alcuni signori molto deboli, alle dipendenze del potere dei Turchi, despoti di Serbia, di Valacchia, che si consideravano solamente quali padroni di casa≫. Circa la proprietà, poi, ≪tutte le relazioni che ci sono giunte≫ da quest’immenso paese ≪ci hanno insegnato che ciascuno vi gode dei suoi beni ≫. L’immagine del dispotismo asiatico proposta da Montesquieu non corrisponde dunque a verità; è una pura creazione della sua fantasia, il cui scopo – come Voltaire lascia palesemente intendere in un’importante pagina del Supplemento al Secolo di Luigi XIV, in cui pur senza nominarlo si rivolge chiaramente al filosofo di La Brede – e pittosto quello di fare la satira della monarchia assoluta di Luigi XIV: ≪Ecco come s’è forgiato un orrendo spettro (un fantome hideux) per combatterlo; e facendo la satira del governo dispotico il quale non è altro che il diritto dei briganti, si è in realta fatta quella del governo monarchico, che è il diritto dei padri di famiglia≫. Ma anche qui Montesquieu manca completamente il suo obiettivo, secondo Voltaire, perche se è vero che Luigi XIV ha talora abusato del suo potere, è altrettanto vero che la sua monarchia è stata la migliore fra tutte quelle conosciute: vi sfido a mostrarmi una qualche monarchia sulla terra – scrive infatti sempre nella pagina in questione del Supplemento – nella quale le leggi, la giustizia distributiva, i diritti dell’umanita, siano stati meno calpestati o in cui si siano fatte cose più grandi per il bene pubblico di quanto non sia accaduto durante i cinquant’anni in cui Luigi XIV ha regnato. Sia come categoria scientifica che come categoria polemica, sia come criterio interpretativo dei governi dell’Oriente che come strumento per ridicolizzare o rendere odiosa, ‘demonizzare’ la monarchia assoluta francese della seconda meta del XVII secolo, la nozione di dispotismo proposta nello Spirito delle leggi è quindi una nozione ‘mancata’: in entrambi i casi uno studio più attento dei dove, a proposito di questa stessa affermazione, si legge tra l’altro: ≪Gli scritti morali di Confucio, pubblicati seicento anni prima della nostra era gli ordini di tanti imperatori, che sono esortazioni alla virtù; opere di teatro che l’insegnano, e in cui gli eroi si sacrificano fino alla morte per salvare la vita a un orfano; tanti capolavori di morale tradotti nella nostra lingua: tutto ciò non è stato fatto a colpi di bastone. L’autore [Montesquieu] si immagina o vuole far credere che in Cina c’e soltanto un despota, e centocinquanta milioni di schiavi governati come animali da cortile. Dimentica questo grand’uomo i tribunali subordinati gli uni agli altri; dimentica che quando l’imperatore Kang-xi volle far ottenere ai gesuiti il permesso di insegnare il loro cristianesimo, indirizzò egli stesso la loro richiesta a un tribunale. E’ da credere che le leggi dei Cinesi siano molto buone, poichè sono state sempre adottate dai loro vincitori, e sono durate cosi a lungo≫. Su Voltaire, fatti storici, il ricorso a fonti più attendibili, ne rivelano tutta la falsità e astrattezza libresca; i paesi orientali non sono governati dall’arbitrio, ma dalle leggi: ≪Vi è dappertutto [in Asia– scrive Voltaire nel Riassunto finale del Saggio sui costumi – un freno imposto al potere arbitrario, dalla legge, dalle usanze, o dai costumi≫. La monarchia di Luigi XIV, a sua volta, non è un assolutismo ‘arbitrario’, bensì‘legale’, è una monarchia – come abbiamo già avuto modo di segnalare ≪temperata≫, limitata dalle ≪leggi≫ e dai ≪costumi≫. Ritorna anche qui, come si vede, la difesa da parte di Voltaire del regno del Re Sole. Inoltre, c’è in più la proposta – che è uno degli obiettivi, se non l’obiettivo polemico principale, a nostro parere, del Saggio sui costumi – di un totale ribaltamento del discorso montesquieuiano sul rapporto Occidente/Oriente: laddove, infatti, l’autore dello Spirito delle leggi – portando al massimo livello di sviluppo uno dei topoi fondamentali della cultura occidentale – contrappone radicalmente Europa e Asia come regno della legge/regno dell’arbitrio, libertà/schiavitù, Voltaire assimila, omologa le due realtà, sostenendo che in entrambe il potere è limitato dalle leggi, in entrambe vige il governo delle leggi e non l’arbitrio. Inoltre, laddove Montesquieu rivendica, più o meno esplicitamente, il primato dell’Occidente sull’Oriente, Voltaire oppone polemicamente – e sarà seguito su questa strada da Linguet e, con molto più equilibrio e competenza, da Anquetil-Duperron, vale a dire dagli altri due maggiori critici settecenteschi della teoria montesquieuiana del dispotismo la superiorita dell’Oriente sull’Occidente: ≪L’Oriente, culla di tutte le arti, e che tutto ha dato all’Occidente≫, scrive nella Premessa del Saggio sui costumi; e a proposito dei Cinesi osserva che, se è vero che sono rimasti più indietro rispetto agli Europei in campo scientifico e tecnologico, hanno pero ≪perfezionato la morale, che è la prima tra le scienze≫, e godono di una costituzione politica che è la migliore del mondo circa l’Impero ottomano. ≪Ho visto molti viaggiatori che hanno attraversato l’Asia: tutti alzavano le spalle quando si parlava loro di questo preteso dispotismo indipendente da tutte le leggi≫. Anche, a questo proposito, il tardo dramma Les lois de Minos (1773) , dove Voltaire traccia una netta distinzione tra esercizio legale ed esercizio illegale o arbitrario del potere regio: per potere supremo – scrive infatti – non intendo ≪un’autorità arbitraria≫, bensì ≪un’autorità ragionevole, fondata sulle leggi stesse, e temperata da esse≫; ≪un’autorità giusta e moderata, che non può sacrificare la liberta e la vita di un cittadino alla cattiveria di un adulatore, che si sottomette essa stessa alla giustizia , che fa di un regno una grande famiglia governata da un padre. Chi fornisse un’altra idea della monarchia sarà colpevole verso il genere umano≫. Su questo delicato aspetto del pensiero politico voltairiano, oltre al libro già citato di P. Gay, che dedica un intero capitolo a quello che egli chiama l’≪assolutismo costituzionale≫ del filosofo di Ferney ell’Europa una ≪facezia≫ da ≪Commedia italiana≫ l’immagine montesquieuiana del pascià che distribuisce la giustizia a colpi di bastone, e sostiene polemicamente che la giurisprudenza turca è fondata ≪sul senso comune, l’equità e la prontezza≫ ed è da preferire alla procedura civile e criminale francese, caratterizzata da una snervante lentezza e da meccanismi ingarbugliati e pesanti. Totale rovesciamento, dunque, della prospettiva eurocentrica di Montesquieu: un rovesciamento che Voltaire prosegue e approfondisce, come vedremo subito, nelle sue critiche alla teoria – esposta soprattutto nella terza parte dello Spirito delle leggi – dell’influenza dei climi sulle leggi, i costumi e le credenze religiose dei vari popoli della terra. |
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