Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Napoli bifronte di confusioni storiche

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Mentre il 13 giugno 2013, festeggiavamo l’(ac)caduta Repubblica Partenopea sotto i Portici d’Angiò, a San Gregorio Armeno -e dunque una stradina più in là- campeggiavano le bandiere degli autodefinitesi Sanfedisti che “tornavano finalmente a Napoli”.

Ora il punto non è incitare allo scontro tra due opposte fazioni sul torto o sulla ragione storica, ma valutare il portato degli avvenimenti e la loro attualità: uno dei punti salienti e fondamentali da chiarire è che il movimento del ‘799 non poteva che chiudersi tragicamente; le paure innestate dalla ferocia della Rivoluzione Francese e dal suo Terrore non potevano che incutere timore ai reali napoletani che però avrebbero potuto certamente scegliere un’altra strada che quella della strage delle loro migliori menti.

Del resto gli stessi sovrani avevano promesso una clemenza che non ebbero, perdendo di credibilità agli occhi del mondo: non molto tempo dopo, durante l’Unità d’Italia, e prima con l’invasione francese murattiana, il Regno sarebbe crollato egualmente senza formulare alternative solide, spalancando le porte all’avanzata successiva dei Piemontesi.

Fu dunque il ‘799 anticipatore di quelle spinte che altrove meglio recepite, erano nell’aria: il portato europeo della Rivoluzione Francese, ovvero la discussione dalle fondamenta stesse del diritto e della ragione d’esistere, degli stati dell’antico regime e della loro trasformazione verso l’idea di stato moderno non poteva che essere rimandata, e di poco.

 

Questo è il motivo per cui l’anima dei Sanfedisti era segnata da una religione superstiziosa e ignorante, che fece rinnegane a Napoli persino il suo patrono -che aveva avuto nientemeno che il coraggio di compiere comunque il miracolo della liquefazione del sangue durante la presenza francese- e non poteva che pervenire ad un fallimento storico di portata definitiva.

A distanza di 214 anni dalla proclamazione della Repubblica Napoletana, il non voler prendere in considerazione i fatti preannunciati dal ‘799, mostrarono invero tutta la fragilità della monarchia, e oggi, non fanno altro che confermarci una Napoli tenacemente attaccata alla lametatio e ad un idealizzato passato: ogni problema nuovo o antico di pessima amministrazione, non fa che ricadere su una presunta Età dell’oro che dell’oro ebbe ben poco, specialmente per il popolo.

Le riforme iscritte nella Costituzione che la Rivoluzione non riuscì ad attuare, andavano tutte a vantaggio del popolo, che preferì accodarsi ai lazzari e ai prezzolati, piuttosto che tentare un cambiamento e una trasformazione.

I rudimenti del ragionamento politico e dello spirito italiano liberale moderno e contemporaneo, non possono che essere rintracciati proprio del movimento della Rivoluzione Napoletana: essa ha “solo” il merito di aver largamente anticipato l’anima di profonda riforma che stava investendo gli assetti europei e l’Italia del Nord.

Ciascuno dei protagonisti dei pochi mesi della Repubblica, fu a suo modo un anticipatore di tutte quelle spinte che avrebbero segnato le conquiste dei diritti dei secoli successivi: dalla lotta per la parità di genere di Eleonora, a quella civile di Pagano o di Vincenzo Cuoco che nel 1806 ( Saggio Storico ) avrebbe formulato un’idea di “monarchia temperata” che era ormai propria di una intera classe politica che era andata formandosi proprio in quegli anni autonomamente.

I Francesi che con Murat tornarono presto a Napoli, non furono che la naturale prosecuzione degli eventi che il ‘799 non era riuscito a portare fino in fondo: se gli intellettuali napoletani non fossero stati barbaramente trucidati, sarebbe stato interessante capire come la Repubblica Napoletana sarebbe sopravvissuta ai più pratici e spiccioli interessi francesi.

E invece, sterminando la classe più preparata e pronta al cambiamento, l’unica in grado di negoziare con l’avanzata nel nuovo, i Borbone non fecero che accelerare la loro stessa caduta: l’elemento veramente moderatore che poteva venire dalle menti della Rivoluzione, fu messo a tacere per sempre e con esso, l’unica fonte di mediazione possibile.
Il punto è che il sistema borbonico di cui la capitale, Napoli, era ornata di preziosi monumenti, attraversava lungo il corso del ‘700 una gravissima crisi: l’Albergo dei Poveri ne è il simbolo, e come simbolo, restò per sempre incompiuto.

L’epidemia delle cosiddette “Febbri Putride” del 1764, aveva scoperto il nervo di una più grave e complessa carestia che si trascinava da anni e per tutto il Sud Italia, tanto che Napoli accolse per poi disfarsene in varie epidemie, oltre cinquantamila profughi dalle affamate province: beri-beri, pellagra, speculazioni sul cibo e persino sulle sepolture (di qui l’esigenza del Fuga del geniale cimitero delle 366 Fosse) illustrano bene come l’illusione dell’Età dell’oro della Capitale non sia che un appiattimento dei contemporanei e dei nostalgici.

Sorprende dunque oggi vedere ancora una Napoli dal duplice volto in cui si tende a liquidare in rozzi scontri ideologici, i fatti che portarono inevitabilmente al caos del 1799, dopo tensioni che dalle province si erano estese alla Capitale e da qui, saldate con le idee che la Francia in quegli anni era andata formando, non soltanto nella coscienza degli intellettuali, alla risposta sociale di regimi che avevano ormai i giorni contati.

Approfittando del caos, in cui il popolo non aveva una posizione cosciente, ma era preda di volta in volta della propaganda ora dell’una ora dell’altra parte, la breve esperienza della Repubblica, minata da posizione estreme anche al suo interno, non poteva che finire in un fallimento politico-militare.

Ma come dimostrano i fatti successivi, annientata l’intellighenzia avanzata in maniera cruenta, non si seppe affatto costruire una vera alternativa a quella che era la vera esigenza impellente: la trasformazione dei regimi totalitari per diritto di nascita e divino in stati moderni.

Così, dopo il ‘799, la Storia non è cambiata: per Napoli si è aperta un’occupazione ancora più cruenta e devastante, che a sua volta ha di fatto aperto le porte al presunto saccheggio piemontese.

A distanza di secoli, la lettura storica dovrebbe aiutare a meditare non sul torto o sulla ragione, ma sulla responsabilità: quello che fu represso nel sangue nel ‘799 non poteva essere taciuto a lungo e così fu.

Per questa ragione, i protagonisti della Repubblica Partenopea -e la fortuna storica ed iconografica di Eleonora Pimentel Fonseca lo dimostra appieno, piuttosto che la figura più tradizionale di una Luigia Sanfelice- dimostrano come le tendenze innovatrici, furono recepire appieno dalla Napoli che in quel momento poteva avere accesso agli studi e agli eventi d’Oltralpe; chi guardò irrimediabilmente al passato , come è destino per gran parte dei Napoletani contemporanei che si ostinano a sostenere le ragioni cieche di una monarchia sull’orlo di una crisi di nervi e sociale, è destinato ad autoestinguersi.

La Storia travolge sempre chi guarda al passato: è la sua funzione, anzi il suo principale “passatempo”.

 

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