La poesia di Ignazio Ciaia, patriota e martire della Repubblica Napoletana del 1799

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Ignazio Ciaia (Fasano 1776 - Napoli 1799), martire della Repubblica Napoletana del 1799, era un giovane borghese di buona famiglia che sacrificò ogni ricchezza per la libertà e la causa rivoluzionaria.

Rinchiuso a Sant’Elmo per le sue idee repubblicane nel 1794, superò quei momenti terribili , ritrovando nella poesia una forte  ispirazione al punto che, non avendo strumenti  per scrivere, memorizzava le sue liriche e le ripeteva al compatriota Mario Pagano.

Era una strenua difesa del suo essere, propria di quegli uomini liberi che sapevano ricorrere al sublime nella sofferenza dell’oppressione.

Durante i gloriosi mesi della Repubblica Napoletana Ciaia rivestì la carica di Presidente, dopo Carlo Lauberg.

Dimostrò le sue alte qualità di statista con competenza nell’organizzazione dello Stato repubblicano democratico con l’affermazione dei princìpi egualitari, come testimonia in particolare un proclama del 23 febbraio che contiene le linee generali della costituzione della Repubblica, in un ambizioso progetto di alfabetizzazione degli adulti per “dissipare le tenebre dell’ignoranza”e consentire al popolo di affrancarsi dallo stato di servitù.

Erano le idee di Montesqieu, di Voltaire, ma soprattutto dei grandi illuministi napoletani, da Ferdinando Galiani a Pietro Giannone, da Gaetano Filangieri ad Antonio Genovesi.

La passione per la poesia rappresentava per Ciaia,  un ideale di affrancamento dalla schiavitù sulle orme di Dante, Petrarca e Vittorio Alfieri. Dalla sua produzione poetica si evince il pensiero politico mirato all’instaurazione di un modello di società fondato sulla libertà, l’uguaglianza repubblicana e la giustizia.

La poetica di Ciaia consta di due “momenti”, un primo caratterizzato da toni intimistici, didascalici, e un secondo in cui prevalgono  i temi civili, politici con toni decisamente più riflessivi e sentimenti più autentici.

Una ricorrente malinconia preromantica legata al pensiero della morte pervade le opere scritte durante la prigionia.

Al primo “momento” di poesie appartengono quelle dedicate alla donna amata, Celeste Coltellini:  “Partendo da Napoli per Vienna” ed “Alla luna”,  in cui si ritrova una poetica legata alla tradizione preromantica, dove la natura costituisce una presenza costante nel suo aspetto idilliaco, arcadico.

Il passaggio tra il primo ed il secondo “momento” avviene con la lirica “Al P.D, Emanuele Caputo villeggiante in Portici” dedicata al suo maestro di filosofia, storia e letteratura, dove inizia ad emergere l’impegno prettamente civile, e la natura poetica sentimentale lascia il posto ad argomenti di trattazione propria della poesia illuministica, considerata di carattere più elevata:

“Non fia giovan Vate unica cura /Invocare l’astro condottier del canto, / Sol quando Amor l’alta possanza adopra”

Rivolgendosi al suo maestro, padre benedettino, il poeta mostra tutta la sua riconoscenza per una libertà di pensiero inculcatogli:

“Io da te l’ebbi: tu prima m’apristi Del vero i fonti, e l’avid’alma allora Vide se stessa, e a contemplarsi apprese… Leggiera e snella Vedasi mai dalla prigion dischiusa/ Sulle rinate varianti piume Uscir farfalla e con inastabil giro/ Di siepe in siepe ir visitando i campi? /Ah! Tale io fui, poiché dal lungo assorto Meditar di me stesso, al chiuso spirto/ Concessi alfin la libertà delle ali .”

La si può definire la “lirica della transizione” e  che costituirà l’incipit del secondo “momento” di componimenti degli anni 1794 - 1798, anni di impegno ideale, civile e politico del poeta al servizio della Repubblica- Ignazio Ciaia diventa “il primo poeta civile del Risorgimento”.

Tra questi ultimi componimenti ricordiamo “A Carlo Lauberg”, in cui si rivivono i momenti drammatici della repressione borbonica e della fuga di Lauberg a Parigi ,” Alla Francia” con i successi di Napoleone Bonaparte che riaccedono le speranze di libertà repubblicana. Molto marcato, in questi versi , è l’odio del poeta verso la tirannia, il profondo desiderio di una giustizia sociale, l’amore per la  libertà:

No, non fia ch’io veggia/ Con iniqui intervalli ognor distinte/ La capanna e la reggia/ Né che trapassi ancor la gloria e il merto/ Delle vetuste immagini dipinte/ Non fia che un dritto incerto/Sempre il reo ch’è forte/ assolver deggia/ Alle futuri genti Passi l’esempio di ardir la nostra etade/

“A Vincenzo Notarangelo” e l’ode “ E’ notte alfine” sono poesie intrise di sofferenza per lo stato di prigionia. Il pensiero dell’autore è rivolto alla caducità delle cose umane, la sofferenza dei patrioti, la loro dura sorte. Erano quei sentimenti che aveva avuto modo di esternare nella lettera a suo fratello il 6 marzo 1799, negli anni fulgidi della Repubblica, ma in cui si ravvisava quanta sofferenza, lotta e dolore costasse l’amore per la libertà:

 “Io sto bene ancora, ma ipocondriaco. L’anima mia avrebbe voluto ad un istante tutti felici, ma trovo che sogno sì caro non è facile a realizzarsi. Non mi perdo però di coraggio e tiro al meglio innanzi la gran soma. Dammi di te ottime nuove. Rammentando quanto ti amo, ti sarà facile intendere quanto le aspetti.”

Con la caduta della Repubblica e la restaurazione borbonica Ignazio Ciaia fu dapprima incarcerato, e nonostante una falsa promessa di espatrio in Francia, ascese al patibolo in piazza Mercato  il 29 ottobre 1799. Con lui  Domenico Cirillo, Mario Pagano e Giorgio Pagliacelli, compagni di vita e di morte.

 

 

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