Antonio Jerocades, lo spirito vivo della poesia
Antonio Jerocades (1738-1803), originario di Tropea, fu un sacerdote massone che frequentò attivamente i patrioti della Repubblica Napoletana, dopo aver frequentato precedentemente la cerchia di amici e allievi di Antonio Genovesi. Fu nel contempo scrittore e poeta, pubblicando, oltre ad opere di chiaro stampo massonico che gli procurarono persecuzioni e sofferenze, una raccolta di liriche da cui si evince la sua visione di una umanità destinata ad una vita armoniosa e serena, fondata sull'amicizia, la fratellanza, la tolleranza e la libertà. Nel presente scritto si intende focalizzare l’attenzione sul contributo rilevante che Jerocades diede alla diffusione del “melologo”, tramite l’opera Prometheus, considerata la più importante di questa forma di teatro musicale del settecento dopo il Pygmalion di Jean Jacques Rousseau. Il melologo indica un genere teatrale nel quale la musica non intrappola la parola nell’intonazione cantata alla maniera del melodramma, ma si insinua negli interstizi della declamazione, amplificando gli stati emotivi del personaggio recitante e illustrando descrittivamente le immagini evocate nel testo. La pièce Prometheus di Antonio Jerocades fu scritta prima della rivoluzione francese con l’intenzione di esprimere primariamente i principi che miravano al perfezionamento e all’elevazione dell’uomo. Quindi la pièce è da considerarsi più pedagogica che prettamente drammaturgica, poiché mirava alla diffusione dei valori fondanti di libertà, tolleranza, fratellanza e trascendenza, e il melologo si prestava bene al suo intento di intellettuale di forte fede latomistica. Jerocades si servì di un simbolo classico quale Prometeo tanto caro all’immaginario massonico. Il "suo" Prometeo non è colui che rubò il fuoco agli dei e fu pertanto condannato al supplizio del fegato eternamente roso e rinascente, ma si rapporta al Prometeo, figlio di Japeto, che, volendo imitare la divinità creatrice, formò una statua ed implorò Febo affinché la animasse, rendendola vivente. In tale soggetto si rivela una concezione non ortodossa del mondo, prettamente “eretica” nell’immagine di un cosmo pervaso interamente dallo spirito vivo e vitale che penetra in ogni essere e in ogni oggetto. I seguenti versi della pièce sono più che eloquenti al riguardo: “Non è bruta la terra? E pur produce Si nota chiaramente come Jerocades intendesse veicolare un forte messaggio filosofico e religioso caratterizzato da una forte impronta esoterica e massonica. Il Prometeo non fu mai rappresentato, ma ebbe l’intento di esplicitare le concezioni dell’autore in merito all’anima del corpo e del tutto: Furono tali teorie intrise di “fatalismo, materialismo, ateismo, panteismo, naturalismo" che fecero sì che la Chiesa lo perseguitasse più che per l’opera sua più famosa, il Pulcinella fatto principe, con palese sarcastico riferimento a Ferdinando IV. Jerocades fu più volte imprigionato a Napoli, esiliato presso i frati alcantarini del convento Santa Croce di Pignataro Maggiore. Solo durante i sei mesi della Repubblica Napoletana poté esprimere le sue idee, far conoscere appieno le sue opere, ma dopo la caduta della Repubblica dovette rifugiarsi nuovamente in Marsiglia, altro suo luogo di esilio. Lasciata quella città nel 1801, e passando per Roma e Napoli, fece ritorno a Tropea, suo paese natio, ma alcuni pensieri politici e di giustizia sociale pronunciati nell'elogio funebre alla memoria di suo fratello Vincenzo, ufficiale di marina, gli procurarono l'ultima correzione nella Casa dei Padri Liguorini di Tropea, ove morì il 18 novembre del 1805.
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