Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Le parole di Antonella Orefice: un'azione di arte berniniana

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Non sono i figli pezzi di cuore. Lo sono le parole. Nessuno meglio dei napoletani lo sa, anche se si attribuisce proprio a loro la frase I figli so' piezz 'e core.

Ci sono altre aree nel mondo in cui troviamo termini che, nel trasportare storia, cultura e quindi sofferenze e gioie, passano di bocca in bocca, giungono dappertutto e se ne dimentica le origini.

A volte diventano asfittiche, non dicono più nulla. La lingua Napoletana, uscita sconfitta nella battaglia con il Fiorentino nel decidere quale Lingua dovesse unire gli abitanti sul suolo italico, ha poi vinto la guerra: si è conservato tutto, integro, e lo si ritrova nella canzone, nel teatro, nei sogni di una infinità di persone.

Cosa accade quando si legge? Spesso accade che leggi due pagine e ti arrendi. Non lo bruci, non lo ricicli per buona educazione, ma non lo leggerai mai più quel libro: non ti ha "preso". Quanti sono i modi per scrivere un libro?

Infiniti. Se prendi a caso le parole, le trasferisci su un foglio, accadrà che avranno comunque senso.

Quanto meno ci si scorgerà un volto, un profumo, un pungolo nel cuore che dà sanguinamento. Ci sarà, forse, anche una reazione: vorrai fuggire, vorrai cercare aiuto, resterai volentieri a bocca aperta per la bellezza di una frase nata a caso.

È il fenomeno che ricorda la pareidolia: guardi una macchia qualsiasi, o le nuvole, e ci vedi il redentore con l’immancabile barba bianca, il diavolo con corna e zoccoli, Maradona con il pallone sul piede, poi sulla testa, quindi su una spalla.

Lo vedi addirittura palleggiare chiamando in causa anche il deretano (non fateci dire chiappe, che "pare brutto"; a limite diremmo fondo schiena, natiche, glutei e così via).

C’è un modo più serio di scrivere un libro. C’è un modo più serio per prendere in mano le parole e scoprirne il senso. C’è il modo più serio ed è quello adottato da Antonella Orefice, ricercatrice che sa dove mettere le mani e, soprattutto, ha voglia di farlo. È l’unico modo possibile per aprire la cassaforte e tirare fuori le gemme che contiene, senza farla saltare con la nitroglicerina.

Cosa ha fatto in questa ultima avventura? Noi vediamo tre elementi forti, dove si incentra il fulcro dell’azione artistica che ha posto in essere. È lì la leva che può, secondo noi, sollevare l’interesse verso la lettura di suo "figlio".

Primo elemento.

Ha ricercato a lungo. Ovvio, visto che è una ricercatrice. Volendo buttarla sul difficile, la nostra affermazione sarebbe una tautologia. Sarebbe come dire che un euro vale un euro.

Tale non è, giacché si può ricercare a vari livelli e qualcuno è meglio che lo si butti alle ortiche. Ella ha messo le mani con sapienza in documenti che richiedono esperienza, accortezza, spirito di sacrificio.

Non sappiamo a quanto abbia dovuto rinunciare per portare avanti un impegno che, assunto con sé stessi, non puoi abbandonare senza porre in essere la peggiore della azioni possibili: tradirsi.

In quel che Antonella Orefice ha fatto e fa noi troviamo una napoletanità di cui nessuno parla, ma esiste. Siamo certe che sarebbe capace di difendere il suo lavoro con le unghie e in ciò troviamo un legame con Gian Lorenzo Bernini che era napoletano a tutto tondo, formatosi nei vicoli della città, ma costretto ad andare via a sette anni, destinazione Roma.

Quando Gian Lorenzo giunse a Parigi, oramai anziano, per riprogettare il Louvre, non solo mise mano alla terza stesura del suo progetto, ma realizzò delle opere di inestimabile valore.

Lo ricorda il gentiluomo Paul Fréart de Chantelou, che ne tenne il Diario. Cosicché, quando il grande napoletano si accorse di essere irriso, impiegò poco a segnalare, e lo fece con veemente sfrenatezza, che per produrre le sue opere aveva "cacato sangue".

Secondo elemento.

Stavolta Antonella Orefice è entrata, ci pare una irruzione decisa, nel problema "Mariano D’Ayala". Lo dice già il titolo del libro: MARIANO D’AYALA E IL PANTHEON DEI MARTIRI DEL 1799.

Chi era Mariano D’Ayala? È dato coglierne il peso specifico nella Nota introduttiva di Renata De Lorenzo:

(…) uno dei protagonisti di quel mondo di memorialisti e scrittori di "cose patrie" che scelsero di scrivere di uomini, nella convinzione che i percorsi biografici fossero capaci di rappresentare un’epoca. Militare, patriota, impegnato politicamente e quindi esule, ha lasciato, oltre che il messaggio di una personale intensa biografia, quello di un percorso di ricerca, lo studio della morte che, come ci ha insegnato Vovelle, rappresenta una intensa e convincente storia di vita.

Convinto che la memoria dei suoi eroi "benemeriti della libertà e della Patria" o finiti "per mano del carnefice", dai primi giustiziati del 1794 all’esperienza della lotta antiborbonica della Repubblica del 1799 a quelle del secolo XIX, potesse contribuire al rafforzamento delle idee liberali, visse anche a suo modo la delusione dell’unificazione. Al di là del discorso strettamente politico il suo impegno si dispiegò nella ricerca meticolosa e accurata dei documenti di ogni tipo che colmassero il carattere lacunoso delle fonti.

Di qui la scelta del figlio Michelangelo sia di pubblicare le Memorie ed altre opere del padre che di donare alla Società Napoletana di Storia Patria le carte di famiglia, che formano il fondo D’Ayala.

Dalla stessa Nota è opportuno trarre l’immagine che si traccia della Autrice:

(…) Antonella Orefice, da socia attiva e sensibile alla valorizzazione del patrimonio del sodalizio, coinvolgendo anche i soci Antonio Salvatore Romano e Alberto Mario D’Alessandro, ci offre la trascrizione della tavola cronologica dell’ anonimo Pantheon dei martiri della Repubblica napoletana "attraverso la creazione di sarcofagi immaginari su cui è inciso il loro nome seguito da quello di eroi greci e latini e da una citazione tratta dai classici".

Affronta la polemica sull’autenticità del documento innescata da Alberto Agresti, autorevole membro e segretario dell’Accademia Pontaniana alla fine del secolo XIX, attraverso la perizia grafologica dei frontespizi delle due versioni del Pantheon.

Ciò che preme sottolineare è inoltre la legittimità che deriva dall’abbinamento col mondo classico; essa rimanda al fascino della storia narrata e della biografia storica, suggerisce paralleli che prevedono la sana e costruttiva erudizione che fu alla base della creazione della Società Napoletana di Storia Patria nel 1875-76 e che la storiografia suggerisce di riproporre come costruttivo canone interpretativo della complessità dell’analisi del passato.

Terzo elemento.

È nella Prefazione di Henry John Woodcock che suscita contemporaneamente ammirazione e invidia. Ammirazione: per noi la prefazione è sempre una post – fazione, un tirare le somme o almeno mettere il lettore in condizione di poterlo fare, rileggendola dopo aver letto il libro.

È anche una promessa formale molto complessa. Ha in sé sia una manifestazione di intenti dell’autore (certamente li avrà trasferiti a chi dovrà scrivere la prefazione), nonché di chi la redige, che desidera fortemente siano realizzati. Naturalmente c’è anche la competenza del redattore, il suo background.

Assieme, stretti in una avventura che si è deciso di condividere, strizzano l’occhio ma non blandiscono il lettore, che non è ancora interpellato se non con il tema scelto: potrebbe far parte dei suoi interessi e dovrà leggere per integrare la sua conoscenza.

Almeno stavolta così è. Stavolta la coppia Autore – Prefatore funziona come sincronismo culturale che si regge su passioni comuni, su comune sentire, su sintonie che ci pare di poter cogliere in filigrana.

Come si potrebbero non ammirare le parole di un uomo che riesca a dire di essere straniero, però: "Straniero si, ma con il cuore, la mente ed il portamento tipico dei napoletani"?

Lo fa conoscendo una città e un popolo che non hanno perso rispettivamente la natura di capitale culturale e di cittadino ben più alto culturalmente di quanto si creda – dica.

Anche il libro - oggetto lo dimostra e ci fa confessare che lo vediamo come opera d’arte in sé. È meraviglioso che una persona come lui rivendichi il diritto di essere napoletano e lo faccia in un libro che parla di tutti i protagonisti della rivoluzione partenopea, non solo dei giustiziati. Chapeau.

Leggiamone parte: "Era un pilastro della città pur essendo uno straniero": questa è solo una delle belle citazioni di Mariano D’Ayala contenute nel suo prezioso manoscritto di cui si parla nel libro di Antonella Orefice. Citazioni – quelle contenute nel libro – tratte dai classici, da opere che non hanno né tempo né luogo.

Questa volta è Omero, che nell’Iliade ci manda un messaggio da lontano: "lo straniero è parte, non è altro. Lo straniero è partecipe, se non protagonista buono. Lo straniero non è il nemico, non è l’estraneo, ma è il vicino, è colui che ti può dare una mano".

Il pilastro è dunque, nel nostro tempo, la badante, che si prende cura delle nostra mamme o dei nostri nonni o dei nostri figli. Il pilastro è dunque l’operaio dalla lingua incomprensibile, e con lo sguardo pieno di speranza. Tutti stranieri , nella nostra bella ed accogliente terra.

Pilastro, pur essendo uno straniero, dice Omero.

Pur essendo uno straniero.

Ma straniero lo sono anch’io.

Straniero perché porto un cognome inglese, perché sono nato in Inghilterra. E, ironia della sorte, mi ritrovo un accento così partenopeo che è difficile credere che io sia davvero d’oltre Manica.

Straniero si, ma con il cuore, la mente ed il portamento tipico dei napoletani. E’ per questo che mi ha colpito molto l’opera di Antonella Orefice. (…)

Il resto della Prefazione non ce la sentiamo di svelarla. Vi troviamo altri elementi attraverso i quali giungiamo a provare invidia. Siamo, lo si ripete, di fronte a una meraviglia, a un insieme di stimoli che derivano da un Sapere che vorremmo padroneggiare, che non sarà mai a noi accessibile.

Non è, però, una invidia frustrante. Ci rende solo più consapevoli; ci fa capire cosa dobbiamo volere; ci mette semplicemente in condizione di alzare lo sguardo al cielo, guardare le stelle e desiderare di avere in mano questo libro.

 

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