Le stragi di Casacalenda e Termoli, memoria e oblio: perchè giova ricordare

Categoria principale: Storia
Categoria: Articoli sul 1799
Creato Giovedì, 22 Agosto 2013 15:02
Ultima modifica il Mercoledì, 28 Agosto 2013 18:47
Pubblicato Giovedì, 22 Agosto 2013 15:02
Scritto da Rossana Di Poce
Visite: 3200

Ogni documento inedito che riappare all’attenzione pubblica merita una riflessione: rappresenta la sopravvivenza di una memoria contro l’oblio definitivo.

Così nella pubblicazione delle due cronache finora inedite, inerenti le stragi di Casacalenda e Termoli ( “ Termoli e Casacalenda nel 1799, stragi dimenticate”, Arte Tipografica Ed., Napoli 2013) Antonella Orefice aggiunge un altro tassello non solo alla sua ricerca indefessa attorno alle memorie della Repubblica Napoletana, ma fa emergere nuovi quesiti e riflessioni.

Nel testo brevemente commentato dalla studiosa, emergono in questo modo non solo le cronache narrate dai testimoni oculari, inviati o coinvolti direttamente, unitamente a figure individuali di lodevole pregio, ma anche e soprattutto quei frammenti di memoria che i Borbone intesero cancellare dopo i fatti del 1799.

Le stragi del Molise, i saccheggi, le profanazioni e i giuramenti sacri traditi che le bande sanfediste, perlopiù costituite da Albanesi, malfattori e briganti misero in atto, non sono che la prova della cecità della casa regnante e della Chiesa, che con il discusso cardinale Ruffo, non esitarono con ogni mezzo a riappropriarsi del potere che i Francesi e la Rivoluzione minacciavano loro di togliere.

Apprendiamo così, dai documenti che l’erudito Mariano D’Ayala (1808-1877) conservava tra le sue carte confluite grazie alla donazione dei figli nel 1910 nel fondo archivistico della Società Napoletana di Storia Patria e che Antonella Orefice ha puntualmente studiato, dalla voce di padre Giuseppe La Macchia inviato dal vescovo di Larino a trattare la pace e dal testimone Teodosio Campolieti, non solo le nefandezze ma anche i dettagli dei fatti pressochè identici nella dinamica dei due centri molisani: i rivoluzionari ( Domenico di Gennaro, sindaco di Casacalenda e i fratelli Federico e Bassomaria Brigida) e i loro simpatizzanti, vennero barbaramente trucidati unitamente al saccheggio dei paesi nel febbraio del 1799 nonostante i patti stabiliti con i rappresentanti della Chiesa stessa.

I Francesi a Napoli erano entrati da un mese, e la repressione borbonica non tardò a esercitare il suo potere laddove la Repubblica era certamente più indifesa. Le due brevi ma dettagliate cronache pubblicate, sono precedute da due interventi interessanti: Luigi Pruneti e Mario Zarrelli che commentano l’importanza dell’operazione della Orefice e i suoi risvolti storici.

Certamente il commento del Pruneti relativo alla pietas da mostrare in ogni caso a ciascuna delle parti coinvolte nelle stragi mi trova concorde: non esiste un torto o una ragione che valga una vita umana, e proprio per questo occorre che lo storico si preoccupi di conservare quante più memorie dei fatti possibili, a prescindere da una valutazione arbitraria dei torti o delle ragioni.

E’ ormai acclarato che la dinastia borbonica pur di sopravvivere non si fece scrupolo di trucidare intellettuali e popolani, complice anche la chiesa, e che altrettanto accadde quando i rivoluzionari si trovarono alle strette.

Ma nel gioco delle parti, occorre ricordare che ciascuna ha diritto d’esistenza, e dunque, la damnatio memorie borbonica sui fatti del ‘799 e’ non solo deprecabile, ma anche il più feroce dei delitti commessi a danno delle generazioni future.

Ogni documento inedito scampato alla ferocia distruttiva del vincitore, concorre a ricostruire le ragioni di tutti coloro che furono coinvolti nei fatti: nella lotta al revisionismo storico contemporaneo foraggiato da rivalse nord-sudiste, in questa Italia, non hanno motivo di attecchire se non cavalcano l’ignoranza di molti.

Il Risorgimento era inevitabile alla modernità della Storia italiana; altra cosa è discutere sul come esso venne approntato e sugli errori, spesso fatali che vennero commessi ai danni della popolazione, specialmente del Sud.

Il Pruneti ben si schiera quando sostiene che esiste un “revisionismo d’accatto , di chi vorrebbe ridurre il Risorgimento a una predazione piemontese, resa possibile dall’appoggio di potenze straniere e dalle trame della massoneria internazionale” (L.Pruneti in A.Orefice, p.8) ricordandoci che già il Manzoni auspicava la formazione dello stato e del popolo: com’è dunque possibile dimenticare l’opera di tanti nostri intellettuali che prepararono il solco agli avvenimenti dell’Unità d’Italia?

La risposta alla trasformazione degli antichi regimi che in Francia ebbe i primi grandi avvenimenti, non poteva non ripercuotersi in Italia, ed in quel Vecchio Continente che ne fu scosso: come pensare di eliminarne le conseguenze anche sulla penisola, se non con superficiali ragionamenti da talk-show televisivi tanto cari ai nostri ‘‘politici’’ attuali?

L’opposizione borbonica al cambiamento, scontata nella logica ma non nella barbara modalità dell’eliminazione fisica dell’avversario politico, non esistò a trucidare l’intellighenzia napoletana che meglio di altre parti d’Italia, quegli avvenimenti aveva seguito e recepito e che, se fosse sopravvissuta, avrebbe potuto certamente negoziare meglio l’avanzata del Risorgimento e dell’Unità.

Nella risposta cieca della casa regnante delle Due Sicilie, esiste tutto il bizantinismo che doveva crollare sotto la spinta moderna: i monarchi dispotici che eliminano fisicamente gli avversari, senza riguardo neppure per i giuramenti, i patti internazionali, le più elementari norme dei diritti umani.

Il germe che la Repubblica Partenopea aveva incubato, quello della libertà dalle logiche feudali medievali che ancora appartenevano al Sud Italia, era nient’altro che l’avvisaglia della più grande trasformazione che stava per accadere ( e che altrove era inesorabilmente accaduta ).

La crudeltà non risiede nel numero dei morti che una strage o una rappresaglia compiono, ma nella ferrea logica che risiede alle sue spalle: l’annientamento fisico per il timore della sopravvivenza delle idee; il candido tavolino su cui si decide l’eliminazione fisica dell’avversario, compiuta poi dalla mano di altri.

Nella storia dell’uomo una simile posizione è sempre perdente, e sempre è appellata con la denominazione di tirannide. Niente poteva sopravvivere del regno di Napoli, se esso si fondava sull’asservimento delle masse, sullo sfruttamento dei contadini, sulla disuguaglianza sociale e di rango che l’aristocrazia meridionale conservava quasi indenne dal Medioevo.

A poco valgono le ragioni del primato di questo o quel settore dell’economia, scienza o opera umana, se esso poggia su una società divisa rigidamente in casta e in cui regna la disuguaglianza: lo stesso problema che l’Italia contemporanea non ha ancora il coraggio di affrontare.

Dunque i documenti del ‘799 che riusciamo a rintracciare ancora, nonostante la distruzione sistemica dei pensatori e dei carteggi operata per ordine di una dinastia già defunta all’epoca dei fatti - come sempre accade quando usa la violenza come unica arma dissuasoria delle idee- non fanno che ricordarci la stessa lezione di sempre: un popolo esiste quando ha la libertà di pensiero, quando le sue idee sono generate dalla responsabilità di una scelta consapevole, e non da un sentito dire o da una eredità culturale mai discussa.

In questo risiede la principale differenza con la schiavitù, in cui diritti e doveri si negano per mano d’altri, ed in cui la coscienza è annientata e si piega al soldo del primo compratore: l’accattonaggio italico, che molte volte abbiamo visto all’opera nella storia di questo paese, è la conseguenza di questa mancata responsabilità civile che stenta ancora oggi a prendere piede in uno stato che non è ancora pienamente di diritto, ma che soggiace ancora alle logiche medievali del familismo amorale.

Questa è la battaglia che le carte sopravvissute e pubblicate da Antonella Orefice, come intellettuale e come ideale erede napoletana di Eleonora Pimentel Fonseca -come ciascuna donna che lotta per il progresso civile e politico- ci rammentano: giova ricordare, eccome.