Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I 90 “giusti” sconosciuti di via Cenisio 77

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Nella foto Gianfranco Moscati Moshé Dana è un ebreo di nazionalità italo-turca che ora vive in Israele, dopo aver trascorso i primi venti anni della sua vita a Milano, in Italia. È l’unico sopravvissuto di una famiglia di sei persone, tutte perite ad Auschwitz. Si salvò grazie ai 90 inquilini di un caseggiato milanese, che lo nascosero a proprio rischio e pericolo.

Moshè è un amico di vecchia data di Gianfranco Moscati, grande raccoglitore delle storie degli ebrei italiani perseguitati. Nati entrambi nel 1924, frequentarono assieme la materna e le elementari alla scuola ebraica di via Eupili. Moscati ci ha fornito la sua testimonianza inedita.

Isacco Dana, padre di Moshé, era emigrato in Italia nel 1925, assieme a cinque fratelli e alle rispettive famiglie. All’epoca Moshé aveva appena un anno di vita (era nato il 3 settembre 1924). Abitavano nella zona di corso Sempione, come i Moscat.
Al mercatino di via Poliziano i Dana gestivano un banco per la vendita di calzetteria. “A Milano – racconta nel suo scritto – si stava abbastanza bene, nonostante il regime, tanto che nei primi degli anni trenta papà ottenne la cittadinanza italiana, che gli costò qualche mese di servizio militare (e più tardi molto di più)”. Il padre di Moshé fu l’unico dei sei fratelli turchi a fare questo passo.

Quando nel 1938 il duce emanò le leggi razziste, per la famiglia Dana (come per tutti gli ebrei divenuti italiani dopo il 1919) fu disposto l’annullamento della cittadinanza e l’obbligo di lasciare il Paese entro sei mesi. “Dove poteva andare una famiglia di sei persone, con bambini piccoli, senza soldi e senza nemmeno il passaporto? C’era qualcuno al mondo pronto ad accogliere dei perseguitati? Si pensò alla vicina Svizzera, ma per andarci (…) occorrevano non solo molti soldi, ma anche forza e coraggio, cosa impossibile per i bambini, che non si potevano lasciare!”. Sicché, come fecero tanti altri ebrei, i Dana rimasero in Italia come immigrati clandestini.


Con lo scoppio della guerra, la famiglia di Moshé sfollò a Ballabio, in Valsassina, dove trovò ospitalità ed accoglienza da parte della gente del luogo. Nel frattempo gli zii con le famiglie, “essendo rimasti cittadini turchi, furono, col tempo, ‘confinati’ in vari posti, ma più tardi furono spediti, dagli stessi tedeschi, in Turchia (che era neutrale e pro-tedesca), dalla quale tornarono, dopo la guerra, come se nulla fosse”.


In seguito Moshé si trasferì con i nonni paterni e la famiglia di uno zio nel caseggiato di via Cenisio 77, dove abitavano circa cento persone. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, i tedeschi e i fascisti scatenarono la caccia agli ebrei. Un giorno una bomba sfondò la tromba delle scale e danneggiò alcuni appartamenti, che furono evacuati, anche perché non erano più fisicamente raggiungibili, tranne uno al pianterreno.

“Fu la nostra fortuna – continua la testimonianza di Moshé -, perché quelli che ci stavano, ebbero la geniale idea di cambiare la loro casa, sinistrata e ufficialmente evacuata, con la nostra (intatta), così, se fossero venuti a cercarci (e vennero!), avrebbero trovato loro, che naturalmente non ‘sapevano’ dove eravamo!”.


Nell’appartamento danneggiato dal bombardamento “il freddo era tremendo, per mancanza di pezzi di muro” e Moshé e i suoi parenti soffrivano “la fame, perché la roba si trovava, al mercato nero, ma era molto ‘salata’” e perché i Dana non avevano molte risorse e per di più erano “senza tessere alimentari, non avendo le carte in regola”.


Purtroppo nelle settimane successive i carabinieri di Lecco arrestarono la madre di Moshé, le due sorelle Stella ed Ester (di 17 e di 9 anni) e il fratello Salvatore (di 12 anni) e li consegnarono poi ai tedeschi. In un secondo momento fu preso anche il padre, che faceva la spola tra Ballabio e Milano.


“Intanto – racconta Moshé – noi, a Milano, rimanemmo un altr’anno e mezzo nascosti in quelle belle condizioni, al freddo e alla fame, con la perenne paura di essere scoperti (o denunciati)”. Ma nessuno del caseggiato li tradì. Anzi, dopo una nottata di bombardamenti, “un mattino (…) chi ti bussa alla porta, se non il capocasa (fascista!), che ci dice: ‘ma ragazzi, perché non scendete in rifugio? Volete beccarvi una bomba in testa, proprio mentre state cercando di salvarvi?”. Così Moshé scoprì che “più o meno, tutti sapevano di noi e non solo non pensavano a farci del male, ma erano perfino preoccupati per noi!”


A Milano la liberazione arrivò solo il 25 aprile 1945. “Mi trovò praticamente come un verme: senza famiglia, senza casa, senza denaro, senza professione e perfino senza istruzione! Solo una cosa: VIVO!”. Moshé cercò disperatamente notizia dei suoi e purtroppo venne a sapere che erano tutti morti nel lager di Auschwitz.


Nel febbraio del 1947 Moshe s’imbarcò clandestinamente per la Palestina, giungendo ad Haifa il 27 febbraio a bordo della nave Ulua, assieme ad altri 1760 profughi.


La sua storia di persecuzione (le leggi razziste italiane, l’arresto da parte dei carabinieri e la deportazione della famiglia) ma anche di umanità e di solidarietà era finora inedita. Restano invece sconosciuti i novanta inquilini del caseggiato di via Cenisio che salvarono lui e i nonni paterni. Novanta “giusti” senza nome, che eccezionalmente non “vendettero”, come purtroppo spesso accadde in quel triste periodo, degli inermi ebrei ai nazifascisti.


[L’Unione Informa, 17 aprile 2012]

 

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