Giuseppe Bolgia e l'Angelo del Tiburtino
Anche a me è capitato, in giro per l’Italia a parlare di questi temi, di conoscere di frequente figli di deportati, di perseguitati politici e razziali, di partigiani, di internati militari, che hanno raccolto l’eredità dei genitori, con passione e coraggio civile. Purtroppo il tempo passa e anche i figli cominciano a scomparire. È il caso di Giuseppe Bolgia, morto ieri a Roma, a pochi giorni dalla cerimonia di ricollocamento presso la Stazione Tiburtina della lapide in ricordo del padre, la medaglia d’oro al merito civile Michele Bolgia, in programma il 16 ottobre alle ore 12, presso il binario 1. La storia di Giuseppe è drammatica. Appena dodicenne, aveva perso la mamma, durante i bombardamenti alleati del 19 luglio 1943. Dopo l’armistizio, il padre Michele, ferroviere, decise di non potere essere testimone inerte del delitto della deportazione di migliaia di persone, che partivano dalla Stazione Tiburtina per essere avviati ai campi di lavoro e di sterminio. Così, in collaborazione con la formazione partigiana della Guardia di Finanza, in più occasioni riuscì ad aprire i portelloni dei carri ferroviari, togliendo il piombo dai vagoni sigillati e salvando molte persone dalla deportazione. Fu catturato su delazione di fascisti e fu ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine. La sua vicenda è stata ricostruita di recente da Gerardo Severino nel libro L’angelo del Tiburtino. Giuseppe si è battuto in questi anni affinché la memoria di quei fatti non si spegnesse, partecipando a tutte le commemorazioni e non smettendo mai di raccontare la sua storia nelle scuole e nelle piazze. Anche lui era un Testimone. Il suo impegno e gli atti di eroismo del padre saranno ricordati il 16 ottobre, alle ore 17, all’Isola Tiberina, presso l’Ospedale Fatebenefratelli.
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