Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Gli ultimi giorni di Gioacchino Murat. La cronaca da un manoscritto del 1838

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Designato nel 1808 Re di Napoli da Napoleone Bonaparte, dopo che il trono sottratto ai Borbone si era reso vacante per la nomina di Giuseppe Bonaparte a Re di Spagna, Gioacchino Murat (Labastide-FortunieÁre, 25 marzo 1767 ± Pizzo Calabro, 13 ottobre 1815), noto come "Gioacchino Napoleone'', fu accolto favorevolmente dalla popolazione napoletana, che ne aveva apprezzato la bella presenza, il carattere forte e alcuni tentativi di porre riparo alla sua miseria, ma fu, invece, detestato dal clero per averne soppresso ordini e confiscato beni.

Figlio di un albergatore, aveva studiato in seminario da cui fu poi espulso a vent'anni per rissa. Fece per tre anni il mestiere paterno, poi si arruolò prima come soldato semplice e in seguito parte della guardia costituzionale di Luigi XVI. Alla caduta della monarchia entrò nell'esercito rivoluzionario e divenne rapidamente ufficiale. Nel 1795 fu a Parigi a sostenere Napoleone contro l'insurrezione realista.

Lo seguì poi nella campagna d'Italia e in quella d'Egitto, dove fu nominato generale e fu determinante nella vittoria di Abukir contro i turchi. Partecipò attivamente al colpo di Stato del 18 brumaio 1799 e divenne comandante della guardia del Primo console.

L'anno seguente, il 20 gennaio, sposò la sorella minore di Napoleone, Carolina Bonaparte dalla quale ebbe quattro figli, due maschi e due femmine.

Significativo esempio della della mobilità sociale che caratterizzò  il periodo napoleonico, e anche delle conclusioni tragiche di molte folgoranti carriere, durante il suo breve regno Murat avviò non solo a Napoli, ma anche in Puglia ed in Calabria opere pubbliche di rilievo.

Dopo la caduta di Napoleone ed il trattato di Casalanza (20 maggio 1815) fu sancita definitivamente anche la sua caduta ed il ritorno dei Borbone sul trono di Napoli.

Ciononostante, dopo aver tentato la fuga rifugiandosi nel castello di Rodi Garganico, Murat tentò di tornare a Napoli via mare per riconquistare il Regno, con la speranza di far leva sulla popolazione, ma una tempesta lo dirottò in Calabria, a Pizzo, la cui gente, deludendo le sue aspettative, ne facilitarono alle guardie borboniche la cattura.

Fatto prigioniero nel castello aragonese, fu processato da un tribunale militare e condannato alla fucilazione il 13 ottobre 1815.

Verso la fine dell'Ottocento furono pubblicate due memorie sugli ultimi momenti della vita di Murat: il manoscritto del canonico Tommaso Masdea (1) che confortò il Murat prima dell'esecuzione e quello di Antonino Condoleo (2) che assistette alla sepoltura.

Secondo il sacerdote Masdea il cadavere di Gioacchino Murat, riposto in un baule foderato di taffetà  nera, fu sepolto nella Chiesa Matrice da lui beneficata.

Per il Condoleo, invece, l'insanguinato cadavere fu subito messo in una rozza cassa di abete e fu portata da dodici soldati nella Chiesa Matrice. Nel deporla a terra, per l'urto ricevuto, la cassa si aprì negli spigoli, rivelando il volto pallido dell'ex Re, sfigurato da una pallottola che gli aveva solcato la guancia destra. Ricomposta frettolosamente la cassa fu gettata nella fossa comune.

Il Condoleo è più prolisso del Masdea, ma i due racconti tranne che per per alcuni particolari margi­nali, concordano nell’indicare co­me luogo di sepoltura la Chiesa Matrice di Pizzo.

Simile nella testimonianza dei fatti allora avvenuti è un altro manoscritto ritrovato nell’Archivio della Società Napoletana di Storia Patria,  tra le carte di Mariano D’Ayala storico e politico dell’Italia Risorgimentale ed autore di numerose opere biografiche, tra cui una memoria degli ultimi giorni di Gioacchino Murat, Una sua gita al Pizzo, pubblicata nel 1843, che gli costò la censura borbonica, nonché la perdita della cattedra di matematica e balistica presso la scuola militare Nunziatella, per aver irritato  Ferdinando II di Borbone.

Considerata la provenienza del manoscritto si può ipotizzare che esso sia stato fonte di informazioni per lo storico ottocentesco da cui trasse poi il suo lavoro.

Memoria autografa di Giuseppe Panella (4), datata 18 Ottobre 1838, essa offre una cronaca precisa e dettagliata degli ultimi momenti della vita del ex Re di Napoli, dall’arresto a Pizzo Calabro, alla prigionia nel castello, fino al momento dell’esecuzione e concorda in pieno con la testimonianza resa del canonico Masdea sulle modalità di sepoltura del Murat. Segue un’appendice in cui sono elencati i premi concessi dal restaurato sovrano Borbone a tutti coloro che avevano permesso la cattura del Generale francese, in difesa del suo Regno.  Non abbiamo notizie biografiche relative a Giuseppe Panella ma, la descrizione puntuale dei fatti narrati a ventitrè anni di distanza, lascia supporre che possa trattarsi  di un soldato o di un qualunque altro testimone oculare di quegli  avvenimenti.

 

 

 

 

Arresto dell’ex Re Gioacchino Murat seguito agli Otto Ottobre, e Condanna di Morte fatta, ed eseguita ai tredici detto mese ed Anno Milleottocentoquindici nel Castello di Pizzo.

 

Nel giorno otto del mese di Ottobre dell’Anno Milleottocentoquindici, Domenica dedicata alla Maternità di Maria S.S. di cui la Chiesa ne celebrava la festa per particolar concessione del Sommo Pontefice Pio VII fedele Regnante, essendo il mar tranquillo ed il ciel sereno, allo spuntar del sole si videro dall’alto della Città del Pizzo nel mare alla distanza di 15 miglia, circa , dal lido due Barche, una grande detta con termine nautico Bova, e l’altra men grande, che la seguiva con direzione alla Marina del Pizzo.

 Infatti alle ore 15 d’Italia approdarono a terra senza ottenere il permesso della Deputazione Sanitaria, colla velocità del fulmine sbalzarono quattordici Ufficiali Militari, e ventisei Soldati, questi tutti armati di Sciabole, Cherubine, Bajonette e Pistole, ad eccetto di uno che portava la spada ben guarnita, pistole e cappello con nocca di tre colori sostenuta da circa 18 brillanti preziosi.

Questi facendo da capo, senza prendere un momento di riposo con passo veloce, seguito da tutti gli  altri s’incamminò per la città, insinuando a chi s’incontrava a dire Viva Gioacchino Re di Napoli ed arrivato nella gran piazza piena di popolo perché giorno di mercato concorso da molti paesi convicini per comprare e vendere si fermarono nel mezzo, e tutti colle Cherubine poste in mano, e sempre seguendo il loro Capo, questi facendo carezze a tutti li persuadeva a dire . Viva Gioacchino Murat, Viva il Re Gioacchino. Mi conoscete? /seguitava a dire/ Io sono il vero Re, il vero Padre Gioachino.

A tele impenzata novità, senza che un solo avesse risposto voltarono tutti dispettosi le spalle e nonostante che il numero delle persone corrispondeva a circa duemila, si rinserrarono nelle proprie case e paesani e riposte le some su le loro Giumente i forestieri partirono per le rispettive loro patrie. Rimasero solo vicino la porta della Marina i Legionari che stavansi esercitando negli esercizi Militari.

 A questi accorso Murat, e postosi a fronte di essi disse così; voi siete miei  soldati, ubbiditemi. Andate sull’alti di quella Torre, levate quella Bandiera che sta sventolando. E avendo consegnato ad uno di essi un’altra Bandiera, che raccolta portava sotto un soldato della sua comitiva.

 Mettete questa con le armi del vostro Re Gioacchino. E voi, disse ad un altro legionario, trovatemi pronto un cavallo e seguitemi tutti per Monteleone. A tal comando, anche i legionari senza rispondere voltarono le spalle e rientrate in città chiusero la porta e andarono a dar parte al capitano della Gendarmeria D. Gregorio Trentacapilli comandante nella Provincia di Cosenza, che al caso trovatasi al Pizzo.

 A tale veduta accortosi l’esperto Generale Murat cosa avrebbe potuto seguire per simile inaspettato ammutinamento, seguito dal Generale Franceschi, dal Capitano Pernice, e da tutta la compagnia dei suoi corpi si incamminò a passo veloce per la strada che conduce in Monteleone con la scorta del giovine F. Alemanni del Pizzo da lui conosciuto per averlo servito nella Guerra di Lipsia e Danzica, e tutti a piedi.

A tale avviso uscì in piazza il capitano Trentacapilli e animò la popolazione per inseguirli alla meglio. Divise la gente accorsa sconsigliatamente per la maggior parte senza armi in tre colonne, e diresse una per lo stretto di S. Antonio, la seconda per quello di San Pancrazio e la terza, di cui egli si fece testa per la strada dei Morti battuta testè dal Guerriero Murat .

Fu tanta la velocità degli aggressori per la maggior parte inermi, o armati di bastoni e con pochi fucili , che la terza compagnia li raggiunse al passo, tra la Chiesa della Pietà ed il torrente detto della Parrera.

Allora il capitano Trencacapilli intimò la resa al Generale Murat, il quale avvedutosi che dall’alto scendeva l’altra compagnia di paesani, per non essere posto in mezzo con tutti i suoi lasciò la strada sbalzò nell’oliveto della Parrera, perché impedito anche  dalla terza contemporaneamente giunta, di non poter più spuntare per Monteleone.

Rispose Murat tenendo in mano una pistola imponendo col minaccio di ucciderlo all’anzidetto Capitano che non si accostasse per darli di mano.

Ed intanto tutti i corpi si posero su le armi. In questo breve intervallo cercò persuaderlo a farsi dalla parte sua promettendogli e danari ed onori. Ma terminò subito l’Armistizio perché urtando la parte superiore, e temendo di essere stretto nel mezzo Murat si pose a fuggire per la direzione della Marina, ma non più per la strada ma per dentro gli ulivi suddetti del luogo della Perrera, avendo passato da quella del Sig. Satirano a quella del Sig. Ochoa. E siccome il Capitano Trentacapilli ordinò ai suoi di far fuoco sopra le spalle dei fuggitivi corsi, così questi dispersi si imboscarono nelle siepi e sentieri che si paravano davanti.

 Il solo Generale Murat coll’altro Franceschi, il Capitano Pernice, e due altri uffiziali continuando intrepidi la fuga, e poco curandone le spalle, cercavano sempre la direzione di Monteleone la quale fu loro impedita dal torrente Valisdea che se li parò di avanti e gl’impedì il disegno, per cui non potendone tornare più indietro perché ingrossava sempreppiù il numero dei persecutori voltò la direzione al mare sempre dirupandosi per balse e sentieri , con l’esser cascato più volte stramazzone per terra ed accompagnato da continuati tiri di fucili alle spalle.

Arrivò finalmente al fortino di detto torrente Valisdea di suo ordine fabbricato e seguito solo da tre uffiziali e abbandonato da tutti gli altri corsi come sopra nascosti, e non avendo ivi ritrovato le sue barche poiché il Comandante Barbarà accortosi dell’accaduto perché tutto potesse osservare come distintamente osservò dal posto dove erasi ancorato, temendo del cannone dei due Forti che li sovrastavano a giusto timore di calarlo a fondo e forse perché tenne per perduto il suo ex Re, lati cui ricca cassa Militare e baullo teneva a bordo, donò le vele al vento e fecesi in alto mare, pigliò di mano ad un Battello abbandonato dai pescatori in quel punto, fuggiti per timore da quanto avevano osservato, e così cercava salvarsi nel mare il Generale Murat e compagni.

Era questo picciolo in modo che il peso di quattro uffiziali si rese tanto gravoso che Murat e due compagni, con tutta la forza dei rami non potè strapparlo dall’arena e sollevarlo per dargli moto nel mare, per raggiungere col favore dello stesso al Capitano Barbarà anzidetto, che veleggiava lungi dal cannone dei Forti.

In tale stato d’inattività a poter continuare la fuga per mare fu obbligato l’infelice Generale Murat, e Uffiziali sostenere una grandine di palle che dall’apposto Fortino della Valisdea si piombavano tirate senza veruna regole da inesperta ciurma di Gente di ogni ceto, a dalla quale si vide cadere a piedi già morto il Capitano Pernice corso, ferito da una palla alla fronte tirata da un Marinaro e ferito anche il Generale Franceschi.

Allora fu, che voltata in un momento la Ruota, con evidente cognizione che Dominus ipse este Deus Sabaot idest exercitum et in manu ejus omnes fines terre.

Poiché per ipsum Reges regnant e la confessino pure in questo caso gli ostinati non credenti. Allora l’infelice ex Re Gioacchino Murat cognato dell’ex Imperatore dei Francesi, e Re d’Italia Napoleone Buonaparte cognato dell’ex Re di Spagna  e delle Indie Giuseppe Buonaparte, cognato dell’ex Re Luigi Buonaparte cognato per parte della seconda moglie dell’Imperatore suddetto dai Francesi Maria Luigia d’Austria dell’Imperatore di Alemagna cognato del Re Bavaro, dopo di aver sostenuto e superato tutta la Francia che rese vassalla ad suddetto di lui cognato, tutta la Spagna che consegnò la corona a Giuseppe:

 il Gran Granducato di Berg, Cleves che ritenne per se dopo di aver comandato, e fu assoggettato le acque dolci e false di Danzica con tutte le fortezze, come benanche assoggettò la Polonia, la Prussia, la Sassonia, l’Alemagna e perfino l’Egitto, il Cairo, Alessandria non avendola risparmiato alla Prussia fino a Mosca e finalmente lasciato tutto il forte della Grande armata Francese di un milione di uomini, e con alla testa il Grande Generale Buonaparte parse rotolare nel fiume di Lipsia, ed ingrassare col sangue Francese la Sassonia egli solo vittorioso di tanta strage, e poco curando tanto furore Militare, si volle comandare tutta la Italia alla testa degli eserciti austriaci , e di tutti gli alleati che li riconobbero per Re di Napoli, e loro alleato, e sostegno, per la di cui bravura restò disfatto il grande Impero dei francesi collo stesso Imperatore Napoleone, già fatto prigioniero dagli’Inglesi, giacchè dal gran Generale Gioacchino Murat di lui cognato fu abbandonato per giuste cause.

In questo infelice termine di tante glorie, perché così dispose il  sommo Creatore Padrone, e dispositore  del tutto, fu costetto Gioacchino Murat chinar quella fronte ai di costui piedi anche i Mammalucchi Principi si prostrarono, e postasi pancia per terra all’arrimbamento: fece la tumultuosa plebbe insana della barchetta cercare per carità la vita ad un Pescatore  P. G.  a cui pose nel dito il Real prezioso Brillante che si cavò da suo, né esitò inginocchiarsi a’ piedi di un vile Mugnaio F. P. F. cercando per carità la vita che pure pagò coll’oro.

Eppoichè mai fortuna per poco come al bene così al male, come all’ingrandimento, così alla depressione. Ecco Gioacchino Murat alle ore 18 d’Italia in mano ad un branco di furiosi aggressori, al numero più di duemila persone tutte della plebaglia consideri chi legge quali dileggi non soffrì: fischi, ingiurie, sputi in faccia, strappandogli i capelli  ed il mostaccio da F.B. , colpi di fucili, bastoni e schiaffi, finanche da donnicciole e ridotto  in modo che la pietà di gente pulita F. A. accorse a ricoprirlo con nuove vesti perché lasciato lacero cencioso ed in parte ignudo.

Non furono perdonati 18 grossi brillanti di gran valore di spettanza del tesoro di Spagna che tenea al cappello, strappati da un ferraio F. S. B. che poi restarono al Capitano Trentacapilli.

In questa conformità menato nel castello fu chiuso in un ristretto ed oscuro carcere, dove gli venne negata alla prima dimanda anche una bevuta di acqua ed una sedia.

Volò la fama di un tale memorando accaduto al Pizzo, che principiò circa le ora 16 e finì tra 6. 8. del giorno 8 Ottobre 1815 e da Tropea venne al Pizzo alle due della notte il Generale Nunziante, comandante la seconda divisione delle Calabrie ed incaricato in esso dall’alta Polizia che andò ad abitare nel Castello medesimo dove ritrovatasi ristretto prigioniero l’infelice Murat che subito fece mettere in una stanza decente e trattato da prigioniero di Guerra, ma con quegli onori dovuti merito e qualità del soggetto.

Intanto furono raccolti tutti i corpi sbandati, ed al numero di 29 cogli Uffiziali suddetti furono condotti nel castello medesimo, e trattati da prigionieri di Guerra.

Nel giorno 9 si vide la città guarnita di corrispondenti truppe di fanteria e cavalleria, il castello con quattro pezzi di cannoni, e soprabbondante munizione, e per ogni capo strada della città, e parte di essa duplicate sentinelle.

Si affittarono per il momento telegrafi a dare l’avviso alla Capitale; né mancò il Generale Nunziante e l’Intendente della Provincia; aspedire per ogni giorno delle staffette alla Corte.

Martedì seguente 10 Ottobre venne da Messina una flottiglia Inglese per fortificare la Marina che si trattenne sino al giorno 13, dopo eseguita la sentenza di Morte contro il Generale Murat.

In questo stato di legale prigionia di guerra e di nobile trattamento dall’umanissimo Generale Nunziante godea il disgraziato Murat una consolante libera compagnia dei suoi Uffiziali corsi con decante servizio, e comodi anche per quanto le circostanze permettevano al vincitore alla Reale, non facendole mancare pur anche la conversazione fino a notte avanzata di ogni sera con l’intervento di Uffiziali di ogni grado, e gente pulita, tantovero che nella sera di giovedì 12 Ottobre domandò ridendo farsi la stessa indovinare quale disposizione farebbe portare di lui i Reali Alleati, dopodiché andò a letto.

Intanto alle ore sei della stessa notte giunse proveniente da Napoli Reale staffetta al prelato Sig. Generale D. Vito Nunziante, seguita da altra che arrivò alle ore dodici della mattina di venerdì giorno seguente 13 dello stesso mese con Reali Decreti firmati dal Sig. D. Luigi Medici Segretario di Stato e Ministro dell’Alta Polizia, colle quali manifestava che alle ore nove del giorno venti Ottobre, per notizia Telegrafica si ebbe notizia in Napoli, trovarsi al Pizzo arrestato Gioacchino Murat, con circa 15 o venti altri compagni d’armi.

Che alle ore 9 ¼  di ordine del Re si aduna il Consiglio di Stato per tale causa, che alle ore 9 ½  fu decretato spedirsi prima e seconda staffetta dopo due ore, onde sul momento dell’arrivo al Pizzo, il Sig. Generale Nunziante avesse nel castello medesimo, unito un consiglio di Guerra, ossia Commissione Militare per giudicare Gioacchino Murat, e che dalla pubblicazione alla esecuzione della sentenza si frapponga solo un quarto di ora per gli atti di religione.

E trovandosi nella di lui compagnia soldati, o uffiziali Napoletani e Siciliani dovessero essere giudicati nella stessa forma ed eseguita ugualmente la sentenza, sotto la responsabilità di essi incaricati.

A chi si diedero ordini pressanti di affrettarsi a darne l’avvio alla esecuzione sul momento stesso con Telegrafo, e col ritorno delle due Staffette con Barca, e di qualunque altra maniera possibile.

Tanto contiene l’ordine Reale letto da chi foriva. Sul ricevere tal ordine il Sig. Generale Nunziante ordinò la  Commissione Militare composta dal Sig. D. Giuseppe Fasulo, Cavaliere del Real Ordine delle Due Sicilie fatto da Murat, Barone Sig. D.Raffaele Scarfano pur Cavaliere delle Due Sicilie creato da Murat, Sig. D. Settario Napoli Commendatore del Real Ordine di San Ferdinando, Sig. D. Matteo Cannillli, Sig. De Matteo de Urongi, Sig. D. Franc.Paolo Matteo Giudici, S. Francesco Troio Resatore e Sig. D. Giovanni la Camera Regio Procuratore Criminale presso la Gran Corte Criminale di Calabria Ultra, seconda residente in Monteleone  fatto da Murat, e Sig. D. Francesco Paparossi Segretario, i quali riuniti tutti nel castello del Pizzo dalle ore dodici della mattina di Venerdì 13 Ottobre cominciarono il costituto, ed interrogatori, al giudicando Gioacchino Murat, e firmarono contro di lui il Decreto di morte alle ore ventidue e un quarto di detto giorno che fu  eseguito alle ore ventitrè nel castello medesimo con otto scariche di fucili al petto intrepido del Generale guerriero.

La sentenza di morte fu intimata e letta a Gioacchino Murat nella stessa ora , ma non fu manifestato il momento della esecuzione, onde si pose a scrivere frettolosamente alla moglie del tenor seguente.

 

Mia cara Carolina

L’ora fatale è stata eseguita con non poche lagrime. Io cesso di vivere in qualche supplizio: tu non avrai più sposo ed i miei figli non avranno più padre. Sovvenitevi di me. Non bandite la mia memoria. Io morirò innocente, la mia vita mi è stata tolta per un giudizio ingiusto. Addio mio Achille. Addio mia Letizia. Addio mio Luciano. Addio mia Eluisa. Mostratevi sempre degni di me. Io vi lascio sopra una terra e Regno in mezzo di innumerevoli nemici.

State sempre uniti. Mostratevi superiori alle atrocità: siate ritenuti. Prestatevi più che voi siete stati. Iddio vi benedica.

Non maledite giammai la mia memoria e sovvenitevi il gran dolore che io provo al mio momento che è quello di morire lontano dai miei figli: lontano dalla mia amica, e di non avere alcun amico che chiuder mi possa le palpebre. Addio mia Carolina. Addio miei figli. Ricevetevi la mia paterna benedizione, la mia tenera lacrima, i miei ultimi abbracci. Addio, Addio. Voi non dimenticherete mail il vostro disgraziato Padre Gioacchino.

Al Pizzo li 13 Ottobre 1815.

 

Il S. Generale Nunziante uomo assai religioso e pietoso dell’aver unito la Commissione Militare ordinatale, non potendo aiutare e salvare la vita temporale di Gioacchino Murat, pensò alla di lui eterna salute spirituale, e perciò credendo non così lungo il giudizio invitò alle ore 14 della mattina nel castello il Sig. Canonico Decano D. Tommasantonio Masolea luogotenente del Vescovo di Mileto Monsignor Minutolo, il quale dimorò fino alle ore  22 e mezza chiuso in una stanza di orazione, quando chiamato dal Capitano incaricato della esecuzione entrato nella stanza di Murat lo ritrovò nell’atto che firmava l’antecedente lettera.

Egli si alzò e benignamente siede ad ascoltare il sacerdote che gli domandò se avesse conosciuto, in occasione di avergli domandato in grazia due anni dietro la costruzione della Chiesa maggiore del Pizzo sotto il nome di S. Giorgio Martire, ed egli sovvenutosi gli rispose di si, e che gli aveva dato mille ducati per l’effetto.

Allora il Ministro di Gesù Cristo prese anima e fidato nella infinita misericordia di Dio e nel sangue preziosissimo del Redentore gli parlò così.

Altra grazia, Signore, sono venuto adesso a domandarvi di maggior valore egli disse, ed egli replicò; ma io in questo stato quale grazia posso farvi? Ah! Signore, ripigliò il Sacerdote, dovete confessarvi.

L’accorto Principe temendo di confessione giudiziaria diffamante voltò le spalle, e con risentimento disse: Non ho che confessare, perché non ho mancato avanti a Dio. Non si penasse il Ministro di Gesù Cristo (parola illeggibile) vieppiù incoraggiato di lui, che infirma Mundi elegit Deus ut forzia confundat, seguendolo gli replicò – Signore io non vi parlo di Confessione giudiziaria, ma di confessione Sacramentale per riconciliarvi con Dio alla di cui presenza dovete comparire fra il termine di un breve quarto d’ora.

Ah! si replicò,  allora son pronto, come però faremo in sì breve tempo? Sono io per voi non temete. Andava per inginocchiarsi, ma il confessore gli donò una sedia che sola era in quella stanza, si sedè cominciò, ma poi subito si alzò in piedi per venerazione al Ministro di Dio.

Oh! Chi si fosse trovato presente per vedere le lacrime, sentire la prontezza alle risposte, la contrizione alla promessa di mai più peccare, l’umiltà nel soddisfare la penitenza.

E più bisogna interrompere per poco  a rossore dei non credenti, e che tutti attribuiscono al caso. Se la Provvidenza avesse risposto a Gioacchino Murat, che voleva salvo, come si spera nell’anima, la sua confessione ed agonia, ad un solo quarto di ora, come quella del buon ladrone fu la voce, quali sforzi non avrebbe fatto l’Inferno per ricordargli dove muore. E quali affronti ricevè al Pizzo?

Quale vendetta avrebbe potuto fare. Ed intanto niente di questo  e bada solo al pentimento alla rassegnazione del Divin  volere, da lui confessa ricevere la sentenza. E finalmente considerar devono i riflessivi, che dopo averlo salvato dalla morte in tante campagne in tanti mari e fiumi, raccolse le sue ceneri in quella chiesa da lui beneficata, da quella gli vennero dati gli ultimi Sagramenti  ed aiuti spirituali per salvargli l’anima.

Terminata la sacramentale confessione, e ricevuta pur anche l’assoluzione Papale in articolo di morte concessa da Benedetto Papa XIV, andiamo disse il buon penitente ad eseguire la volontà di Dio.

Il Sacerdote che forse conoscea dover fare il penitente a norma delle regole della Chiesa qualche altra dichiarazione scritta, e perché gli mancava il tempo, non più potendosi prolungare oltre la legge che lo respinse. Fermate gli disse fermate, Signore voi dovete scrivere solo un rigo su di questa carta, e dire:

 Io Gioacchino Murat sono Cristiano Apostolico Romano, gli rispose son pronto e prese la penna e fatto. Io: si fermò e disse: ma voi Padre mi volete così svergognare dopo morto – No replicò il sacerdote anzi intendo smentire quei libertini che celerò nome servivansi per mascherare la di loro irreligione.

Tanto battè, e continuò a scrivere. Si deve vivere e morire da buon cristiano Gioacchino Murat. Andiamo replicò nuovamente a fare la volontà di Dio. Arrivato al luogo della morte, voltato agli astanti. Non credete disse che io d’altri riceva la morte che dalle mani di Dio, solo mi dispiace il modo.

Ditemi Sig, Uffiziali dove mi devo situare, ed avendosi posto in un scatto si slacciò la veste e aperto con le mani il petto. Tirate disse o miei soldati e non temete. Allora replicò l’Uffiziale voltate le spalle -  A tale avviso tornò indietro, e con un sorriso, con le mani ed occhi alzati al cielo – Credete disse che io potessi far mal animo contro di questi infelici che devono fare ciò che non vorrebbero e contro di chicchesia, siete in abbaglio perché tutto viene ordinato e disposto.

Torna al posto si denuda il petto e di nuovo disse Tirate; Grida il Sacerdote Credo in Dio Padre Onnipotente. Più non potè dire, e fu eseguita la Sentenza.

Il suo cadavere riposto in un baule vestito in taffità nero fu sepolto nella Chiesa Madrice  sotto il titolo di San Giorgio Martire del Pizzo, dove nel giorno seguente dallo stesso padre assistente fu cantata una solenne Messa di Requie.

E così terminò la vita del gran Generale Gioacchino Murat.

 

Fatto da Giuseppe Panella Minor li 18 Ottobre 1838

 

 

Appendice alla cronaca riportata nello stesso manoscritto

 

Premi conceduti a molti Individui della Fedelissima Città del Pizzo per l’arresto del fu Gioacchino Murat.

Ferdinando I per la Grazia di Dio, Re del Regno delle Due Sicilie.

Visto il  nostro Real Decreto dei 18 Ottobre passato anno 1815, col quale dopo di aver premiata la Fedelissima città del Pizzo per aver preservato il Regno dalla rivolta e dalla Guerra Civile che Gioacchino Murat coi suoi seguaci aveva cercato di eccitare, ci riserbiamo nell’Articolo 1° di dare particolari segni della nostra Reale soddisfazione agli individui che si erano particolarmente distinti in quella circostanza, in seguito delle notizie sicure che attendevano dalla autorità superiori.

Trovandoci oggi nel grado di adempiere sugli informi che ci sono stati presentati, la nostra Real promessa.

Visto il rapporto del nostro Segretario di Stato Ministro di Grazia e Giustizia

Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue.

Articolo Primo. Conferiamo al Maresciallo di Campo Nunziante il titolo di Marchese per se e suoi discendenti ed una penzione di annui ducati mille e cinquecento sua vita durante, concediamo al Colonnello D. Gragorio Trentacapilli la dignità di Cavaliere Commendatore del Re Ordine di S. Ferdinando, e del merito, ed una penzione vitalizia di annui ducati mille.

Nominiamo il Barone D. Cesare Melecrinis, D. Raffaele Trentacapilli e D. Giorgio Pellegrino Cavalieri di Grazia del Real Ordine Costantiniano, e concediamo a ciascuno di essi una penzione vitalizia di annui ducati trecento.

Nominiamo del pari Cavalieri di grazia dell’Ordine Reale Costantiniano D. Francesco Alcalà, D. Giovanni La Camera, Procurator Regio presso il Tribunale della Corte Criminale in Monteleone.

Conferiamo il beneficio di Regio patronato sotto il titolo dell’Annunciata di Bagaldi al Canonico Giovannibattista Melecrinis, nominandolo anche cavaliere di grazia del Real Ordine Costantiniano, ed il beneficio di Regio Patronato sotto il titolo dello Spirito Santo di Biace al canonico D.Antonio Iannaci.

Concediamo una penzione vitalizia di annui ducati centocinquanta  a D. Giuseppe Pirrone, una penzione di annui ducati centoventi vitalizia a Foca Callipo, una penzione vitalizia di annui ducati cento per ciascheduno a D.Francesco Alemanni a D. Francesco Salomone a D. Antonio Dannaci, ed ai fratelli Rocco Domenico e Fortunato Sardanelli una penzione di annui ducati settantadue vitalizia per ciascheduno, a Mariano Polia, Giuseppe Callido, Filippo Latessa, Domenico di Leo, Nicola Vinci, Gennaro Ferolete, Francescantonio Perri di Nicola, Emanuele Tozzo, Antonio Favella, Aggrazio Silvano,Pasquale Liotti, Diego, Vincenzo e Geronima Ventura.

Concediamo una piazza franca nel Real Liceo di Reggio ad un figlio di De Maurizio De Santis.

E finalmente concediamo al canonico Iannaci a D. Giuseppe Pirrone, D. Francesco Alemanni, D.Francesco Salomone, D. Antonio Iannaci, Foca Callido, ai Fratelli Rocco Domenico Fortunato Sardanelli, a Mariano Polia, Giuseppe Callipo, Filippo Latessa, Domenico di Leo, Nicola Vinci, Gennaro Ferolete, Domenico Feroteta, Francescantonio Perri di Nicola, Emanuele Tozzo, Antonio Favella, Aggrazio Silvano, Pasquale Liotti, Diego, Vincenzo, e Geronimo Ventura di poter portare alla bottoniera con fettuccia di color roso Borbonico una medaglia di argento simile a quella di oro coniata pel Sindaco, Eletti  a Decurioni  pro tempore del Pizzo.

Tutte le penzioni concedute nell’Articolo precedente si intendono cominciate a decorrere dal giorno otto Ottobre dello scorso anno 1815.

I nostri segretari di Stato, Ministri di Grazia e Giustizia, e degli affari Ecclesiastici delle Finanze e dell’Interno ed il nostro Segretario di Stato di Casa Reale ognuno per la parte che loro riguarda sono incaricati della esecuzione del presente Decreto – Firmato – Ferdinando – Da parte del Re – Il Ministro Segretario di Stato

 

Firmato Tommaso di Somma.

 

NOTE

1   T.A. Masdea, L'arresto e il supplizio di Gioacchino Murat, a cura di G. Romano, Pavia, tip. f.lli Fusi, 1889.

2  G. Gasparri, E. Capialbi, Murat al Pizzo: la fine di un re (testimonianze inedite), Monteleone di Calabria, tip. Francesco Passafaro, 1894.

3 Società Napoletana di Storia Patria. Sezione Manoscritti  ed Autografi. Fondo  Mariano D’Ayala. Manoscritto numerato da pag. 66 a 80. Carte in ordinamento

4 La firma dell’autore si trova a pag. 77 del manoscritto

 

Il presente articolo è già stato pubblicato dall'autrice per la Società Napoletana di Storia Patria  in Archivio Storico per le province napoletane. Vol. CXXIX, Napoli, 2011

 

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