Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Libero Serafini, martire agnonese della Repubblica Napoletana del 1799

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Sono trascorsi oltre due secoli dalla morte di Libero Serafini, che diede la vita per rimanere fedele alla Repubblica Napoletana del 1799. E’ bene ricordare questo illustre figlio dell’Alto Molise per tener vivo il senso del suo significativo ed estremo sacrificio.

 Egli nacque ad Agnone il 6 dicembre 1751 dal notaio Giuseppe Serafini e dalla signora Anna Rosa De Curtis. I suoi genitori avevano la casa nella parrocchia di S. Marco. La sua famiglia era agiata. Fu il primo di sei figli. E sembra un segno del destino che i genitori gli abbiano dato il nome di Libero, che certamente riassume il senso della sua vita.

 Cominciò i suoi primi studi in Agnone. Poi, seguendo le orme del padre, frequentò i corsi di giurisprudenza all’Università di Napoli e all’età di 25 anni, precisamente nel 1776, fu abilitato alla professione di notaio

Egli svolse nella città natia la sua  attività con serietà e intensità tanto è vero che si conservano dei suoi protocolli notarili ben 24 volumi nell’Archivio Provinciale di Campobasso. Egli era molto apprezzato  in Agnone per il suo senso della giustizia, per la sua filantropia, per la sua equità e per la sua integrità morale. Univa all’attività di notaio anche quella di “patrocinatore”, tesa a comporre le liti fra i suoi concittadini. Tutti accorrevano a lui per le decisioni giuridiche da prendere e anche per amichevoli consigli.

Il suo lavoro  lo rese abbastanza ricco,  tanto è vero che – secondo P. Bonavolta, - nel 1787 rogò 327 atti rispetto ai 44 rogati dagli altri 4 notai presenti in Agnone. La sua fiorente attività gli permise l’ acquisto di  una nuova abitazione nella parrocchia di S. Biase, segnata col numero civico 12 di Salita Serafini, cioè della strada che oggi è  intestata al suo nome. Questa   abitazione venne subito chiamata dal popolo “casa Don Libero”.

Nel 1779 si sposò con Donna Concetta Arruffo di Fara San Martino, dalla quale ebbe quattro figli: Giuseppe Nicola, Francesco Antonio, Maria Nicoletta e Mariano.

Don Libero visse certamente in un’età eccezionale, cioè nella seconda metà del Settecento, caratterizzata dagli impetuosi venti rivoluzionari dell’Illuminismo, che produssero soprattutto la Rivoluzione Francese, che sconvolse l’intera Europa e di conseguenza anche l’Italia

Agnone, che allora apparteneva non al Molise ma all’Abruzzo Chietino, aveva tra i professionisti e i preti diversi simpatizzanti alle idee democratiche che provenivano dalla Francia.

 Nel Regno di Napoli, malgrado le riforme illuministiche compiute dal ministro Bernardo Tannucci, i privilegi delle classi dominanti, nobili e clero, continuavano ad essere esorbitanti, per cui le idee rivoluzionarie e democratiche d’Oltralpe apparivano quelle necessarie per cercare di rendere più libera, egualitaria e giusta la vita sociale. 

Ad Agnone, negli ultimi decenni del Settecento, coloro che simpatizzavano con le idee illuministiche francesi si riunivano nel Fondaco Covitti, sito in Piazza del Tomolo, oggi Piazza Plebiscito. A queste riunioni partecipava Libero Serafini, di cui si conoscevano le simpatie per le idee liberali e giacobine. Tra l’altro egli aveva la sua nuova casa poco distante da Piazza del Tomolo.

Secondo l’antropologo americano William Douglass, studioso di Agnone, nella seconda metà del Settecento ci fu una lunga e aspra contesa tra i giacobini locali e i baroni dell’epoca per il controllo del Comune. Secondo le ricerche di questo studioso «l’elezione del sindaco nel 1781 si svolse in un clima particolarmente accanito e di coercizione. Fucilieri armati furono piazzati presso i seggi elettorali e a Libero Serafini, egli stesso ex sindaco della città, fu impedito con la forza di accedere al municipio».

Dalla notizie che abbiamo si può dedurre che Libero Serafini fosse una persona particolarmente attiva, che in età giovanile non solo era diventato il più amato e frequentato notaio di Agnone, ma aveva partecipato poco prima dei 30 anni alla vita amministrativa, diventando anche sindaco della sua città. Per non parlare poi del fatto che aveva messo in piedi anche una famiglia con quattro figli.

 

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Agnone. MoliseDi lui di certo sappiamo che nel 1799 non partecipò ai primi scontri violenti tra realisti e giacobini in Agnone (13-15 gennaio) ma che, dopo la costituzione della Repubblica a Napoli (23 gennaio), e precisamente nei primi di febbraio, fu nominato all’unanimità Presidente della Municipalità della sua città, sia per la stima che tutti avevano di lui, sia per le sue idee liberali, ma anche per la sua esperienza di amministratore comunale. Diventò quindi protagonista principale dell’adesione di Agnone alla Repubblica Napoletana.

Libero Serafini svolse il suo incarico di Presidente della Municipalità in due tempi: il primo dagli inizi di febbraio al 19 maggio, durante il quale egli fu attivo restando però sempre in Agnone; il secondo dal 20 maggio sino all’11 giugno, durante il quale si impegnò fuori dalla sua città.

In quei pochi più di cento giorni del primo periodo, egli si dedicò soprattutto a portare avanti la Municipalità di Agnone, uniformandola, con i dispacci che provenivano da Napoli, alla nuova realtà amministrativa repubblicana. Viene anche ricordato come valente oratore, inneggiante alla democratizzazione di Agnone, con qualche discorso fatto sotto gli alberi della libertà, innalzati in Piazza del Tomolo o in località Fontana Rosa, cioè dove fu poi costruito il suo monumento.

Come capo della Municipalità diede certamente  il suo assenso alla costituzione della Guardia Civica di Agnone. Egli, incline alla pace, non può essere considerato responsabile di alcuni eccessi di violenza da parte dei liberali agnonesi, che in qualche modo dovette, suo malgrado, sopportare.

Una delle sue costanti preoccupazioni fu quella di far sì che Agnone non fosse preda di aspre contese. Riuscì certamente, con interventi oculati e tenendo vivo l’ entusiasmo rivoluzionario, a frenare pacificamente, per quanto era possibile, qualsiasi reazione violenta di agnonesi favorevoli al Re Ferdinando IV di Borbone.

Ma alla fine accadde che, prima del 15 maggio, quando le sorti della Repubblica erano ormai segnate, don Giuseppe De Cristofaro, sacerdote agnonese, forse anche sollecitato da altri realisti locali, andò a Lanciano per convincere il Pronio ad occupare Agnone.  Questi  scrisse subito una lettera, datata 15 maggio,  ordinando al Presidente della Municipalità di Agnone, Libero Serafini,  di abbattere gli alberi della libertà e di “realizzare” la sua città. Il Serafini – come ha scritto il Perrella - rifiutò di eseguire quest’ordine, precisando che lui non sarebbe mai venuto meno al giuramento prestato alla Repubblica Napoletana. Questo comportamento del Serafini ci rivela chiaramente il suo modo di pensare in quel momento ed è anche premonitore di quanto sarebbe accaduto a distanza di poco meno di un mese.

I giorni dal 15 al 20 maggio  furono particolarmente difficili per tutti i giacobini agnonesi. Non si sapeva in verità cosa esattamente fare. Le opzioni erano le seguenti: a) restare in Agnone per difenderla dall’arrivo dell’esercito del Pronio: impresa questa  praticamente impossibile; b) andare a Campobasso a chiedere aiuto al commissario Neri, perché venisse a difendere Agnone. Si pensava anche se non fosse necessario mandare invece aiuti ad Avellino o a Napoli per l’estrema difesa della Repubblica.

 

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E’certo che il 20 maggio con i componenti della Guardia Civica e con altri liberali agnonesi, tra i quali Carlo Barbieri e don Giuseppe Lucci, il Serafini lasciò la sua città per recarsi a Campobasso al fine di chiedere rinforzi per respingere le forze del Pronio, che erano pronte ad invadere Agnone. Inizia così il secondo tempo dell’impegno del notaio Serafini, come Presidente della Municipalità,  che verrà svolto completamente fuori Agnone e durerà poco più di 20 giorni e avrà come epilogo la sua morte.

Mentre i liberali agnonesi erano partiti per Campobasso in cerca di aiuto, i realisti ripresero il sopravvento in Agnone. Accadde che il capo massa Pronio diede l’incarico di “realizzare” Agnone a due sacerdoti locali, cioè al già nominato don Giuseppe De Cristofaro e a don Giuseppe Daniele, parroco della chiesa di S. Antonio Abate. A tal fine questi sacerdoti invitarono un fiduciario del Pronio, Fedele Federici, che stava in quei giorni a presidiare la vicina Castiglione Messer Marino, a conquistare la loro città. Così che il 27 maggio il Federici entrò trionfante in Agnone per abbattere gli alberi della libertà e rimettere in auge gli antichi ordinamenti borbonici. Finiva in questo modo il sogno della repubblica in Agnone.

Nel frattempo i giacobini agnonesi che si erano recati a Campobasso, e si erano incontrati col Neri, si resero conto che la situazione stava del tutto precipitando: l’esercito francese aveva lasciato indifeso il suolo della Repubblica, perché era stato costretto a risalire precipitosamente nell’alta Italia per ostacolare l’avanzata austro-russa tesa ad invadere la Francia; l’esercito sanfedista, nel frattempo, al comando del Cardinale Fabrizio Ruffo,  passava, pur con metodi violenti, di vittoria in vittoria e ormai era deciso a conquistare Napoli.

Presi dal dilemma del “che fare?”, la maggior parte dei liberali agnonesi, che erano andati a Campobasso, decise di rientrare nella loro città. Può darsi che non si fosse neanche a conoscenza che Agnone era ormai ritornata nelle mani realiste. Questi liberali  furono poi fatti prigionieri presso Caccavone (oggi Poggio Sannita) dai borbonici e inviati alle carceri di Chieti.

I giacobini agnonesi rimasti uniti al Neri, cioè Libero Serafini, Carlo Barbieri, don Giuseppe Lucci e altri, resisi conto che non era possibile più difendere Agnone ed era pericoloso per loro anche il rientro, si convinsero che non rimaneva altro da fare che cercare di dare il loro aiuto per la salvaguardia dell’ormai agonizzante repubblica napoletana.

Usciti da Campobasso nella direzione di Napoli, il Neri con i suoi seguaci e con gli agnonesi si scontrò tra Campochiaro e Guardiaregia, quindi nell’area del Matese, con i realisti e durante questo combattimento Libero Serafini, che non usava armi, fu ferito a un braccio.

Che cosa sia poi accaduto è difficile dirlo. E’ possibile che a causa dello  scontro i liberali si siano trovati dispersi e separati. E’ certo che col Neri, che aveva a Campobasso mostrato l’intenzione di recarsi a Napoli, per l’estrema difesa della capitale della Repubblica, siano rimasti uniti gli agnonesi Don Giuseppe Lucci e Carlo Barbieri.  Di questo rientro il 7 giugno a Napoli del Neri e seguaci dette notizia Il Monitore Napoletano del giorno successivo.   

Libero Serafini, che era rimasto ferito e in maggiore difficoltà, per sfuggire ai realisti si ritrovò invece sulla strada di Avellino,  e sperò di ricongiungersi ai resistenti liberali di questa città al fine di impedire all’esercito sanfedista di raggiungere Napoli per la naturale strada a nord del Vesuvio.

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 La cattura e la condanna di Libero Serafini ad Avellino ci vengono raccontate dagli storici sanfedisti che erano al seguito del cardinale Fabrizio Ruffo. Stranamente non esistono fonti liberali a raccontarcela, cosa che sarebbe stata  più giusta, giacché il Serafini era un giacobino.

Il memorialista sanfedista D. Petromasi, nella sua storia relativa alla spedizione dell’armata del cardinale Fabrizio Ruffo, ricorda ampiamente quanto accadde in quell’ occasione a Libero Serafini.

L’armata della Santa Fede entrò ad Avellino il 10 giugno e il Petromasi racconta che il colonnello sanfedista D. Scipione della Marra e il Padre Maestro Cimbalo, mentre si recavano – dietro ordine del cardinale Ruffo -  in un quartiere a calmare alcune truppe di fucilieri, smaniosi di raggiungere subito Napoli, si imbatterono in un picchetto di Calabresi, che conducevano legato un uomo di avanzata età,  che si chiamava Libero Serafini. Essi, mossi dalla curiosità  di sapere il motivo perché era stato arrestato, chiesero direttamente al Serafini chi fosse. Rimasero colpiti nel sentirsi rispondere: “Io sono il Presidente della Municipalità di Agnone in Provincia d’Abruzzo”. Al che con sospetto gli chiesero: “Chi viva?” ed egli coraggiosamente rispose: “Viva la Repubblica Francese e Napoletana”. Gli astanti sanfedisti si meravigliarono a tal punto del comportamento di sfida del Serafini che avrebbero voluto subito sopprimerlo.

Ma poi accadde che fu condotto dal Cardinale Ruffo, che sembrava disposto ad essere clemente nei suoi confronti. Infatti il Porporato gli disse che, essendo caduto nelle mani delle forze reali, poteva salvarsi solo riconoscendo l’errore commesso di essere diventato repubblicano. Ma Libero Serafini– sempre secondo il memorialista Petromasi – rispose con molta calma, ribadendo la sua posizione, e non volle abiurare. Alla fine gli fu detto che se avesse pronunciato solo la frase “Viva il Re!” avrebbe evitato la morte. Egli continuò invece a rispondere “No, ho giurato fedeltà alla Repubblica Napoletana e Francese; e quindi non posso né devo più retrocedere dal prestato giuramento”.

Il cardinale Ruffo allora consegnò il Serafini ai Ministri della Giustizia per essere giudicato e condannato secondo le leggi. L’atteggiamento del Serafini colpì a tal punto il Petromasi, che questi, secondo il suo modo di vedere sanfedista, ha lasciato scritto: “E fu da notarsi altresì, che neppur l’aspetto di una morte infame né la persuasione dei padri assistenti valsero affatto a rimuoverlo dalle folli idee, da cui era allucinato. Contentandosi così di riportare il premio del suo giuramento alla Repubblica”.

A parlare della cattura, della condanna e della morte di Libero Serafini fu anche l’Abate sanfedista Domenico Sacchinelli,  che, per non essere stato “testimonio di veduta”, nel suo succinto racconto sul Serafini, è certamente meno attendibile rispetto a quello del Petromasi.

Per quanto riguarda l’impiccagione  di Libero Serafini fa fede il Libro dei Morti (n. 79) della Parrocchia di S. Maria di Costantinopoli di Avellino. Libero Serafini venne impiccato nelle prime ore del mattino dell’11 giugno 1799 sotto la Porta di Puglia. Aveva 47 anni e mezzo. ”La povera vittima – come ha scritto Giustino Fortunato – lasciata più ore penzoloni a pubblico ludibrio, le mani legate dietro la schiena e il viso orribilmente contorto, venne tratta finalmente alla sepoltura nella ignobile fossa comune”. Nel Libro dei Morti  è anche scritto che fu “sepultus in Ecclesia Montis Serrati”.

 

***

 L’impiccagione di Libero Serafini fu certamente determinata da una profonda fede in un ideale politico, cioè quello liberale e repubblicano. Tanto era importante per lui questo ideale da aver dato per esso la stessa vita. Non è facile trovare un esempio così coerente e coraggioso di fede politica, come quello che ci è stato dato da Libero Serafini.

 Per capire bene la grandezza del suo sacrificio, bisogna, a mio avviso,  fare alcune considerazioni.

 La prima riguarda la fermezza del notaio agnonese di non voler abiurare il giuramento prestato alla Repubblica Napoletana del 1799, che colpì a tal punto gli storici sanfedisti da giudicare il Serafini con le parole “invasato”,” allucinato”, “fanatico”, “folle”. In verità queste parole sono dette da una posizione contraria al pensiero del Serafini e perciò sono di parte. Esse tuttavia nascondono la fede e l’intransigenza morale del notaio agnonese. In verità nel racconto del sanfedista Petromasi, così ricco di particolari, appare chiaro come si era restati colpiti di fronte a una persona, che si sarebbe potuto facilmente salvare e che invece era stata capace di dare la vita per la Repubblica Napoletana.

La seconda considerazione, che evidenzia la singolarità e l’eccezionalità del martirio del Serafini, sta nel fatto che dopo la restaurazione borbonica quasi tutti i liberali agnonesi, che parteciparono in qualche modo a favore della Repubblica, pur di salvarsi da condanne, anche a morte, o da confische di beni, cercarono di ritrattare e dimostrare come erano invece restati fedeli alla monarchia. Pensando a ciò si può ben constatare come fosse invece grande la coerenza morale e lo spirito di sacrificio del Serafini.

La terza considerazione è che il suo martirio per una fede politica appare simile al martirio per una fede religiosa. Il suo biografo, Gaetano Amato, ha paragonato il martirio del Serafini a quello dei primi cristiani. Infatti sono martiri del Cristianesimo quanti, non volendo rinnegare la propria fede, hanno dato la vita durante le persecuzioni, ordinate da alcuni imperatori romani.  In verità il Serafini,  anche se aveva affrontato il suo sacrificio per fini politici, pare che fosse tra l’altro anche una persona religiosa, se è vero che faceva parte in Agnone della Congrega della Madonna della Mercede per la Redenzione degli Schiavi e che ad essa aveva donato una lampada d’argento, ennesima prova che egli “faceva delle sue ricchezze uso nobile e filantropico”.

 La quarta e ultima considerazione da fare è che in genere durante le guerre, le rivoluzioni, ecc. si perde la vita quasi sempre non volontariamente. Anche le grandi figure della Repubblica Napoletana del 1799, che furono tradite e giustiziate, avevano concordato di aver salva la vita. L’impiccagione ad Avellino del Serafini invece fu un martirio affrontato volontariamente da solo, in un ambiente lontano e ostile, nel più umile incognito. Una straziante morte che non fu evitata,  perché il Serafini non volle tradire i principi morali della propria coscienza e della sua fede politica. Con l’estremo sacrificio della vita egli si privò anche della  sua famiglia, della sua professione, della sua ricchezza. Tanto amore  per il proprio ideale politico di libertà e di giustizia colloca certamente Libero Serafini in una delle pagine più fulgide della storia della Repubblica Napoletana del 1799.

 

 

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