Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Sui limiti della scienza

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E’ del tutto naturale che l’uomo della strada, nel leggere i resoconti delle scoperte scientifiche, le consideri alla stregua di descrizioni del mondo reale. Perché mai dovrebbe pensare diversamente, dati gli impressionanti successi che la scienza ha conseguito negli ultimi secoli?

Mette conto notare, tuttavia, che non soltanto alcuni filosofi, ma anche parecchi scienziati di professione hanno spesso contestato questa fede ingenua nella validità della visione del mondo che la scienza dei vari periodi storici fornisce. Ai giorni nostri l’incertezza circa il contenuto delle teorie scientifiche è cresciuta in modo rapido, parallelamente alla sensazione che esistono teorie alternative in grado di spiegare le osservazioni.

Di qui il relativismo, il quale appare ormai a molti un dato di fatto più che una minaccia. Il nocciolo di tale posizione consiste nel riconoscere che non c’è una concordanza necessaria tra la realtà così com’è e le teorie che noi formuliamo circa la realtà stessa.

Ovviamente la situazione si presentava ben diversa quando positivismo ed empirismo logico erano le correnti epistemologiche dominanti. In quel caso l’obiettivo primario era individuare i modelli immutabili che sottendono la pratica scientifica, giacché si riteneva che la scienza fosse oggettiva e in costante progresso (nel senso cumulativo del termine).

L’intersoggettività era dunque garantita dal linguaggio scientifico, ritenuto neutrale, scevro da errori e da ambiguità e, proprio per tale motivo, accessibile a qualsiasi osservatore. Gli assunti di fondo su cui si basava tale paradigma erano sostanzialmente i seguenti.

In primo luogo, il verificazionismo costituiva quasi una verità di fede, mentre oggi si ritiene difficile identificare la presenza del significato esclusivamente con ciò che può essere verificato dal punto di vista percettivo.

In secondo luogo, neopositivisti e neoempiristi non hanno mai offerto argomenti conclusivi a favore della tesi secondo cui il discorso assertorio deve essere privilegiato rispetto ad altre, e più pragmatiche, forme del linguaggio.

In terzo luogo, l’esistenza della verità oggettiva non era messa in discussione e, per di più, in ambito neopositivista si credeva che essa potesse essere trasmessa usando un linguaggio logico puro e neutrale. Infine neopositivisti e neoempiristi non riconobbero pienamente la dimensione essenzialmente storica dell’impresa scientifica.

 

Una visione pragmatica della scienza ci porta a conclusioni piuttosto differenti. Senza sposare le tesi più estreme, possiamo affermare che la scienza è plausibilmente impegnata a sostenere l’esistenza delle entità teoriche che essa postula, cosicché le teorie scientifiche riguardano veramente ciò che vi è in natura.

Tuttavia tale impegno ha pure dei limiti precisi, in quanto ciò che possiamo ottenere è, al massimo, una concordanza di base tra le teorie e la realtà. Ecco perché si punta a rimpiazzare le idee convergentiste di Peirce circa il progresso scientifico con una posizione più modesta, legata ai crescenti successi nell’ambito della scienza applicata (specialmente in materia di predizione e di controllo).

Questa dimensione di “efficacia applicativa” è qualcosa di reale, e risulta arduo negarla se si intende mantenersi sul piano del discorso razionale.

E’ dunque possibile ottenere miglioramenti significativi del nostro patrimonio conoscitivo, ma deve pure essere chiaro che ogni progetto basato sull’idea di “perfezione” e, quindi, sul proposito di giungere al completamento definitivo dell’impresa scientifica, è destinato a fallire.

Ciò significa opporsi a una tendenza di cui un celebre libro del fisico premio Nobel Steven Weinberg (Il sogno dell’unità dell’universo) rappresenta un esempio significativo, vale a dire la ricerca di una “teoria finale”.

Indubbiamente la scienza, nel cercare di svelare la struttura della realtà, fornisce informazioni preziose intorno al mondo. Sarebbe tuttavia pericoloso dimenticare che tali informazioni hanno sempre un carattere di controvertibilità che le rende oggetto costante di discussione.

Invece di abbracciare posizioni assolutiste, appare più ragionevole sostenere che la scienza si sforza davvero di giungere a una comprensione piena di “ciò che vi è”, sottolineando al contempo che le sue affermazioni hanno, dal punto di vista ontologico, valenza provvisoria.

Si noti che questa visione pragmatica dell’impresa scientifica consente anche di evitare l’azzardo strumentalista. Segue infatti da quanto si è appena detto che le entità teoriche della scienza vengono postulate a fini essenzialmente pratici, e cioè per supportare la spiegazione causale di fenomeni ed eventi percepibili dai nostri sensi, ma ciò non significa che esse siano del tutto sganciate dal piano del reale.

Molti studiosi hanno affermato a questo riguardo che la inosservabilità delle entità teoriche della scienza è dovuta a fattori contingenti, i quali a loro volta vanno fatti risalire sia alla natura degli enti che sfuggono all’osservazione sia alle caratteristiche dei nostri meccanismi percettivi.

Ciò è dimostrato dal fatto che entità che non erano osservabili in un certo periodo storico lo sono diventate in seguito, grazie alla nostra capacità di estendere artificialmente le facoltà percettive mediante strumenti tecnologicamente avanzati.

Ne consegue che ogni demarcazione netta tra entità osservabili e inosservabili non è significativa dal punto di vista ontologico: se rifiutiamo la prospettiva realista per quanto concerne gli inosservabili, anche il realismo in generale deve essere abbandonato.

Percorrendo sino in fondo questo sentiero, occorre affermare che alcune entità scientifiche sono inosservabili solo sul piano contingente, e la loro inosservabilità (dovuta, ad esempio, alle ridotte dimensioni) presenta le stesse, risolvibili difficoltà che si incontrano quando si prendono in considerazione i corpi celesti (in quest’ultimo caso, è la collocazione spaziale a porre problemi).

Le concezioni strumentaliste della scienza trascurano tuttavia il fatto - davvero essenziale - che per lo scienziato la predizione e il controllo hanno il compito di verificare l’adeguatezza delle nostre teorizzazioni circa la realtà oggettiva; non sono dunque le teorie a dipendere dalla predizione e dal controllo, ma viceversa.

In altri termini, è certamente corretto sottolineare la fallibilità e la correggibilità dell’impresa scientifica, ma ciò non dovrebbe indurre a negare la possibilità di pronunciare asserzioni esistenziali e descrittive sul “mondo reale” all’interno della scienza.

Simili asserzioni sono legittime, a patto che si rammenti, come si è già notato in precedenza, il loro carattere provvisorio e ipotetico. Tutto ciò che possiamo dire è che “se” la scienza dei nostri giorni è corretta, “allora” le cosiddette entità teoriche esistono e possiedono proprio le caratteristiche che essa ipotizza.

Nessuna scienza potrebbe svilupparsi prescindendo da quest’atteggiamento realista di fondo, giacché il suo scopo precipuo è fornire un quadro della realtà ontologicamente fondato.

Nel prendere atto di tale stato di cose si deve riconoscere, da un lato, il ruolo descrittivo ed esplicativo che la scienza si propone di svolgere, mentre dall’altro occorre pure essere coscienti che essa è destinata a essere imperfetta e fallibile.

 

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