Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Vincenzo Cuoco, cronista della Rivoluzione napoletana del 1799

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Vincenzo Cuoco scrittore e uomo politico, nacque a Civitacampomarano, nel Molise, il 1 ottobre 1770, e morì in Napoli il 14 dicembre 1823.

Nel 1787 si recò a Napoli per apprendervi leggi e iniziarsi alla pratica forense, che coltivò senza fortuna e svogliatamente, poiché preferì gli studî letterarî e filosofici, e in ispecie quelli economici, allora in voga.

Amico dei più insigni uomini del tempo, entrò in particolare dimestichezza con Giuseppe Maria Galanti e l'aiutò a raccogliere i materiali per il quarto volume della Descrizione geografica e politica delle Sicilie.

La rivoluzione intanto maturava nei cenacoli stessi degli studiosi frequentati dal Cuoco e presto sommerse anche lui nel suo vortice, sebbene egli facesse fin d'allora ampie ideali riserve sul moto sovvertitore.

Entrati nel gennaio 1799 i Francesi a Napoli e proclamata la repubblica, il Cuoco ebbe nel nuovo regime una parte affatto secondaria; tuttavia, avendo contribuito a scoprire la congiura realista dei Baccher, col ritorno dei Borboni gli fu saccheggiata la casa, fu condannato (24 aprile 1800) a venti anni d'esilio e alla confisca del patrimonio.

 

Esule a Marsiglia, ove approdò il 5 maggio, in Savoia, a Parigi, dopo Marengo tornò in Italia, a Milano, ove nel 1801 stampò in tre volumi il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, concepito e in parte steso nelle peregrinazioni, con in appendice i Frammenti di lettere a Vincenzo Russo, scritti durante la Repubblica, in cui si criticava storicamente il progetto costituzionale di Mario Pagano, al Cuoco fatto conoscere proprio da Vincenzo Russo, il noto politico e utopista socialisteggiante della rivoluzione napoletana del 1799. Il Saggio, più che una storia, è una meditazione sulla storia.

La rivoluzione di Napoli è stata un movimento "passivo"; generata da un contraccolpo di eventi estrinseci, non ha saputo inserirsi nei concreti bisogni del popolo, approfondire i motivi storici originali della nazione.

Anzi, allontanatasi sempre più da questi, nel nome di un'astratta politica d'universale democratizzazione, di una libertà senza sostanza, ha staccato il popolo, la vera forza delle rivoluzioni, dai patrioti, pochi idealisti impreparati.

È un vero processo alla mentalità giacobina francese, che, concepita di pura ragione una forma perfetta di governo, credette possibile imporla a genti che già avevano una storia propria, uno sviluppo secolare autonomo, esigenze peculiari che andavano rispettate.

Reso presto noto, il Cuoco trovò convenevole lavoro e scrisse per incarico le Osservazioni sul dipartimento dell'Agogna (Milano 1802, col nome del citt. L. Lizzoli) e attese alla Statistica della Repubblica italiana a lui affidata dal Melzi (ma lasciata incompiuta).

Entrò quindi nel giornalismo ufficiale e, fondato nel 1804 il Giornale italiano, di cui assunse la direzione, agitò in quel foglio, pur nei limiti della politica napoleonica, tutti i problemi contemporanei, per formare uno spirito pubblico base all'unità nazionale.

All'apostolato patriottico del periodo milanese si collega il Platone in Italia, mediocre romanzo storico, nel quale, narrando di un viaggio d'istruzione di un giovane greco Cleobolo e del suo maestro Platone nella Magna Grecia al principio del sec. V di Roma, il Cuoco, ripresa la tesi vichiana del De antiquissima Italorum sapientia, si propone di dimostrare come la civiltà italica fu anteriore persino all'ellenica.

L'opera va considerata esclusivamente sotto l'aspetto politico, e come tale annunzia nello spirito il Primato del Gioberti. Ormai celebre, rifiutata una cattedra universitaria a Cracovia, il Cuoco, dopo la conquista del Regno fatta da Giuseppe Bonaparte, nel 1806 volle domiciliarsi a Napoli, dove continuò a scrivere nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle Due Sicilie, per quanto glielo concedessero le altissime cariche cui fu presto chiamato e che gli furono conservate dal Murat e in parte dai Borboni.

L'opera maggiore alla quale attese in quest'ultimo periodo della sua vita è il Rapporto al re G. Murat e Progetto di Decreto per l'ordinamento della Pubblica Istruzione del Regno di Napoli, il quale, benché tragga origine da un incarico speciale del governo, riflette un pensiero maturato attraverso un lungo studio di problemi pedagogici.

Sostenitore preconistico e sincero dell'istruzione popolare e dell'educazione femminile, il Cuoco disegna un ordinamento scolastico in cui, attraverso tre gradi, sublime, medio, elementare, l'attività del docente non sia a priori vincolata, ma s'esplichi in piena libertà; in cui la religione trovi adeguato posto, specie nella formazione della coscienza infantile, senza soffocare l'autonomia dell'indagine scientifica nei gradi superiori del sistema; in cui, respinto ogni dogmatismo intellettualistico, si faccia appello alle vive potenze creative dello spirito.

Un ordinamento moderno e ricco, che non ebbe, nella sua integralità, attuazione legislativa. Ad altri lavori, lasciati in frammenti, attese fino a quando, nel 1815, lo colpì una malattia mentale, che non lo abbandonò più.

Ingegno essenzialmente politico, il Cuoco deriva dal Machiavelli e dal Vico, del quale, peraltro, approfondì le esigenze storicistiche più che non il significato ideale della speculazione, e l'opera del Vico diffuse nel periodo milanese; facendola nota al Monti e al Manzoni e indirettamente al Foscolo, al Di Breme e a molti altri.

In definitiva, rappresenta per l'Italia quella posizione storicistica che in parte si fonde con la filosofia antilluministica, posizione in Inghilterra tenuta dal Burke, in Francia dal De Maistre, e dal pensiero controrivoluzionario dell'emigrazione, in Germania dall'idealismo postkantiano e dalla historische Rechtsschule.

Ancorché tali movimenti di pensiero il Cuoco possa direttamente o indirettamente aver conosciuti, l'opera sua resta nei limiti della tradizione nazionale, che egli riconquistò alla filosofia ed elaborò con alta coscienza, tanto che al suo insegnamento si ricollegarono gli uomini del Risorgimento: Mazzini e Gioberti stesso.

Un pur breve profilo dell’opera intellettuale e politica di Vincenzo Cuoco non può essere costruito – nell’attuale stagione degli studi cuochiani, che ha, finalmente, rivisto impostazioni tradizionali, in non pochi casi arruffate e riduttive – se non con il tentativo di connettere, rigorosamente, vita e opere.

In questo quadro, il Saggio e il Platone si rivelano assai lucidi disegni storici nascenti da un’acuta volontà di comprensione del presente da parte di chi alla contemporaneità della Frage storiografica sapeva rispondere con intento sistematico, senza restar dentro la contingenza.

Per intendere l’intenzione, il disegno e il valore del primo grande libro di storia dell’Ottocento italiano è, ormai, indispensabile uscire da scolastiche ripetizioni dell’inserimento del Saggio nella cosiddetta letteratura controrivoluzionaria, ovvero insistere sull’ambiguo convivere di contrastanti motivi tardoilluministici e giacobini per ipotizzare un inventato antidemocraticismo cuochiano, sollecito di inaugurare la parabola del ‘catonismo’ etico-politico, chiamato a sorreggere l’ideologia ‘nazionalpatriottica’ del Risorgimento italiano.

Al contrario, le pur incerte e indirette, ma significative notizie sulla formazione del Cuoco aiutano a individuare ipotesi più ragionate sulle origini di una riflessione originale che di un’età di trasformazioni, radicali e tumultuose, esprime e conserva tutti i tratti. 

Abbiamo infatti un quadro sufficientemente orientativo e preciso delle prime frequentazioni e scelte di vita del giovane provinciale, giunto nella capitale in anni difficili e complessi, giacché non v’è ragione di dubitare di notizie riscontrabili e significative nel contesto della vita del Regno (egregiamente ricostruito da Antonino De Francesco, che ha potuto innovare il profilo del Cuoco) e, per altro verso, coerenti con le testimonianze dirette, ricavabili dagli scritti dello stesso Cuoco, circa gli eventi del quinquennio prerivoluzionario a Napoli.

Al qual proposito è interessante fermarsi sulla chiusa della citata lettera-curriculum del 26 maggio 1805, dove registra l’ambizioso sottrarsi alle possibilità di una carriera nell’amministrazione giudiziaria, notevole per un provinciale squattrinato arrivato a cercar fortuna nella capitale.

La motivazione fornita può ritenersi un postumo tentativo di illanguidire, senza negarla, una frequentazione forse non più ben vista nella Milano napoleonica della seconda Cisalpina, in prossimità di divenire capitale del Regno d’Italia nell’orbita dell’impero.

È cioè possibile scorgere in quella chiusa non solo una preoccupata ricostruzione d’un momento del proprio percorso, ma anche la testimonianza di una prima valutazione critica dei tumultuosi movimenti vissuti a Napoli, specie dinanzi alla frattura provocata nella generazione giacobina dalla fallita congiura del 1794, coinvolgendo, direttamente e indirettamente, i personaggi frequentati da Cuoco.

Vale a dire la delusione provata dinanzi alle constatate debolezze del progetto riformatore, incapace di battere l’intreccio di corruzione e affarismo, e alla non diversa incapacità dello stesso partito riformatore a trasformare il potere di antico regime, operando come forza di mediazione e non di rivoluzione, della quale egli aveva sperimentata la debolezza. 

Ciò aiuta a comprendere l’atteggiamento di Cuoco nei mesi di vita della rivoluzione e anche l’origine della lucidissima valutazione storiografica che ne offrì con la tempestiva ricostruzione del Saggio.

Il centro di tutte le argomentazioni del Saggio, opera di vastissima ricchezza tematica, va ricercato nell’idea e nel ruolo di popolo nella vita delle comunità politiche e quale fondamento dello Stato nuovo «costituzionale», secondo quanto suggeriva il gran moto che dalla Francia s’era diffuso in tutta Europa.

Nel Saggio e negli indissociabili Frammenti sulla Costituzione approntata da Pagano, il Cuoco riprende il problema che proprio il costituzionalista della Repubblica aveva già indicato come determinante per la configurazione dell’ordinamento giuridico dello Stato: l’idea di «popolo», cardine della Rivoluzione e delle sue «Dichiarazioni». 

Quando diciamo popolo – aveva scritto Pagano nel “Proemio” alla Carta per indicare l’ambito proprio e i limiti del suo discorso –, intendiamo parlare di quel popolo, che sia rischiarato ne’ suoi veri interessi, e non già d’una plebe assopita nella ignoranza e degradata nella schiavitù, non già della cancrenosa parte aristocratica.

L’uno e l’altro estremo sono de’ morbosi tumori del corpo sociale, che ne corrompono la sanità. È increscevole al certo, che non abbiamo nelle moderne lingue voce per esprimere la nozione che vogliamo designare (La Costituzione della Repubblica napoletana del 1799, a cura di A. Fratta, 1997, p. 13). 

Cuoco avvertì quanto di semplificatrice astrazione s’annidasse nel pur lucido sforzo paganiano di definire la stratificazione sociale del Paese da rinnovare e condivise la cognizione della straordinaria trasformazione culturale in atto, tanto da mostrare l’inadeguatezza della lingua a esprimere i nuovi processi di concettualizzazione epistemologica, essenziali per oggettivare la consapevolezza del presente.

La soluzione di Pagano lo aiutava a cogliere la specificità della condizione del vecchio Regno di Napoli ma non gli forniva, con il suo descrittivismo ideologico più che sociologico, la chiave di soluzione, senza la quale non era dato capire effettivamente l’evolversi della rivoluzione diversa in Francia e a Napoli, dove pure egualmente sussistevano le ragioni del suo prodursi.

Nasceva da qui la teoria dei «due popoli», ch’era non solo (come fu proposta nel Saggio) la più penetrante interpretazione delle condizioni del vecchio Regno e delle ragioni del tragico fallimento della rivoluzione a Napoli, dove tutto la richiedeva, ma, altresì, la chiave storiografica (ricorrente in seguito in tutte o quasi tutte le ricognizioni storiografiche della situazione italiana) per capire il ‘dualismo’ dell’intera storia d’Italia, che anche Cuoco, dopo il 1799, non mancò di affrontare.

I rivoluzionari del 1799 furono colpevoli non di aver voluto la rivoluzione, necessaria e da tutto sollecitata, come in Francia, ma di non averla saputa volere: essi non seppero passare dall’esigenza alla soddisfazione dell’esigenza.

Solo questa capacità di traduzione della realtà nell’effettività del reale avrebbe potuto superare la dualità non in una snaturante infelice coazione dell’un popolo a vantaggio dell’altro. Si trattava, infatti, di suturare i due popoli, ormai consolidati socialmente e culturalmente dal premere di diverse esigenze, nell’armonia di un’organizzazione costituzionale, che riguardasse – dice Cuoco con spietato realismo – gli «oziosi lazzaroni» di Napoli, i «feroci Calabresi», i «leggieri Leccesi», gli «spurei Sanniti», insieme con i raffinati rappresentanti dell’aristocrazia di nascita e di cultura (Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura di A. De Francesco, 1998, p. 518).

Per Cuoco la storia che sa narrare e può far capire tutto ciò non è la storia «de’ geni, de’ spiriti», affidata «all’astratta e sottile metafisica», e neppure la «storia filosofica», che fa capolino nella «storia della civiltà», assai spesso incapace di cogliere le distinzioni e cioè di comprendere la molteplicità della realtà affettiva.

La «storia civile» per Cuoco è quella che sa riconoscere le «leggi» di vita delle nazioni. In un frammento inedito Cuoco ha scritto: si è troppo distinta la statistica dalla storia, e si è ristretta la prima a descrivere ciò che è, si è lasciata la seconda alla cura degli avvenimenti.

Né questo è stato tutto il male: gli oggetti stessi si sono divisi: la statistica ci ha parlato di arti, di commercio, di industria, di finanza; e la storia di leggi, di ordini pubblici, di rivoluzioni, di costumi, di guerra.

Quindi due mali gravissimi: le osservazioni economiche si sono avute a spezzoni e separate dalle operazioni politiche.

Era più facile vedere che le leggi, gli ordini, i costumi, le guerre doveano influire sull’economia civile di un popolo, che le sue arti, la sua industria, la sua ricchezza doveano egualmente influire sulla sua politica!

Ma ecco che per mancanza di unione di queste osservazioni noi delle nazioni sappiamo più la cronologia che la storia, perché sappiamo meglio le epoche del loro accrescimento e della loro caduta che le cagioni (Manoscritti Cuoco, Biblioteca nazionale di Napoli, XV F 98, pacco 40, ora in Tessitore 2002, p. 171). 

Di conseguenza, ritornando al mai dimenticato mondo della sua Napoli, anche e soprattutto quella del 1799, Cuoco ritenne di dover risalire a quando si spaccò la sintesi tra popolo-nazione e organizzazione politica-Stato, e nel Platone riprenderà il suo Giambattista Vico, quello dei «corsi» e «ricorsi».

Da qui la tesi, più propriamente storica, al di là della mitologia dei primati italici, di riconsiderare la storia dell’antichissima Italia non già ridotta tutta alla storia di Roma e neppure della Magna Grecia, ma di tutti i popoli che l’abitarono, vittime di due diversi imperialismi, quello culturale e quello militare. 

In questi stessi anni di ripensamento filosofico e storico dell’orizzonte scoperto dal Saggio storico per capire le ragioni della rivoluzione e del suo tragico fallimento, quando tutto la voleva «attiva» e non «passiva», Cuoco si domandava se non fosse indispensabile la sintesi tra legislazione, religione e filosofia, che si realizza «in quella città» in cui si consegue ciò che di tutte le istituzioni civili deve essere il fine: «la massima concordia tra le parti e la massima energia del tutto» (Pagine giornalistiche, a cura di F. Tessitore, 2011, p. 156).

Cosicché, quando si trova dinanzi la drastica alternativa: «uno de’ due: o conviene che la classe dominante distrugga la servente, o convien che divida con lei tutti i vantaggi della vita civile», la scelta non è dubbia.

Bisogna puntare su «uno Stato costituzionale per il cui realizzarsi la rivoluzione non è stata inutile», perché, per suo mezzo, si è ottenuta «una forma di governo costituzionale, e, quand’anche si volesse credere che questa non sia ancora perfetta, si è sempre ottenuto molto avendone una» (Pagine giornalistiche, cit., pp. 262 e 259).

Si tratta di realizzare lo Stato che sappia utilizzare la rivoluzione e fermarla perché non degeneri, a danno delle «utili riforme». È questo il programma di Cuoco per concretizzare un processo che vede già lungo di «tre secoli in qua», quando  tutti gli Stati d’Europa sono cresciuti di forza per l’accrescimento del numero, dell’industria, dell’attività di quella parte di popolazione che chiamasi in Francia e si potrebbe chiamare presso ogni nazione ‘terzo stato’ (Pagine giornalistiche, cit., p. 261). 

Cuoco non trova nella realtà di Napoli e dell’Italia analogo processo e, al contrario, assiste al nuovo imperialismo del nuovo «Cesare», da cui pure spera che possa venire quella soluzione non trovata per via endogena e perciò si rifugia nella mitica, immaginaria storia di «tempi antichissimi» in cui «l’Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi e per commercio», quando «tutti gli italiani formavano un popolo solo» (Platone in Italia, a cura di A. De Francesco, A. Andreoni, 2006, p. 429). 

Nel proclama del marzo 1799, certamente di mano del Cuoco, l’appello a sostenere la Repubblica era affidato a due elementi: per un verso, lo scopo e le finalità della Repubblica – «la pace nelle famiglie, l’integrità ne’ magistrati, la moralità e l’osservanza delle leggi in tutti i cittadini, l’amicizia, la fratellanza, la vera democrazia» (Epistolario, cit., p. 33) – sono rimessi alla volontà di reprimere gli abusi e le malversazioni dei pubblici uffici, onde far vedere a quanti intendono «sinistramente la libertà e l’eguaglianza  quanto sia lontano dallo spirito democratico il libertinaggio e l’eguaglianza mal intesa» (p. 34); per altro, e in coerenza con l’essenziale riferimento ai costumi e caratteri del popolo, la Repubblica «presterà al culto il suo rispetto» per conservarlo «in tutta la sua purità» (p. 35), che è un tema del Saggio circa l’incompatibilità di miscredenza e immoralità con lo «spirito pubblico» d’un governo democratico.  

La riflessione di Cuoco non trascura infatti il problema dell’identità, dei «caratteri» dei popoli, che nulla esprime più e meglio della conoscenza dei loro «costumi». E su ciò il Saggio storico fornisce una vera e propria fenomenologia.

Qui è utile richiamare almeno un fattore che è, altresì, uno di quelli che paiono agglutinare, nel positivo e nel negativo, i costumi atavici del popolo di Napoli.

Si tratta del fondamentale capitolo XXV del Saggio, sulla “Religione”, che s’apre con una osservazione decisa e precisa che fissa lo spazio dell’interesse di Cuoco:  Oggi le idee de’ popoli di Europa sono giunte a tale stato che non è possibile quasi una rivoluzione politica senza che strascini seco un’altra rivoluzione religiosa, doveché prima la rivoluzione religiosa produceva la politica (Saggio storico, cit., pp. 380-81). 

Un’affermazione che anticipa Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Per suo conto Cuoco specifica il significato del suo incipit, chiarendo inequivocabilmente il senso profondo del suo interesse per la religione. «La religione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo  era la religione che meglio convenisse alla democrazia» (p. 383).

«Nessun’altra religione tra le conosciute fomenta tanto lo spirito di libertà» quanto la religione cristiana, che ha  per base la giustizia universale: impone dei doveri ai popoli egualmente che ai re; e rende quelli più docili, questi meno oppressori.

La religione cristiana è stata la prima che abbia detto agli uomini che Iddio non approva la schiavitù: per effetto della religione cristiana abbiamo nell’Europa moderna una specie di libertà diversa dalla antica (p. 384).

Poco più tardi, in un articolo del 1804 del «Giornale italiano» (che dirigeva nella Milano cisalpina), Cuoco ritorna sul nesso tra «la religione e la virtù, cose tanto buone allo Stato», per affermare l’importanza per i popoli della «pace religiosa», che vinca le «dispute frivole», a causa delle quali  la religione ha perduto la metà dell’utilità sua, ogni qual volta, da soggetto di venerazione pel popolo e di carità per i suoi ministri, è divenuta e per questi e per quelli soggetto di contesa (Pagine giornalistiche, cit., p. 89). 

Con accenti premanzoniani, Cuoco ritiene che ciò non accade quando, con «nobili anatemi», i pontefici hanno impedito «maggiori oppressioni e desolazioni maggiori» per i popoli, conseguendo con «la religione ciò che non ha potuto ottenere la filosofia», ossia «la dichiarazione solenne che la schiavitù è contraria alla religione».

Poco più tardi, e sempre in un articolo del «Giornale italiano», ricordando il «Saggio sullo spirito e l’influenza della Riforma di Lutero» (come traduce il titolo francese dell’importante libro di Charles Villers), Cuoco sottolinea il rapporto tra «la religione» e la «libertà di pensare», condividendo il rammarico per quanto l’Europa ha perduto e invece avrebbe viepiù ottenuto se la religione avesse «potuto  divenire più pura e più tollerante» (Pagine giornalistiche, cit., pp. 147-48), senza trascurarne l’influenza su quella che Cuoco chiama «l’educazione del cuore», considerato che si deve «prima insegnare la morale per fare amare la religione», perché «il solo uomo virtuoso può avere religione: senza virtù non v’è ne è che l’apparenza, la superstizione».  

Con la qual cosa viene chiarito il «nesso tra religione e morale», kantianamente riportato da Cuoco a un insegnamento della Diceosina di Antonio Genovesi, il «Plutarco dell’Italia», il quale «ammette» la rilevanza della religione e della morale a condizione di ritenerle «indipendenti e dimostrabili ciascuna per se stessa», in modo che «della verità che tanto importa al genere umano di credere, dividendola, raddoppia per ogni dire la dimostrazione» (Pagine giornalistiche, cit., p. 420).

Questa singolare opinione chiarisce, tuttavia, il senso del discorso cuochiano che, evidentemente, guardava alla religione nella sua dimensione etica e nella sua funzione sociale. Il che consente non solo di collegare queste riflessioni a pagine dei Frammenti, ma anche di ritenere le opinioni di Cuoco non lontane da quelle di Karl Wilhelm von Humboldt dello scritto Über Religion (1789), ritornanti nelle Ideen del 1791 e del 1792, come dalle riflessioni di Benjamin Henri Constant de Rebecque (autore nel 1797 degli opuscoli Des réactions politiques e Des effets de la Terreur, ben critici degli eccessi della Rivoluzione) affidate al successivo De la religion considérée dans sa source, ses formes et ses développements (1824-1831).

Riprendendo i temi del gran dibattito di fine Settecento sul dispotismo, a cui la massoneria contribuì ad assicurare larghissima circolazione, cui non fecero eccezione gli ambienti intellettuali della Napoli prerivoluzionaria, Cuoco, che già nei Frammenti s’era fermato sulla distinzione tra il «dispotismo romano» e quello «turco» (provocatoriamente preferendo il secondo al primo, perché, in quanto prodotto della «forza», non nascondeva il suo volto «barbaro» sotto lo schermo formale delle «leggi», come l’altro), traduceva il vecchio dibattito in quello della distinzione e del rapporto tra «leggi civili» e «leggi politiche».

L’autorità dello Stato sta nell’equilibrio fra queste due leggi, le prime fondamento, base e criterio della costituzione (ossia dell’ordinamento giuridico), le seconde garanti della specificità di ciascuno Stato collegato all’ethos e all’ethnos di ciascun popolo da organizzare e governare (donde la necessità che le costituzioni siano come le vesti e le scarpe, che devono tener conto del corpo da rivestire: i costumi e i caratteri dei popoli).

In pagine turgide, fino a essere talvolta oscure per l’avvertita impellenza di affermare realtà nuove ancora prive del linguaggio che le novità esprimesse, Cuoco s’industria a definire le forme dell’organizzazione sociale, mirando a soddisfare l’omogeneizzazione (non l’uniformità) dei comportamenti individuali e collettivi e la ‘particolarizzazione’ propria delle leggi politiche in quanto regolamentazione di quei comportamenti.

In tal senso l’argomentazione è prossima a quella dei Frammenti sulla «volontà generale» e la volontà particolare, sulla funzione delle leggi per conseguire la «felicità» e la «virtù» del popolo, come Cuoco dice in termini ancora settecenteschi, dentro cui inserisce nuove esigenze e nuovi significati.

Riprendendo concetti e formule di Jean-Jacques Rousseau (che è certamente una sua fonte), Cuoco rileva che la «la legge è la volontà generale» e però inserisce subito un elemento di novità, quando, a proposito della «volontà particolare», attribuisce un compito di mediazione alla «legge» che ciascuna «nazione» ha per propria.

Ne discende che  quanto più dunque le nazioni s’ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà generale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale (Saggio storico, cit., p. 529). 

Il fatto è che Cuoco avverte troppo forte, in ragione del suo senso della storia, i momenti del particolare, che inducono a ipotizzare una forma non di repubblica federativa in senso proprio (che contrasterebbe con l’istanza dell’unità) ma un’articolazione di rapporti ben regolati tra «municipi», «cantoni» e Stato, convinto che la complessità delle recenti conformazioni di questo non dia fiducia all’«occhio unico» (quello dell’‘Io comune’, della ‘volontà generale’):

Quest’occhio unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi, e di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno né vedere né agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione (p. 532)  a danno dell’«attività individuale».

Ora, pur senza cedere ad anticipazioni, o avvicinamenti o analogie per somiglianza, è chiaro che qui – a testimonianza di una vissuta circolazione di idee –, dopo l’esperienza del duplice fallimento del dispotismo illuminato e del riformismo e poi della rivoluzione razionalistica, Cuoco mostra di avvertire con prontezza, pur utilizzando ancora parole antiche e strumenti tradizionali («comizi» municipali, «parlamenti cantonali» ecc.), la realtà e i compiti nuovi che la soluzione napoleonica della rivoluzione approntava e sembrava soddisfare, imponendo a un osservatore colto e intelligente come lui rinnovate riflessioni.

Il che appare evidente quando tutto il complesso di eventi coinvolti nella rivoluzione e nelle sue diverse facce e conseguenze ripropone la necessità di conseguire «il fine della virtù», ossia «la felicità», che è la soddisfazione dei «bisogni» in ragione delle «forze» disponibili. 

È evidente qui la ripresa di motivi rousseauiani che, negli anni di Cuoco – certo non a sua diretta conoscenza –, non diversamente erano stati ripresi da Immanuel Kant e ripensati da Humboldt.

Si tratta del problema della giustificazione della politica intesa non più come ricerca della forma migliore di governo, ma quale regolatrice dell’azione dell’uomo, dei suoi «bisogni» e delle «forze» necessarie a soddisfarli.

I Frammenti lo dicono con chiarezza, quando, proprio nel giro di frasi or ora ricordate, si dice che «la buona costituzione non è quella che solo porta al governo gli ottimi», perché «la nazione sarà felice, qualunque sia la forma del suo governo», quando lo Stato saprà conseguire «la felicità del maggior numero».

Come in Kant e in Humboldt, e nello stesso Rousseau, l’accordo tra «virtù» (libertà) e «felicità» (benessere economico) assegnava, nel rispetto di tutti e di ognuno, alla politica, al governo la funzione di farsi campo d’azione, spazio unitario dell’integrazione di morale, religione e benessere (un tema che torna prepotente nel «Giornale italiano» del 1804).

La condizione di ciò è la scelta d’una strada diversa da quelle tentate.

Lo Stato-macchina del dispotismo, illuminato o rivoluzionario, ha travolto l’individuo come uomo perché aveva bisogno di avvalersi del criterio dello sviluppo enunciato da Bernard de Mandeville nella famosa Favola delle api: per rendere felice la società è necessario che molta gente sia sventurata oltre che povera.

Al contrario, perché la rivoluzione sia «attiva» e non «passiva», in consonanza con Kant e Humboldt, Cuoco dichiara che va «accresciuta» la «cupidigia» (ossia lo stimolo all’accrescimento dei bisogni) «nelle classi inferiori», condizione perché il «basso popolo» sia «più agiato» e «più attivo», giacché «il desiderio di questa agiatezza, che si crede effetto della libertà, ne è stata sovente la cagione».

Lo Stato, che raccoglie in sé tutta la responsabilità del sociale, se spezza la diade virtù-felicità, trasformandosi in garante della «felicità» senza «virtù», rende i cittadini sudditi in quanto privi dello spazio della «libertà». Per Cuoco – come per Kant e Humboldt – la diade virtù-felicità deve tradursi nella diade virtù-utilità che equivale alla trasformazione della «felicità» in pubblica e privata moralità, ciò che Cuoco chiama «leggi politiche» e «leggi civili», fondamenti della costituzione e garanzia dell’uomo come libero cittadino nella concretezza della sua vita.

Qui la sua via si divide da quella di Rousseau e di Kant, perché contesta la funzione della volontà generale dell’Io comune, che assorbe in sé le volontà particolari, allo stesso modo come rifiuta l’imperativo puro del dovere che diventa il ‘Noi’ che ingloba l’individuo singolo nella comunità della specie. 

Per Cuoco (che così si trova non lontano da Humboldt) il raggiungimento della «felicità» non può mai disgiungersi dalla «virtù», esclude che la «felicità» sia il fine in sé e per sé a danno della libertà, spazio di differenze fissate dalla storia, di cui il legislatore non può non tener conto in fedeltà alla «filosofia dell’effettività della legge», che è il sistema di Cuoco, il quale lo esprime negando l’«ottimo che è il peggior nemico del bene», come ha mostrato il voler «tutto riformare» risoltosi nel «voler tutto distruggere».

Una simile idea vorrebbe dire «immaginare una costituzione che debba servire agli uomini savj», lo stesso che «voler immaginare una costituzione per coloro che non ne hanno bisogno, e non per coloro che ne abbisognano»: i «lazzaroni» di Napoli, i «feroci Calabresi», i «leggieri Leccesi», gli «spurei Sanniti».

Costoro, in questa realtà magica, resterebbero «a cibarsi di ghiande» persistendo dualismo, illibertà, infelicità.

E Cuoco conclude così i suoi Frammenti, chiave teorica del Saggio: Quando, parlando agli uomini, ci scordiamo di tutto ciò che è umano; quando, volendo insegnar la virtù, non sappiamo farla amare; quando, seguendo le nostre idee, vogliam rovesciare l’ordine della natura [la storicità degli uomini], temo che in vece della virtù insegneremo il fanatismo ed in vece di ordinar delle nazioni fonderemo delle sette ... (Saggio storico, cit., p. 578). 

La conclusione del discorso è affidata al Platone, libro «archeologico» alla ricerca delle scaturigini della civiltà italiana dove «l’antichità italiana» «non è più guardata con la distante deferenza di una concezione platonizzante e parabolica della storia», bensì come critica ricognizione di un momento della contemporaneità inserita in uno schema diacronico, dove «la polemica anti-greca e anti-romana è più storiografica che storica» (Mario Sansone, Romanzo archeologico e storicismo nel “Platone in Italia” di V. Cuoco, «Annali della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bari», 1966, 11, pp. 238-39).

Nel Platone, e non solo in esso, Cuoco assimila «agricoltura e virtù» come forze che «bastano» da «sole a render felice un popolo» (Platone in Italia, cit., p. 351).

Qui si esalta «la virtù» la quale «non è che nei campi» dove solo «gli Iddii» possono ritornare quando abbandonano, per la corruzione degli animi umani, le città a lungo abitate.

L’ultima ad abbandonar le città già tinte di sangue dicesi esser stata la Giustizia; ma io credo che se mai essa ritorna tal volta dal cielo a riveder le terre abbandonate, conversa cogli agricoltori .

Né ha dubbi Cuoco nel ritenere come nazione che ha più spirito pubblico quella che «più ama l’agricoltura e meno aborre la milizia», perché «l’agricoltura tra tutte le arti è quella che meglio conserva la gravità de’ costumi ed il rispetto delle leggi» (Pagine giornalistiche, cit., p. 223).

E l’elogio dell’agricoltura si salda con l’affermazione della proprietà privata come principio irrinunciabile di uno Stato moderno ordinato e tranquillo, capace di evolvere con giuste riforme senza cedere alla violenza delle rivoluzioni.

La proprietà diventerà la base di tutte le costituzioni: quella costituzione che sola può tenere uno Stato lontano dalla letargica indolenza della oligarchia e dalle funeste commozioni della oclocrazia, perché né lo priva dell’opera di molti i quali possono con la loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai disporre l’ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; né, d’altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di coloro i quali non hanno verun interesse a sostenerlo (Pagine giornalistiche, cit., p. 62).

Neppure in queste affermazioni, configuranti una strutturazione liberal-moderata, mancano i riflessi della giovinezza rivoluzionaria del Molisano: l’elogio dell’agricoltura non è infatti indifferente all’ipotesi d’una società di ‘agricoltori filosofi’, che ricorre, con diverse accezioni, nell’utopia giacobina dei Pensieri politici di Russo come nello storicismo passatistico del tradizionalismo di Justus Möser, in entrambi i casi sulla linea ora del savignyano «Volksgeist», ora dell’«etica pubblica» a sostegno dello «spirito pubblico», che, consolidatosi nelle forme di uno Stato costituzionale, deve aprire la strada a una società fondata sulla proprietà, purché questa, a sua volta, sia fondata sul lavoro, che la produce e la legittima.

Per Cuoco, infatti, la proprietà non trova giustificazione in natura, la quale «non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa proprietà se non per il consenso degli uomini», così che l’indispensabile legge agraria doveva, avrebbe dovuto, deve perseguire  se non la perfetta eguaglianza, almeno quella moderazione dei beni, che in una gran nazione è più utile, meno pericolosa e più vicina alla vera eguaglianza (Saggio storico, cit., p. 378).

Ciò in nome di una diagnosi lucidamente storica, che, nel contrapporre il vero al perfetto, voleva ottenere la liberazione del popolo «da tutto ciò che turbava l’esercizio dell’autorità pubblica, comprimeva e distruggeva l’industria, ed impediva la libera circolazione della proprietà» (Saggio storico, cit., p. 380 nota), scongiurando il pericolo – divenuto preoccupazione assorbente di Cuoco, dopo il fallimento della Repubblica – che la rivoluzione affogasse le sue autentiche, vere possibilità nella ricerca «chimerica» dell’«eguaglianza dei beni», per allora irreale.

Nel che si affaccia un’altra preoccupazione, divenuta un topos nella pubblicistica politica prerisorgimentale, secondo cui l’eccesso rivoluzionario, nelle condizioni italiane, porta alla reazione e non alla democrazia.

Su tale linea, oltre che un ulteriore chiarimento dell’idea cuochiana di rivoluzione, si ottiene, altresì, una chiarificazione dell’elogio, mitico e nostalgico, dell’antichità italiana pregreca e preromana. La chiave va trovata nell’ambivalenza del classicismo italiano, che raccoglieva e cercava di coniugare il classicismo radical-giacobino e il purismo, che ricercava il carattere proprio, originario e puro, della lingua italiana nella sua classica semplicità.

Nel che si infiltrava l’antico misogallismo, non scomparso neppure nei sostenitori dei regni napoleonici. A sua volta il tema dell’antico anticipava il problema della divisione tra «vincitori e vinti» (che sarebbe stato proprio della ‘storiografia dualistica’ del primo Ottocento) da Cuoco già presentata, in chiave non solo politica ma anche sociale, con la «teoria» dei «due popoli», ch’egli ormai mirava a vedere risolta se lo Stato non vuole essere minacciato «d’inevitabile debolezza per la fatale divisione» «tra una parte della nazione e l’altra», rendendo inevitabilmente e gravemente «inutile una delle due», col che anche lo Stato perisce. 

La soluzione di Cuoco sta nel governo dei «migliori», che non sono solo gli «ottimi», in ogni modo da ricercare non «individualmente» ma «per classe», cercando il «perfezionamento della morale pubblica» e soprattutto l’unificazione delle «parti» nella «partecipazione» comune alla cosa pubblica.

Nella stessa direzione si muovono l’intera attività pubblicistica e le ricerche di «statistica» del periodo milanese, i cui nuclei aggregativi principali sono il conseguimento di un diffuso «spirito pubblico», attraverso l’«educazione popolare», e il progetto di «riunir l’Italia» attribuito a Niccolò Machiavelli e illustrato attraverso disgiunzioni e comparazioni di vari momenti della storia d’Italia.

Dal «bel regno de’ Goti, fondato da Teodorico» e «perduto per la vigliaccheria dei suoi successori», alle incerte «promesse» di Carlo Magno e soprattutto al grande «Federico II di Svevia», il quale «riuniva in sé e titolo e domini in Italia», onde avrebbe «saputo e voluto produrre il vero bene d’Italia», se «non fosse stato costretto a dividere le sue cure in due», ossia tra Italia e Germania.

Non così poteva operare il regno «de’ Longobardi», che «non produsse verun effetto» unificante, per l’impossibilità da parte dei re di «contenere nell’ubbidienza» i vassalli, a iniziare dal «Ducato di Benevento, che valea quanto il rimanente del regno» (Pagine giornalistiche, cit., pp. 67-68). 

Queste le situazioni storiche che hanno configurato il vero ostacolo all’unificazione del Paese – una volta perduta l’antichissima civiltà pregreca e preromana. Situazioni che Cuoco riporta a due fattori diversi e convergenti: «I popoli del settentrione che invasero» l’Italia e le province settentrionali dell’impero romano che vi «recarono leggi rozze quali erano i loro costumi».

Ciò comportò la divisione «tra due popoli», gli «antichi abitanti» e i nuovi, che «continuarono a vivere con le loro antiche leggi», quasi creando «uno stato entro un altro stato» (p. 91). Una ripresa, ora fondata storicamente, della teoria dei «due popoli» del Saggio, che qui davvero anticipa alcune tesi del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia di Manzoni.

L’«altra peste» che «ebbe l’Italia fu la setta de’ Guelfi e de’ Ghibellini» (p. 69), dove lo studioso poneva un duplice problema: la configurazione sociale e istituzionale di due Italie, quella dei Comuni e quella del Regno, e l’invito a riflettere sul ruolo e il peso dei «comuni» (espressione anch’essi di una «particolarità», non meno dei vecchi «costumi» del regno monarchico) rispetto al «generale» disegno unitario, prefigurato dal Regno normanno-svevo (Cuoco è tra quelli che non valutano positivamente la monarchia angioina, ancor qui anticipando una precisa opzione prerisorgimentale, diversamente vissuta proprio nel Mezzogiorno, con l’autonomismo siciliano, in contrasto con l’accentramento napoletano esemplato nella Napoli angioina).

Se tutto quanto qui riassunto si proietta sullo scenario del «nuovo sistema» dell’Europa napoleonica (altro tema del «Giornale italiano»), si trovano i rudimenti dell’impegno da Cuoco svolto, finalmente da protagonista, nella Napoli di Giuseppe Bonaparte e di Murat.

Negli articoli dei giornali napoletani che paiono, assai spesso, commentare l’azione di governo, l’uso della storia si traduce nella preparazione del presente e del futuro affidati alla fondazione dello Stato nuovo (quale quello inaugurato da Napoleone I Bonaparte, al di là di tutte le ambiguità e limiti e quale Cuoco sperava di vedere finalmente realizzato a Napoli, come germe dell’unificazione e indipendenza nazionale).

La condizione era, e questa volta nel concreto dell’azione, che la storia da comprendere e utilizzare non fosse, come dicono pagine lucidissime, quella «de’ geni» e «degli spiriti», viziate di «soverchia metafisica», rimproverata perfino al «gran Vico».

Al contrario, seguendo proprio gli insegnamenti veraci del gran filosofo napoletano, bisogna interrogar la storia per trovare «le origini dei popoli», come Vico aveva fatto con la storia di Roma, utilizzata quale «esempio sperimentale di quella storia eterna del genere umano che egli ha osato disegnare».

Ma c’è di più. Il «vero scopo» di chi indaga le origini dei popoli è conoscerne «lo sviluppo vero», senza corrompere «la serie e la successione delle cose», ossia, ancora una volta, secondo la «filosofia tutta di cose», ricavabile da Genovesi perché si richiamasse «la filosofia dalle astrazioni teologiche-metafisiche-legali alla casa», ossia alla conoscenza dell’effettività delle cose quali sono realmente accadute.

Il progetto che vedeva Cuoco protagonista del governo murattiano nelle scelte determinanti per l’organizzazione «costituzionale» del Regno erano ormai le «utili riforme»: la riforma dell’istruzione di cui all’importante Relazione al Re del 1809, l’autonomizzazione della funzione amministrativa, la riforma del sistema fiscale, l’organizzazione della giustizia, la costituzione delle istituzioni per l’educazione delle donne ecc., ossia tutto quanto doveva rendere effettivo lo «spirito pubblico», attraverso «l’educazione popolare», che significa sempre più per Cuoco l’acquisizione della dignità di «cittadino», la realizzazione della «società civile», struttura della «costituzione» politica.

Tutto ciò significava la fedeltà all’antica esigenza «costituzionale» che, anziché negata, era il criterio delle critiche al paganiano Progetto di costituzione, ormai ripreso rinnovando la teoria dei «due popoli» e del necessario richiamo ai «costumi» del popolo nella direzione d’una realistica lettura della storia recente e recentissima del Regno di Napoli. 

Nell’articolo del 1804 Due frammenti di una storia politica d’Italia e nell’altro del 1805 Sul Regno d’Italia l’esigenza reggente il ragionamento è «l’unione delle due nazioni dei vincitori e dei vinti», sia essa da attribuire «a gloria dei goti o dei longobardi».

Essa, a Napoli, si traduce nella rivendicazione del nesso indipendenza-costituzione, condizione per rendere ai cittadini «la libertà civile», grazie a cui cresce «l’indipendenza», senza di cui non si dà libertà.

L’abolizione della feudalità, ricordata nell’articolo Alcune osservazioni sulla storia della legislazione del Regno (1815), viene riferita al nesso «piena libertà civile delle persone» e «pieno dominio delle terre», destinato a vincere la «guerra civile tra i possidenti e i poveri» (una nuova configurazione dei «due popoli»), per favorire nelle cose e non solo in carta «l’unità» e «l’indipendenza» della nazione nella configurazione costituzionale, per vincere «la infelice divisione politica» in nome dell’«eredità del gran Federico», nipote del non meno «grande Ruggiero» (Pagine giornalistiche, cit., p. 880).  

È in siffatta prospettiva che acquista senso la ricerca storiografica cuochiana in parallelismo con l’azione di riforma, al di là dell’apparente e consapevole anacronismo del racconto della storia antica, richiamata a precisare i vari profili delle condizioni passate e delle nuove del Mezzogiorno, in vista dell’Italia unita.

La «cognizione dei fatti» e il «paragone» con le «parti della civilizzazione di popoli che sappiamo essere venuti tra noi» servono a dare contezza dell’«insieme» dei «fatti», perché si «adattino agli usi della nostra vita ed ai bisogni nostri».

Vale a dire perché rispondano alle domande del presente e alle imprescindibili sollecitazioni della vita vissuta in anni travagliosi ed esaltanti, difficili ed eroici.

Da qui l’entusiasmo degli ultimi articoli (del 1814 e 1815) per lo sfortunato, forse presuntuoso e perfino strumentale, tentativo di Murat, da Cuoco vissuto onestamente nei suoi appelli sinceri all’«amor della patria» e all’«orgoglio nazionale».

In tal senso la supposta adesione ideologica al quadro ideologico della monarchia amministrativa era la consapevole scelta di utilizzare le possibilità realisticamente esistenti per la modernizzazione dello Stato nuovo, sulla scorta di una lucida interpretazione storiografica e filosofica che in politica anticipava la rilevanza dell’amministrazione in rifiuto delle antiche impostazioni privilegianti la ricerca della «miglior forma di governo».

 

 

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