Quei briganti che volevano riportare sul trono Francesco II di Borbone

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Ninco NancoIl revisionismo sta cercando di imporsi, tramite tante pubblicazioni di storici non professionisti, con il rappresentare gli eventi storici del brigantaggio post-unitario quale forma di resistenza ideale, spontanea in relazione soprattutto alle vicende che videro protagonisti i briganti del periodo postunitario, più famosi quali Carmine Crocco, Ninco Nanco e altri più o meno conosciuti.

Con riferimento alla vasta pubblicistica degli ultimi dieci anni, ritroviamo tanti politici, giornalisti e scrittori che si sono accaniti nel dare al brigantaggio una connotazione di carattere politico – sociale, arrivando ad affermazioni poco credibili riguardo a tali briganti nel momento in cui li si considera antesignani dei protagonisti di una resistenza partigiana.

Per altri ci troviamo di fronte ad una vera e propria lotta di classe, con i “signori “ da una parte e "i briganti", provenienti dagli strati più bassi della società, dall'altra. Eppure la ricerca storica ci conferma che non fu affatto così per quei briganti che sono entrati nella Grande Storia. Il brigantaggio di cui ci occupiamo non genera progetti di rinnovamento economico e politico, anzi si limita soltanto a propagandare il ritorno sul trono di Francesco II.

Come scrive Luciano Priori Friggi:

“ Quando oggi gli scrittori e i propagandisti neoborbonici parlano di esercito di occupazione sabaudo, installatosi dappertutto al sud fin da subito per opprimere le popolazioni, dicono solo e semplicemente il falso.

Il caso della Basilicata è emblematico: la regione nell’agosto del ’60 è insorta autonomamente, ha cacciato l’esercito e il personale borbonico, dandosi una nuova dirigenza politica."

I lucani non attesero l’arrivo di Garibaldi. L’eco dell’insurrezione lucana valicò i confini della penisola, tanto che Friedrich Engels, in un articolo scritto intorno al 1 settembre 1860 e pubblicato sul New York Tribune il 21 settembre dello stesso anno, fece riferimento ad una rivoluzione lucana, e citava Corleto Perticara (da lui chiamata erroneamente "Carletto Perticara") come centro del movimento insurrezionale.

Indubbiamente la questione delle terre demaniali e la renitenza alla leva, aver sperato in un riscatto sociale, che poi non avvenne, sono questioni che ebbero la loro indiscutibile valenza e sono state ben evidenziate da Giustino Fortunato, Guido Dorso, Francesco Saverio Nitti ed altri negli anni successivi all’Unità.

E’ notorio altresì come la rapida trasformazione politica conseguita nel Mezzogiorno provocò risentimenti e malcontenti non solo da parte del popolo e della vecchia classe borbonica, ma anche dei borghesi liberali e soprattutto dei democratici radicali.

Tuttavia deve essere posto nel giusto, fondamentale, prioritario aspetto la reazione antiunitaria, operata dalla dinastia borbonica, che si era sempre dimostrata brava nel compito di manovrare il malcontento,
pur essendo al sicuro tra gli agi di Gaeta.

 

Ricordiamo come il cardinale Ruffo nel 1799 era riuscito a raccogliere un esercito di volontari e realisti, nonché rinomati briganti per sconfiggere la gloriosa Repubblica Napoletana e riportare sul trono la dinastia borbone.

Anche dopo l’Unità la corte borbonica fece di tutto per riconquistare il trono, indirizzando verso una reazione antiunitaria un brigantaggio che già da tantissimi anni prima del 1860 infestava le province del Meridione.

In tale fase storica il brigantaggio divenne strumento in mano ai lealisti borbonici e ai clericali, per obiettivi antiunitari e antiliberali.

Nella primavera deCarmine Croccol 1861 il brigante Carmine Crocco, che operava con la sua banda al confine tra la Basilicata e la Campania, fu accolto dall’arciprete di Lavello, Ferdinando Maurizio, con la bandiera bianca dei Borbone.

Le parole del brigante Francesco Gumbaro potevano essere sottoscritte da tanti altri. Appena arrestato, durante l’interrogatorio, il brigante Gumbaro ebbe a dire: “Mi unì alla banda di Sacchitiello, perché mi illusero che era protetta da Francesco II, che mandava denari e munizioni e che tra breve sarebbe rientrato a Napoli e ci avrebbe dato terreni e denari”.

Lo stesso Crocco si dimostrò un abile ideatore di furberie varie e messinscene che avevano il fine di far credere al popolo che il ritorno di Francesco II sul trono era imminente, addirittura già realizzato.

Quella, di cui rende testimonianza Camillo Battista, fu senza dubbio la “trovata” di Crocco più riuscita. Il brigante fece arrivare nella piazza di Venosa un soldato borbonico, che si mostrava stanco, affannato, impaziente di raccontare a tutti il grande evento: “ vengo da Napoli – e sia benedetto Iddio che Francesco II s’è assettato sulla seggia reale di suo padre”.

Ci furono anche i festeggiamenti con “illuminazioni, spari , baccani popolari, campane a festa, baldorie, acclamazioni a perdigola”.

Quindi si mostra difficile ravvisare nel brigantaggio post-unitario un autonomo spirito di contrapposizione ideale e sociale.

I briganti, che sono entrati nella Grande Storia, tra cui Carmine Crocco, Ninco Nanco, Michele Caruso, erano privi di quelle grandi idealità che avevano e avrebbero guidato nei vari momenti storici gli uomini con il cuore rivolto all’emancipazione delle classi subalterne.

Scrive Luciano Priori Friggi:

“Le loro storie non avrebbero avuto niente di eccezionale rispetto alla sorte dei briganti pre-unitari. Senza la spedizione dei Mille essi sarebbero restati in carcere se liberi, sarebbero stati uccisi dalla forza pubblica oppure presi e impiccati, o internati nei bagni penali del regno…”

Lo storico Ettore Cinnella così si esprime al riguardo del brigantaggio:

“...il grande brigantaggio, specie nella sua fase più cupa, non essendo rischiarato da alcuna luce né politica né sociale, era sorretto solo dall’istinto di conservazione dei suoi membri e dalla pulsione distruttiva nei confronti del mondo esterno…il grande brigantaggio degli 1862-1864 fu solamente ferocissimo malandrinaggio di dimensioni apocalittiche mai viste”.

In effetti , come ha avuto modo di rilevare Marco Demarco in un memorabile scritto rivolto al cantautore di musica popolare Eugenio Bennato sul Corriere del Mezzogiorno:

“E mai, dico mai, un brigante ha posto al centro della sua azione la questione sociale, il riscatto dei poveri o l’assegnazione delle terre ai contadini."

Come abbiamo già avuto modo di evidenziare, lo storico Cinnella attribuisce un “afflato” sociale solo ad alcuni piccoli gruppi vicini alla gente umile e, a mò di esempio, cita alcuni briganti minori, che non sono entrati nella Grande Storia, i quali agivano nel Materano.

A smentire il conflitto di classe è lo stesso Carmine Crocco, che scrive nella sua autobiografia in cui, è bene ricordarlo sempre, è assente qualsiasi minimo riferimento alla questione demaniale:

“Alla nostra salvezza contribuirono in massima parte i signori col loro potente ausilio, od almeno il loro silenzio. Io stesso che scrivo, nei vari anni della mia vita di bandito, dormii poche volte al bivacco, e trovai alloggio e ristoro presso personalità da tutti ritenute intangibili sotto ogni rapporto. Non fui mai tradito; molte di queste persone non mi tradirono per paura benché io non lo minacciassi, ma altre molte mi diedero ricovero per interesse e altri per cupidigia.”

Dunque i rapporti tra briganti e "signori" erano ben intrecciati e non solo tra briganti e "signori" di fede borbonica, ma anche "liberali", i quali trafficavano con i briganti secondo le opportunità del momento.

Per aver una consapevolezza dell’intreccio di interessi tra "signori" e briganti postunitari, intendiamo citare un episodio clamoroso, che testimonia il tipico gattopardismo delle famiglie ricche, pronte ad adattarsi al momento contingente.

L’episodio è riportato da Basilde Del Zio, il quale ci comunica il tipico doppio gioco di tante famiglie ricche nei confronti dei nuovi governanti, dato che ufficialmente si proclamavano liberali e nel contempo trafficavano con i briganti.

Ci troviamo nel Melfitano e il generale Pallavacini un giorno ebbe la sicurezza di poter agire contro il brigante Sacchitiello, nascosto in casa di ricchi signori. La “soffiata” era stata opera della brigantessa Filomena Pennacchio, ex di Caruso, di Crocco e infine donna di Schiavone.

Filomena PennacchioCome era diventata brigantessa Filomena Pennacchio?

Dopo aver ucciso il marito, si rivelò spietata quanto i briganti maschi, e per questo era ammirata e rispettata. Dato che Schiavone era stato catturato per la soffiata di Rosa Giuliani, gelosa di Filomena, la Pennacchio decise di collaborare all’arresto di Agostino Saccatiello come forma di rivalsa.

Così il generale Pallavicini poté conoscere che era il signor Michele Rago, luogotenente della Guardia Nazionale, con la complicità di suo zio Donato Rago, ad ospitare i briganti in una camera sotterranea.

I signori Rago, sicuri, fecero entrare gli ufficiali di cavalleria e i bersaglieri.

Così, mentre Sacchitiello con i suoi briganti banchettavano nel nascondiglio sotto la volta della galleria, gli ufficiali della Guardia Nazionale danzavano al piano superiore.

Al momento opportuno la Guardia Nazionale catturò gli stupefatti Agostino Saccatiello, Vito Saccatiello, Giuseppina Vitale e Maria Giovanni di Ruvo.

Si può immaginare l’incredulità dei signori Rago, i quali avevano aperto le danze, sicuri di trascorrere una serata memorabile. E così fu.

 

Angelo Martino

 

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