Sui venti mesi della Repubblica Romana del 1798 - 1799

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Nella  storia lunga della Rivoluzione francese il periodo cosiddetto del ‘Direttorio’, compreso tra il 28 luglio (‘termidoro’, secondo il calendario rivoluzionario) 1794 e il 9 novembre (‘brumaio’) 1799, tra la fine cioè di Robespierre e l’avvento di Bonaparte, è visto come un grigio periodo di transizione, senza alcun vero, originale peso storico.

In realtà esso costituisce uno dei momenti più importanti non solo nella storia della Francia, ma anche dei paesi che furono toccati dalla Rivoluzione francese e che, proprio in quel quinquennio, conobbero i positivi, seppur tumultuosi, effetti dell’onda rivoluzionaria, che aveva avuto il suo epicentro a Parigi nel 1789.

Dicono i più recenti e accreditati storici della Rivoluzione, Furet e Richet, “Stretto fra l’anno II e il Consolato, il Direttorio ovviamente figura come uno scialbo momento di transizione fra due grandi avventure; da Robespierre a Bonaparte, in questo regime collegiale di uomini del tutto comuni non ci sono eroi, né salvatori. Contro questo governo di centro, anzi, si appuntano sia la tradizione rivoluzionaria che quella dell'ordine” (1), ma, osservano i due autori, “nella storia di Francia, il Direttorio è il primo tentativo di fondare una repubblica sul normale funzionamento delle istituzioni rappresentative. La Costituzione dell’anno III, nella sua lettera, è la vera figlia del  XVIII secolo. Essa crede nella libertà, nella promozione collettiva del talento e nella razionale organizzazione della vita sociale.”(2)

Questo periodo non ha nulla di ‘giacobino’, anzi nasce e si definisce  proprio contro Robespierre.

Tutte le esperienze che in esso sorgono in Francia e all’estero, specialmente in Italia, non possono pertanto assolutamente, a meno di fare violenza interessata e strumentale alla storia, assumere la connotazione, così spesso usata, di ‘giacobine’, come hanno osservato, con meditato senso critico, storici di rilievo, come Franco Venturi.

Così non furono ‘giacobine’ né la Repubblica Cisalpina, né la Repubblica Romana, né la Repubblica Napoletana, che non usarono mai nei loro atti ufficiali l’aggettivo ‘giacobino’, ma si definirono sempre e soltanto con il richiamo delle due parole “Libertà - Eguaglianza”.

Esso è stato usato dagli ambienti reazionari per denigrare quelle esperienze, offenderle storicamente, rimuoverle dalla memoria collettiva, inserendole in una collocazione ‘estremista’, di ‘violenza’, di ‘terrore’, di ‘antireligiosità’, orientamenti che furono ad esse profondamente estranei, scaricando su di esse il fanatismo e l’odio delle masse cittadine e rurali, tenute per secoli nell’ignoranza e nella superstizione, sottoposte ad una martellante propaganda deformatrice cattolica dal 1789 in poi, che non è stata ancora veramente e profondamente studiata. (Vedi lo scritto più specifico nell’Appendice)

Il termine è stato usato, sempre in senso strumentale, anche da ambienti rivoluzionari (es. di tipo marxista), per connotarne la natura astratta, velleitaria, e bollare quelle esperienze poi, come sempre, con il solito, abusato termine ‘borghese’, per allontanare  una possibile direzione di attenzione e di consenso da parte delle classi subalterne, dei cui interessi si sentivano investiti come fanatici interpreti e difensori.

La rimozione dall’onesta, obiettiva realtà storica è avvenuta anche per una ulteriore convergenza di accuse, frutto questa volta dell’egemonia mazziniana nella tradizione repubblicana e democratica italiana, che ha visto sempre nelle esperienze repubblicane italiane di fine Settecento vicende non originali, importate e imposte dalla  Francia illuministica e rivoluzionaria, i cui orientamenti erano lontani dall’idealismo e dalla religiosità di Mazzini, anche se egli ne mantenne ed esaltò sempre la memoria eroica, martirologica e italiana, presente in quelle esperienze.

L’uso e l’abuso del termine ‘giacobino’ nella storiografia sono stati fatti, penso, per una utilità pratica, onde distinguerle da altre esperienze repubblicane successive (es. quella romana del 1849), ma il danno è stato forte nell’immaginario collettivo. Alcuni degli storici più avveduti, es. Giuntella per la Repubblica Romana, dopo la prima opera, non l’hanno più usata.

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E' indiscutibile che senza l’armata francese non sarebbero nate le esperienze repubblicane e democratiche nel Nord, nel Centro, nel Sud. Quell'esercito però non era di mercenari senza patria e senza ideali; ma di repubblicani, uomini del popolo e della piccola-media borghesia, che avevano conosciuto e condiviso la grande rivoluzione, che aveva spezzato l’ “ancien regime” del privilegio e dell’oppressione, che cantavano ‘la Marsigliese’ e si sentivano portatori di una forza di rinnovamento non solo nel loro paese, ma in tutta Europa, specialmente nel vicino paese latino, e molti dei quali vennero a morire sul suolo della nostra patria.

La Francia repubblicana aveva emanato già nel 1792 (anno di inizio del nuovo calendario) il decreto col quale si promettevano “fratellanza e soccorso a tutti i popoli che vorranno riacquistare la libertà ”.

In altro contesto storico (che comparativamente può far cogliere l’importanza dell’evento del 1798), senza l’aiuto dell'esercito francese nel 1859, il Regno di Sardegna non avrebbe potuto sconfiggere da solo l’Austria; senza la decisiva presenza delle armate delle democrazie  anglo - americane l’Italia del 1943 - 1945 non si sarebbe liberata da sola del nazifascismo e non si sarebbero create le condizioni per la fine della monarchia, l’avvento della Repubblica e della Democrazia. I repubblicani rivoluzionari italiani di fine Settecento e gli uomini della Resistenza sono per certi aspetti vicini ed hanno avuto spesso comuni destini di martirio (si pensi ai Martiri della Repubblica Napoletana).

Come ogni armata, anche quella repubblicana francese aveva le sue esigenze di pagamenti, sostentamenti, sopravvivenze e quindi era inevitabile che fosse un ‘peso’ per le popolazioni e i paesi che attraversavano (come avvenne in parte anche in Italia tra il 1943-1945). E la Francia repubblicana e democratica del 1798 non era gli Stati Uniti ad es. dell’ultima guerra, che potevano con le loro ricchezze sia sostenere le loro armate che sfamare spesso anche i territori occupati.

La Francia repubblicana di fine Settecento era aggredita da tutti i lati, aveva contro tutte le grandi potenze monarchiche, assolutiste d’Europa, dall’Austria alla Russia, e la conservatrice, mercantile Inghilterra col suo regime costituzionale. La Francia aveva già i suoi problemi economici interni e quindi non era assolutamente in grado di rifornire le sue armate all’estero, anzi fu costretta a chiedere alle popolazioni che aiutava a liberarsi dalle catene millenarie della servitù civile, politica e culturale contributi per la sua stessa sopravvivenza, in un comune destino di solidarietà.

E' chiaro che agli occhi dei grandi privilegiati, dei grandi possessori feudali ed ecclesiastici tutto ciò fu visto come ‘spoliazione’; ma era giusta spoliazione, storica resa dei conti, storico indennizzo di millenario sfruttamento ai danni degli umili, indennizzo che non fu pagato dai possessori né col sangue, né con misure estreme, se non quando vi furono tentativi di reazione, di volontà di ritorno violento al regime del privilegio, della disuguaglianza, dell’oppressione, dell’ignoranza.

Vi furono eccessi, vi furono ladri, come è prevedibile in ogni situazione del genere, ma questi aspetti comuni in ogni epoca non possono, non devono annebbiare o rimuovere la forza, l’importanza storica dell'esperienza rivoluzionaria del 1798 a Roma specialmente, dove, oltre alla straordinaria esperienza repubblicana, liberale, democratica, comune ad altre parti d’Italia, rivoluzionate con l’aiuto della repubblica francese, si ebbe anche, per la prima volta nella storia millenaria d’Europa, la fine del potere temporale della Chiesa cattolica. (Sul significato storico della Rivoluzione francese vedi lo scritto più specifico nell’Appendice)

Questo evento fu giudicato positivo non solo dal punto di vista laico, liberaldemocratico, ma, per altri motivi, anche da ambienti cattolici più sensibili. Questi ultimi vedevano in esso una provvidenziale occasione per il cattolicesimo di concentrarsi sulla sua missione spirituale e per ambire ad altro consenso, ad altra forza, ottenuti con l’adesione libera della coscienza di fronte alla sincera testimonianza dei valori evangelici, senza appoggi di ceti feudali e parassiti, masse servili e ignoranti, ricchezze, privilegi, soldati, tribunali, torture, pena di morte, ceti feudali e parassiti, in netto contrasto con la limpida povertà e spiritualità del suo fondatore.

Furono tantissimi i fedeli cattolici e tanti gli ecclesiastici che aderirono alla Repubblica Romana, e altrove. Si aprì un libero dibattito, il cristianesimo era costretto a confrontarsi con la democrazia e la libertà, era spinto ad una nuova, più autentica e moderna apologetica. Nella Repubblica Napoletana si ebbero anche vescovi che pagarono con la vita e con il  martirio la fede nella conciliabilità tra cristianesimo, repubblica, libertà, democrazia (si pensi al vescovo Michele Natale, afforcato dai cattolici sovrani borbonici e dal suo confratello sanfedista, reazionario, cardinale Ruffo, fatto storico significativo qust’ultimo anche di una guerra civile interna alla stessa chiesa cattolica, ancora oggi rimossa).

Le grandi novità su questo terreno dei rapporti tra repubblica, democrazia e religione sono state richiamate e sottolineate dal più devoto studioso dell’esperienza rivoluzionaria romana, Vittorio E. Giuntella (accanto a De Felice, Battaglini, Cretoni), che ha ritrovato all’interno di quella vicenda l’apparire delle prime posizioni cattolico-democratiche (3).

In epoca termidoriana circolavano in Francia e in Italia vari scritti, tra cui catechismi repubblicani, pastorali democratiche, tra le quali quelle di Henri Gregoire, vescovo della Loira e Cher, che dicevano tra l’altro ”Chi non ama la Repubblica è un cattivo cittadino e di conseguenza un cattivo cristiano, perché è l’Evangelo, che annunzia la fratellanza e consacra i principi della eguaglianza e della libertà”. Un opuscolo veneziano del tempo aveva come titolo “Libertà ed eguaglianza dimostrate e difese dalla ragione e dal Vangelo.” (4)

La figura storiograficamente più nota di cattolico-democratico della Repubblica romana fu Pietro Paolo Baccini, prima moderatore del Circolo Costituzionale, poi prefetto consolare presso la corte d’appello, autore sia dell’opuscolo “Della vera democrazia”, sia di vari discorsi, tra cui quello singolare recitato “in occasione dell’innalzamento dell'albero della libertà fatto erigere in Campo de' Fiori dal cittadino Liborio Angelucci”. Diceva Baccini nell’opuscolo citato “...la più conveniente e la più analoga alla religione cattolica, secondo l’esempio di Cristo, è la Democrazia.”(5).

In “La Religione amica della Democrazia. Instruzione d’un teologo filantropico al clero e al popolo romano”, Perugia, 1798, era detto “un modello più perfetto di democratica uguaglianza dove la troviamo noi, se non nel medesimo Divino Autore della Religione ?”(6).

Più decisamente, perentoriamente, efficacemente diceva in una lettera al clero della città e della diocesi il cardinale Ranuzzi, arcivescovo di Ancona “Vi ordiniamo che in avvenire, e nei vostri privati e pubblici discorsi e nei confessionali eziandio, spiegate che la Democrazia non è una macchina che distrugge la nostra Santa religione; che il Democratico governo è uno dei governi permessi da Dio in questo mondo; e che, lungi dall’essere contrario, è anzi conforme allo spirito della medesima nostra santa Religione; che in questo Governo è necessaria più che in ogni altro l’osservanza dei precetti della carità, perché la vera fratellanza che deve essere la base di un tal governo è la carità predicata da Gesù Cristo.”(7)

Ma c’è uno scritto del 1799, toccante e alto nel tono, non romano, ma fiorentino, che può chiudere eloquentemente questo passaggio del ricordo della Repubblica Romana, teso ad evidenziare effetti ed esperienze importantissime per la storia etico-politica italiana e per lo stesso destino del cristianesimo nel mondo moderno “II Vangelo amico anzi amante della Democrazia. Discorso del cittadino Francesco Cristani, priore della chiesa di S. Felicita in Firenze, pronunziato alla conversazione patriottica.”, che diceva tra l’altro “Volete voi un modello perfetto di democratica uguaglianza? Osservate il Santissimo Istitutore della nostra Religione... Egli detesta la ipocrisia dei farisei, condanna il fasto, smaschera l’impostura, mette in ridicolo la vanità... si fa l’uomo del Popolo, ed è affabile, cortese, accessibile a tutti. La classe più indigente è l’oggetto costante delle sue tenerezze. Le persone più infime e più rozze diventano i suoi commensali, i compagni de' suoi viaggi, i testimoni delle sue beneficenze. I titoli fastosi fomentatori d’orgogliosa vanità, o simboli d’insultante dispotismo mai furono usati da lui. All’opposto i dolci nomi di amico e fratello che annunziano la più cara uguaglianza... Chiama alla dignità dell’apostolato non i grandi, i potenti, non i ricchi, ma bensì pochi ignobili e plebei pescatori.. Possono idearsi sentimenti più democratici di questi ? ”(8)

Solo forme vili e stupide di autocensura e di meschino ossequio ai potenti religiosi e politici di turno possono aver portato e continuano a portare a minimizzare o ad obliare questa pagina fondamentale nella storia di Roma, d’Italia, d’Europa, che ha aperto anche per il cattolicesimo il cammino ancora da percorrere del “Vangelo della democrazia e della libertà”.

La città di Roma ha onorato quell’esperienza con una mostra nel 1973, per la sensibilità dell’amministrazione comunale dell’epoca, e anche per la sollecitazione del citato prof. Giuntella, ma nulla ha fatto per il bicentenario.(9)

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Lo Stato pontifìcio, abbastanza esteso, andava da Bologna ( la seconda città del regno pontificio con circa 70.000 abitanti nel 1790) e Ravenna a Frosinone e Terracina, dall’Adriatico al Tirreno, coprendo le attuali regioni del Lazio, dell'Umbria, delle Marche e della Romagna. Era variegato nella sua articolazione, passando dalle Legazioni di Romagna, vicine alle condizioni economiche e sociali della pianura padana, al panorama desolato delle lande stagnanti e malariche delle paludi, che circondavano Roma e giù fino al confine con il regno meridionale borbonico.

Ancora nel Settecento restava uno dei paesi più arretrati d’Europa dal punto di vista dell’amministrazione, del clima culturale integralista: infatti non aveva conosciuto alcun vero fenomeno riformatore e per mille motivi di intrecci economici e culturali tradizionali, di egemonia sociale di una duplice aristocrazia, temporale ed ecclesiastica, era il meno ‘riformabile’ per via evolutiva. Intorno al 1790 aveva una popolazione di circa 3.200.00 persone e 400.000 erano mendicanti e poveri, spesso dipendenti dalla politica caritativa di chiese, opere pie, ordini religiosi. (10)

Solo sparse voci, di recente riportate all’attenzione degli storici, si erano levate nel Settecento ad indicare alcune linee riformatrici. Così Francesco Cacherano di Bricherasio, alto prelato e funzionario della curia romana, nell’opera ‘De mezzi per introdurre ed assicurare stabilmente la coltivazione e la popolazione nell’agro Romano’ del 1785 proponeva un piano organico di risanamento e di valorizzazione delle terre paludose dello stato romano, richiamando i principi della libertà di commercio e una legge agraria che fosse limitatrice della proprietà assenteista e sfruttatrice (lo stato doveva farsi dare in affitto dai grandi proprietari una parte delle loro terre e

darle poi, sempre in affitto, a coloni coltivatori). Il milanese Paolo Vergani nella sua opera ‘Della importanza e dei pregi del nuovo sistema di finanze dello stato pontificio’, Roma, 1794, richiamava l’importanza delle manifatture come nuova, vera fonte di ricchezza nei confronti dell’agricoltura e la necessità di dedicare ad essa le necessarie cure.

Nicola Corona, nato a Sora nel 1750, fu un protagonista del movimento rivoluzionario fino a diventare durante la Repubblica membro del Tribunato, cioè della Camera legislativa, classico esempio di ‘riformatore’, che diviene ‘rivoluzionario’ e ‘uomo di governo’. Nella sua opera ‘Riflessioni economiche politiche e morali sopra il lusso, l’agricoltura, la popolazione, le manifatture e il commercio dello Stato pontificio’, Roma, 1797, proponeva la libertà del commercio, richiamava la fondamentale importanza dell’agricoltura e la necessità di una legge agraria che portasse alla creazione di un ceto di piccoli proprietari coltivatori (e si battè poi nel parlamento repubblicano per l’assegnazione dei ‘beni nazionali’ ai contadini poveri). Nella sua opera giungeva a proporre l’espropriazione forzata dei proprietari assenteisti o degli enti ecclesiastici incapaci di coltivare i loro terreni “Se il principe Borghese, tanto benemerito del pubblico che delle arti, avesse divise le sue vaste tenute e avesse impiegato in fabricar case rustiche e villaggi e stabilir colonie tutto ciò che dona al divertimento e alla magnificenza straordinaria, avrebbe a quest’ora più coloni e più vassalli che non ha sudditi il sovrano a proporzione della superficie... I possessori che negligentano i fondi per dapocaggine debbono esser cacciati come persone che controvengono al comando divino e come nemici della società e della patria, e quegli che mettono in valore una terra incolta e introducono qualche nuova coltura debbono essere ricompensati e premiati.”(11).

Vi erano stati da parte del governo solo sparsi interventi, come la concessione del porto franco ad Ancona nel 1732, a Civitavecchia nel 1743 e il famoso tentativo, al tempo di papa Pio VI (1775-1796), di bonifica delle Paludi Pontine.

Già la battaglia degli Stati cattolici contro l’eccessivo potere ecclesiastico nella seconda metà del Settecento (che aveva avuto il suo aspetto eclatante nella campagna vittoriosa per lo scioglimento della Compagnia di Gesù) aveva prodotto un effetto di minori entrate per lo stato pontificio.

La Rivoluzione francese nella sua ispirazione liberale e democratica, nei suoi provvedimenti sul terreno ecclesiastico produsse ulteriori ripercussioni, a molti livelli, specialmente sullo Stato Pontificio, che vide anzitutto diminuire gli introiti dalla Francia, con l'aggravamento di una crisi antica, per cui il debito pubblico salì a milioni di scudi.

Il papa fu poi in prima linea dal punto di vista dell’opposizione culturale sia nei confronti della monarchia liberale che della Repubblica, dando una fondamentale giustificazione agli interventi militari delle potenze assolutistiche europee contro la Francia e ai movimenti sanfedisti. Già nel marzo 1791 il papa aveva condannato pubblicamente e formalmente la Costituzione Civile del clero del 1790, definendola eretica e scismatica, offrendo ragioni alla grave opposizione cattolica interna (la Vandea). Per questo ruolo fondamentale di sostegno e di bandiera il papato assunse man mano il ruolo e l'immagine di centro della reazione europea, che doveva prima o poi essere eliminato.

I primi contrasti con Roma si ebbero sul piano delle formalità diplomatiche, quando la Francia repubblicana pretese giustamente la sostituzione delle insegne monarchiche borboniche con quelle tricolori. Una folla, aizzata da preti ed ecclesiastici fanatici, aggredì il 13 gennaio 1793 nel corso principale i due diplomatici francesi Bassville e La Flotte, assassinando il primo. Furono assaliti poi il consolato, l’accademia d’arte, alcune case di francesi e di loro amici, il ghetto, con l’accusa di sostegno ai repubblicani da parte degli ebrei. La notizia dell’eccidio ebbe una profonda eco in Italia e in Europa. In quell’occasione la Francia rivoluzionaria era impegnata in una lotta disperata per la sua sopravvivenza e dovette limitarsi alle sole proteste e minacce.

Nel paese serpeggiava un malessere sociale ed economico, che si espresse anche con qualche rivolta e congiura. Così una rivolta di popolo il 6-7 settembre 1791 scoppiò a Fano: si chiedeva un consiglio municipale fatto per un terzo di artigiani, un terzo di borghesi, un terzo di nobili e si guardava ai francesi come liberatori. Nel 1794 vi fu a Bologna, legata al giovanissimo Luigi Zamboni, una cospirazione di borghesi e intellettuali per la libertà politica sull’esempio francese. Zamboni morì in prigione, furono riprese forme crudeli di tortura, si condannò all’impiccagione il giovane De Rolandis, si comminarono ergastoli ed altre pene. (12)

Fra il novembre 1794 e gli inizi del 1795 furono scoperti e arrestati a Roma il chirurgo Liborio Angelucci che, insieme al negoziante ebreo Ascarelli, sarà di nuovo arrestato nel 1797. Angelucci diverrà poi console della Repubblica Romana, disponendosi nella memoria collettiva come uno dei principali rivoluzionari della tradizione repubblicana romana fino al richiamo di Puccini nella ‘Tosca’ del 1900. Molti artigiani e popolani, nobiluomini dei casati Massimi e Maccarani, si riunivano”per mutar forma all’attuale governo de' preti... il papa aveva da ingerirsi solo dell’ecclesiastico”.(13)

L’armata repubblicana d'Italia del 1796, guidata da Bonaparte, procedette al primo smembramento dello Stato pontifìcio, togliendo ad esso Bologna, Ferrara, Ravenna. Il papa cercò inizialmente di resistere, ma l'estensione dell’occupazione anche di Pesaro e Ancona, con la costituzione di municipalità e di comitati ‘democratici’, spinse ad accettare come male minore, anzi come salvezza, il 19 febbraio 1797 la pace di Tolentino, località dove Bonaparte era accampato. Lo stato pontificio era formalmente amputato di Bologna, Ferrara, Ravenna, che avevano partecipato alla costituzione a Reggio Emilia, il 27 dicembre 1796, della Repubblica Cispadana, dovette cedere Avignone alla Repubblica francese, accettare l’occupazione dell’importante porto di Ancona e pagare tributi.

Costituitasi con capitale Milano la più vasta Repubblica Cisalpina, che aveva inglobato i territori della Cispadana, anche Ancona ed altre città ancora pontificie come Jesi, Pesaro, Fano, Senigallia, Urbino sentirono l’attrazione di un collegamento con la nuova realtà repubblicana.

A Roma gli ambienti intransigenti più ostili alla Francia repubblicana cercarono collegamenti più stretti prima con l'Austria, poi, dopo il trattato di pace di Campoformio tra Francia e Austria, soprattutto con il fedele, vicino e cattolicissimo Regno di Napoli, suscitando i sospetti e l’irrigidimento del Direttorio. Esso allora diede all'armata repubblicana, comandata ora dal generale Berthier, l’indicazione di permettere la nascita della Repubblica Democratica Anconetana, proclamata il 19 dicembre 1797, alla quale si collegarono gran parte delle cittadine insorte delle Marche.

La nuova classe dirigente democratica locale rivelò discrete capacità amministrative, anche se l'invadenza anconetana portò ad una polarizzazione di Pesaro verso Nord..

Lo smembramento già avviato del territorio pontificio implicava come tendenziali esiti finali l’occupazione di Roma e la fine del potere temporale del papa.

L’evento che fece precipitare la situazione fu l’uccisione a Roma il 28 dicembre 1797 del generale francese Duphot ad opera delle truppe pontifìcie e sotto gli occhi dell’ambasciatore francese Giuseppe Bonaparte.

Secondo le diverse fonti, incrociate tra esse, così si svolse il drammatico fatto: un gruppo di repubblicani romani (chiamati allora ’patrioti’, mai ‘giacobini’), condotti dallo scultore Ceracchi e dal notaio Agretti, organizzarono una dimostrazione; dispersi dai gendarmi pontifici si raccolsero di nuovo nei pressi del palazzo Corsini (già sede dell’Accademia dell’Arcadia, ora dell’Accademia dei Lincei), in via della Lungara, residenza dell’ambasciata della Francia. Bonaparte non era d’accordo con quella dimostrazione e cercò coi collaboratori di dissuadere gli organizzatori e di allontanarli. Ma la truppa pontificia entrò prima negli spazi inviolabili dell’ambasciata, poi sparò addosso ai dimostranti facendo diversi feriti. Allora l’ambasciatore e gli altri francesi, tra cui il Duphot, si interposero tra truppe e dimostranti, per evitare una carneficina. E mentre si cercava di trattare e convincere i pontifici ad allontanarsi, un gruppo di militari pontifici nei pressi della Porta Settiminana fece fuoco sul Duphot, che cadde mortalmente ferito. Solo fortunosamente l’ambasciatore Giuseppe potè salvarsi e rientrare nell’ambasciata. Il cadavere del Duphot dovette essere vegliato, onde evitare lo scempio che i fanatici, fanatizzati, antisemiti (come si dirà poi) popolani trasteverini ne facessero eventuale scempio.

Il Duphot non era un militare qualsiasi, pur avendo appena 28 anni. Era nato a Lione nel 1769 e si era distinto per il suo coraggio nelle varie campagne rivoluzionarie. Era giunto a Roma a metà novembre 1797 e doveva sposare il giorno dopo, il 29 dicembre, Desiderata Clary, sorella di Eugenia, moglie dell’ambasciatore Giuseppe Bonaparte. Quindi una grossa personalità e una delicatissima situazione. Per avere il senso del rilievo dei personaggi coinvolti, si tenga presente che Desiderata Clary sposò nell’agosto 1798 il generale Bernadotte e con lui salì al trono di Svezia nel 1818 e visse fino al 1860. (14)

Giuseppe Bonaparte, appena rientrato, scrisse una lettera di protesta al cardinale Giuseppe Doria, segretario di Stato, ”pregandolo  a portarsi da lui, perché non era sicuro nel suo palazzo, e veniva offeso il diritto delle genti.”(15) Il Doria non andò, né mando in sua vece il governatore di Roma, limitandosi a spedire un distaccamento di quaranta uomini.

Si trattava di una gravissima provocazione pontificia e di un inaudito incidente diplomatico, tanto che si recarono subito a portare solidarietà all’ambasciata di Francia gli ambasciatori di Spagna e di Toscana.

Come dice efficacemente il Cretoni ”Il diniego del Doria assunse perciò, in un certo senso, il carattere di un’offesa alla Francia dinanzi a rappresentanti ufficiali di nazioni amiche.“(16)

Allora per protesta e per il dolore in famiglia, l’ambasciatore Giuseppe Bonaparte decise di  abbandonare Roma, per non compromettere la sua dignità e per non cadere nella disgrazia del Direttorio, già fortemente irritato per l’assassinio e il comportamento pontificio.

Chiese i passaporti per sé ed i familiari sempre al Doria, senza ricevere risposta, dovette sollecitarli per ore e solo a tarda notte essi giunsero.

La mattina del 29 dicembre, quel giorno che doveva essere così fausto per l’addolorata Desiderata Calry e la famiglia Bonaparte, si abbandonò Roma e ci si recò a Firenze.

Il 31 dicembre Giuseppe Napoleone inviò al ministro Tayllerand la relazione dei fatti, invocando la vendetta degna della Francia repubblicana e facendo amare riflessioni sul comportamento vile del governo pontificio romano”Questo governo non si smentisce nella sua condotta; astuto e temerario per ottenere il delitto, vile e  strisciante quando questo è stato commesso, oggi egli si inginocchia dinanzi al ministro di Spagna, perché si porti in Firenze presso di me per ricondurmi a Roma.”(17)

In Francia la notizia dell’orribile attentato commesso a Roma suscitò una profonda emozione, il Direttorio non volle ricevere il rappresentante della Santa Sede e, sulla base della relazione di Bonaparte, avviò un’azione informativa e propagandistica presso tutte le corti europee, per dimostrare l’inaudita offesa fatta alla Francia, che non poteva non avere una soddisfazione degna di lei e proporzionata al fatto.

A gennaio il Direttorio ruppe gli indugi ed inviò al generale Alexandre Berthier, che aveva sostituito Napoleone Bonaparte al comando dell’Armata d’Italia, l’ordine di marciare su Roma

Nelle istruzioni molto dettagliate, scritte dallo stesso Napoleone (coinvolto nella vicenda anche a livello personale), si prevedevano una marcia veloce, una gradualità di obiettivi da far conoscere, prima la punizione degli assassini di Duphot, poi spingere alla fuga i membri del governo e il papa responsabili del delitto e infine la proclamazione della Repubblica Romana. Era già visualizzato un eventuale intervento del Re di Napoli, giacchè il governo pontificio, oltre a cercare giustificazioni presso varie corti europee, aveva implorato la protezione del re di Napoli.

Il corpo di spedizione francese era formato da circa 12.000 uomini.

Si arrivò alle porte di Roma e il 10 febbraio il generale Cervoni si installò a Castel S. Angelo.

Il 15 febbraio 1798, come dice Candeloro “alcune centinaia di patrioti romani si riunirono nel Foro romano, dove proclamarono la Repubblica con un atto (“Atto del popolo sovrano”) che fu rogato da tre notai e nominarono sette consoli per reggere provvisoriamente il governo. Quindi, saliti sul Campidoglio, vi piantarono l’albero della libertà e vi innalzarono la bandiera della nuova Repubblica, che fu un tricolore bianco, rosso e nero.”(18)

II 18 febbraio, presenti quattordici cardinali, fu cantato in San Pietro un solenne ‘Te Deum’ per l’instaurazione della Repubblica.

Il 20 febbraio il papa Pio VI, che non aveva voluto accettare la decadenza del potere temporale, partì per la Toscana.

La Repubblica riunificò il territorio, inglobando le varie municipalità dichiaratesi indipendenti, a partire da Ancona. Fu esclusa Pesaro, che entrò a far parte della Cisalpina.

Il territorio della Repubblica romana andava pertanto da Fano e Urbino a Terracina. Secondo il modello francese fu diviso in otto province o ‘dipartimenti’: Metauro con capoluogo Ancona, Musone con capoluogo Macerata, Tronto con capoluogo Fermo, Trasimeno con capoluogo Perugia, Clitunno con capoluogo Spoleto, Cimino con capoluogo Viterbo, Tevere con capoluogo Roma, Circeo con capoluogo Anagni. I dipartimenti erano divisi in cantoni, che comprendevano un certo numero di comuni.

Tutti questi enti locali erano da gestire sulla base di libere elezioni. Fu introdotto col nuovo calendario anche la fondamentale scansione della giornata in ventiquattro ore. Furono aboliti i vincoli e le prestazioni feudali.

Il 17 marzo 1798 fu emanata la Costituzione formata di 372 articoli, ripresa da quella dell’anno terzo, con adattamenti che si giovarono del contributo del grande archeologo Ennio Quirino Visconti. Dopo le dichiarazioni dei diritti e dei doveri, era fissato il principio della separazione dei poteri con un esecutivo di cinque consoli, con il potere legislativo affidato ad un sistema bicamerale (il Tribunato e il Senato), ma con intelligenti funzioni diverse: al Tribunato era riservato il potere di iniziativa legislativa, al Senato funzioni di Corte suprema. Il potere giudiziario era formato da magistrati eletti in assemblee popolari, inamovibili e indipendenti dagli altri organi dello stato.

Nel governo provvisorio di febbraio furono nominati il matematico Gioacchino Pessuti, il mercante di campagna Domenico Maggi, il citato erudito Visconti, il medico Camillo Corona, il duca Pio Bonelli, il mercante Angelo Stampa. Tra i consoli del periodo repubblicano ci furono poi il già citato chirurgo Liborio Angelucci, gli anconetani Pietro Panazzi e Pietro Reppi, il medico frusinate Giacomo De Mattheis. Come si vede fu il ceto medio dei professionisti, dei mercanti, degli uomini di cultura a formare l'ossatura del personale politico, amministrativo e militare della Repubblica romana del 1798.

Essa militarmente era sostenuta soprattutto dall’esercito francese, che la difese nel novembre 1798, con il generoso e idealista generale democratico Championnet, dall’attacco e dall’invasione del Re di Napoli, che occupò per pochi giorni Roma (e le truppe napoletane furono saccheggiatrici in molti episodi più dei soliti calunnniati francesi, per non parlare poi dei briganti che calarono su Roma alla conclusione della vicenda repubblicana, con l’esclusione solo del più famigerato di essi, l’assassino Michele Pezza di Itri, detto Fra Diavolo). Ma l’incauto e vile Borbone (che scappò poco dopo in Sicilia) dovette subire la ritorsione e la giusta vendetta francese dell’invasione, da cui nacque nel gennaio 1799 la gloriosa Repubblica Napoletana.

Come si può notare, per inciso, senza l’esperienza della Repubblica Romana, senza la spinta dei patrioti repubblicani romani e napoletani accolti come fratelli a Roma nei mesi precedenti, non vi sarebbe stata l’esperienza indimenticabile ed eroica della Repubblica Napoletana, che si pone con quella romana e cisalpina agli inizi del Risorgimento.

Il legame tra la Repubblica Romana e la Repubblica Napoletana non è solo affidato a patrioti come Vincenzio Russo, Mario Pagano, ma anche a quella straordinaria protagonista della Repubblica Napoletana che fu Eleonora Pimentel Fonseca, direttrice del “Monitore Napoletano”, esponente di primo piano di quella esperienza straordinaria, che pagò con la vita la sua fede repubblicana, liberale e democratica. Ella si colloca tra le più grandi e nobili Figure della storia europea e dell’emancipazione femminile. Ed Eleonora era nata a Roma il 13 gennaio 1752, in Via Ripetta, 22.

Era la prima volta che nella storia millenaria di Roma si aveva una gestione laica e moderna dello stato in un'atmosfera di libertà civile e di vita parlamentare. Sorsero circoli politico - culturali, come quello ‘Costituzionale’ e degli ‘Emuli di Bruto’ (costante richiamo simbolico della tradizione repubblicana, visto come difensore dei suoi valori e delle sue virtù fino all’uccisione di Cesare che voleva farsi tiranno e abolire la Repubblica Romana). Sorse la prima stampa libera in città e in provincia, es. il ‘Monitore di Roma’ e il ‘Redattore Anconitano’, fu introdotto il divorzio.

A Roma tornarono gli esuli come Michele L’Aurora; Roma ospitò esuli di altre parti d'Italia, specialmente napoletani, come Matera, Lauberg, e soprattutto Vincenzio Russo, che, proprio a Roma, nel 1798, pubblicò il suo più importante libro ‘Pensieri politici’, uno dei classici del pensiero liberaldemocratico italiano.

Fu riconosciuta la libertà civile agli ebrei, fu abolito il ghetto, suscitando il risentimento come sempre degli ambienti fanatici, che si espresse con la rivolta del 25 febbraio 1798 a Trastevere, dove più forte era l’influenza clericale.(19)

Altre rivolte fanatiche e clericali, mescolate alla delinquenza comune e banditesca di autentici criminali sanguinari, si ebbero in varie parti della Repubblica e furono giustamente e severamente punite dalle autorità repubblicane con l’aiuto dei francesi, ma senza alcuna forma di terrore, davanti a tribunali e giudici.

La sincera politica liberista che, anche con la vendita dei beni ecclesiastici, creò un nuovo ceto di proprietari e liberò energie economiche nuove, non ebbe il tempo di far sentire i suoi effetti positivi nel lungo periodo, data la brevità temporale dell’esperimento repubblicano (pur durato venti mesi, il triplo di quello napoletano).

Nella congiuntura della transizione si ebbe un aggravamento delle condizioni delle classi umili, giacché ad es. a Roma decine di migliaia di persone vivevano intorno alla corte pontificia o di elemosine o di servizi alle grandi famiglie, e nelle campagne si era sottoposti a tributi o alle inevitabili requisizioni militari. Di qui trasse origine un certo non consenso popolare, che in quelle condizioni era inevitabile (a meno di una impossibile rivoluzione egualitaria), che si esprimeva nel grido “Volemo pane e non volemo più la Repubblica”(20)

Questo spesso è il tragico presente nella storia: i veri liberatori non sono immediatamente riconosciuti; non si comprende come occorre tempo per sciogliere i nodi intricati del passato, e i ceti subalterni si riattaccano, si riaffidano, pur per comprensibili problemi quotidiani di sopravvivenza e per situazioni di ignoranza, ai vecchi oppressori, ridando ad essi fiato e nuove forme di potere.

Ma la Repubblica romana del 1798/1799, vista nella lunga durata, costituì una frattura profonda, e, insieme agli effetti della successiva età napoleonica e della esperienza rivoluzionaria e repubblicana del 1849, creò i veri termini della questione romana, della necessità storica cioè della modernizzazione di Roma e delle province, che implicava la fine dell’anacronistico stato confessionale. Essa ebbe la sua storica soluzione, seppur di compromesso, il 20 settembre 1870, con la definitiva fine del potere temporale della Chiesa cattolica e la trasformazione di Roma in capitale di uno stato liberale e parlamentare, le cui caratteristiche per pochi mesi, tra il 1798 e il 1799, e nel 1849, aveva già sperimentato, e che ritroverà in forme più larghe e definitive con il referendum repubblicano del 2 giugno 1946.

Giacomo Leopardi tra i grandi della poesia italiana e universale, nacque a Recanati (Macerata) il 29 giugno 1798. È stato degnamente e ampiamente celebrato nel bicentenario della nascita. Per singolare destino egli non apri gli occhi quale suddito dello Stato Pontificio, dispotico, soffocante, ancora medievale, ma come cittadino della libera Repubblica Romana. E tutta l’atmosfera rivoluzionata tra la fine del Settecento e fino al 1815 non fu senza incidenze sul tono e sulla qualità della sua intensa ed eccitata formazione di fanciullo e adolescente, sulla latitudine inusitata e commossa del suo canto e della sua riflessione sull’umana condizione.

NOTE

Per l’inquadramento generale sullo stato pontificio nella seconda metà del Settecento:

V. E. Giuntella, Roma nel Settecento, Cappelli, Bologna, 1971, Vol.XV della Storia di Roma, curata dall'Istituto di Studi Romani.

M. Caravale - A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, UTET, Torino, 1971, Vol.XIV della Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso.

1)      F. Furet - D. Richet, La Rivoluzione francese (I ed.1965), Laterza, Bari, 1998, tomo 2°, p.396.

2)      Ivi

3)      V. E. Giuntella, La religione amica della democrazia. I cattolici democratici nel Triennio rivoluzionario (1736-1799), Edizioni Studium, 1990, pp.321. Giuntella, già docente di storia dell’età dell’Illuminismo all’Università di Roma, è stato il maggiore studioso della Repubblica romana, a partire dal 1951 con il libro La giacobina repubblica romana, alla pubblicazione delle Assemblee della Repubblica romana del 1954 e 1977, alla Bibliografia della Repubblica romana del 1798-99 del 1957. Giuntella era stato anche uomo di sofferta esperienza civile, avendo conosciuto i giorni del Lager con Giuseppe Lazzati, col quale aveva meditato sulle” radici evangeliche della libertà del cristiano”(dalla prefazione del citato vol. La religione amica della democrazia).

4)      V. E. Giuntella, La religione amica della democrazia, cit., p. 102

5)      Ibidem, p.22. Su Baccini Giuntella aveva scritto anche il saggio Stato democratico e cattolicesimo nelle concezioni politico-religiose di Pietro Paolo Baccini in Stato e Chiesa nell'Ottocento, miscellanea in onore di Pietro Pirri, Padova, Ed. Antenore, 1962, pp.313 - 325.

6)      Ibidem, p.21

7)      Ibidem, p.82

8)      Ibidem, p. 22

9)      Gli studi di Giuntella uniti a quelli di De Felice, Battaglini e Cretoni portarono a cogliere il valore di quella esperienza e a spingere l'amministrazione comunale del 1973, in particolare con l'assessore al ramo Raniero Benedetto, a promuovere una mostra “Roma giacobina” a Palazzo Braschi (18 dicembre 1973-31 gennaio 1974), che si dispiegava in 6 sale, coprendo il periodo 1780-1800, con l’esposizione di dipinti e documenti, provenienti dal Museo Napoleonico, dal Museo di Roma, dall'Archivio Capitolino, dal Medagliere Capitolino. La mostra  fu organizzata per l’impegno delle dott.sse Elisa Monti Tittoni, Lucia Palladini Cavazzi e il citato prof. Giuntella, che scrisse poi la prefazione del catalogo della mostra, nella quale così essenzialmente giudicava l’esperienza della Repubblica Romana “doloroso, ma salutare dischiudersi della società romana, civile e religiosa, a una nuova vita.”(p.9)

Gli studi principali, oltre quelli di Giuntella, erano stati i seguenti:

R. De Felice, Gli ebrei nella Repubblica romana del 1798-99, ‘Rasssegna Storica del Risorgimento’, Roma, 1953, III, pp. 327-356. Aveva poi scritto, Vendita dei beni nazionali nella Repubblica Romana del 1798-99, Roma, 1960. De Felice è stato molto legato a questo filone di ricerca, curando la stampa dei Giornali giacobini italiani, Milano, 1962 e dando un quadro del periodo in Il Triennio giacobino in Italia (1796-1799), Roma, 1990.

A.Cretoni, Roma giacobina. Storia della repubblica romana del 1798-99, Roma, 1971.

M.Battaglini, Le istituzioni di Roma giacobina(1798-99)-Studi e appunti, Milano, 1971.

Sul Parlamento della Repubblica romana del 1798-99 aveva scritto un saggio sulla ‘Rassegna Storica  del Risorgimento’ T.Casini nel 1916, pp. 517-572

10) G.Candeloro, Storia dell'Italia moderna-Le origini del Risorgimento (1700-1815), Feltrinelli, Milano (I ed. 1956),1975, Vol I, pp. 125-136.

11) F. Diaz, Politici e ideologi, in ‘Storia della letteratura italiana’, diretta da E.Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, Milano, 1968, Vol.VI, ‘Il Settecento’, pp. 259-262. Altri fondamentali studi: F.Venturi, Elementi e tentativi di riforma nello Stato pontificio del Settecento, in ‘Rivista Storica Italiana’, Napoli, 1963.

Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di F. Venturi, G. Giarrizzo, G. Torcellan, Milano - Napoli, 1965.

12) G.Candeloro, Storia dell’Italia moderna-Le origini del Risorgimento (1700-1815), cit., pp.187 – 188.

13) M. Caravale - A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, cit., p.564.

14) G.Candeloro, Storia dell’Italia moderna-Le origini del Risorgimento (1700-1815), cit., pp.246 – 247 e A.Cretoni, Roma giacobina. Storia della repubblica romana del 1798-99, cit., pp. 14-15.

15) A.Cretoni, Roma giacobina. Storia della repubblica romana del 1798-99, cit., p. 15.

16) Ibidem, p. 16.

17) Ibidem, p. 21.

18) G.Candeloro, Storia dell’Italia moderna-Le origini del Risorgimento (1700-1815), cit., p.247.

19) R.De Felice, Gli ebrei della Repubblica Romana del 1798-99, saggio apparso nella ’Rassegna Storica del Risorgimento’, ora nella raccolta citata ’Il triennio giacobino in Italia (1796-1799), Roma, 1990, pp.205-248.

20) M. Caravale - A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, cit., p. 575.

Appendice n. 1

Atto del Popolo sovrano

II Popolo Romano stanco fin da gran tempo del mostruoso dispotismo, da cui veniva oppresso, ha più volte tentato di scuoterne l’enorme peso. Una segreta magia d’opinioni e di politici interessi uniti ad una soverchiante forza armata, che lo cingeva, ha impedito finora il buon esito dei di lui tentativi; ed un cosiffatto dispotismo, quanto più debole, è finalmente divenuto altrettanto insultante quanto miserabile, altrettanto orgoglioso.

Temendo perciò questo popolo di cadere in una orribile Anarchia, o in una Tirannia peggiore che lo facea soccombere alla estrema desolazione, ha richiamato il suo spirito alla maggior energia, per ischivare le funeste conseguenze. Si è quindi slanciata con uno sforzo superiore a rivendicare i primitivi diritti della sua Sovranità.

Riunito pertanto innanzi a Dio, ed al Mondo tutto, con un sol animo ed una sola voce ha dichiarato in primo luogo di non aver avuto alcuna parte negli attentati, ed assassini del sunnominato Governo, commessi a grave offesa della invitta Repubblica e Nazione Francese, detestandoli e aborrendoli a perpetua infamia dei loro autori.

Sopprimendo in secondo luogo, abolendo, e cassando tutte le autorità politiche, economiche e civili del menzionato Governo, si è egli medesimo costituito in Sovrano libero e indipendente con per avere in sé riassunto ogni potere legislativo ed esecutivo da esercitarsi per mezzo de' suoi legittimi Rappresentanti sugli imperscrittibili diritti dell'uomo e sui più ben fondati principj di verità, di giustizia, di libertà e di eguaglianza.

Ha dichiarato in terzo luogo di voler salva la Religione quale di presente venera ed osserva, e di

lasciare intatta la dignità, ed autorità spirituale del Papa, riservandosi di provvedere col mezzo dei suoi rappresentanti al di lui decente sostentamento, ed alla custodia della sua Persona mediante una guardia Nazionale.

Ed intanto ha trasferito provvisoriamente ogni facoltà politica, economica e civile, che emanava a nome del Papa nei seguenti dipartimenti, e loro membri, i quali dovranno eseguire tutto ciò che uniti in corpo avranno nella pluralità dei voti deliberato in ogni materia politica, economica e civile.


Appendice n.2

Costituzione della Repubblica Romana

Dichiarazione dei Diritti e dei Doveri dell’Uomo e del Cittadino

Il Popolo Romano proclama, alla presenza di Dio, la seguente dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino

DIRITTI

Articolo I.  I diritti dell’uomo in società sono la Libertà, la Eguaglianza, la Sicurezza, la Proprietà.

II. La libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce ai diritti altrui.

III. La eguaglianza consiste nell’essere la Legge la stessa per tutti, e quando protegge, e quando punisce. La eguaglianza non ammette alcuna distinzione di nascita, alcun potere ereditario.

IV. La sicurezza risulta dal concorso di tutti per assicurare i diritti di ciascheduno.

V. La proprietà è il diritto di godere e di disporre dei suoi beni, delle sue entrate, del frutto del suo lavoro e della sua industria.

VI. La legge è la volontà generale, espressa dalla maggiorità dei Cittadini o dei loro Rappresentanti.

VII. Ciò che non è proibito dalla legge non può essere impedito. Nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina.

VIII. Nessuno può essere chiamato in giudizio, accusato, arrestato, detenuto, se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte.

IX. Quelli che procurano, spediscono, sottoscrivono, eseguiscono, o fanno eseguire atti arbitrari, sono colpevoli e devono esseri puniti.

X. Ogni rigore, non necessario per assicurarsi della persona di un accusato, deve essere severamente represso dalla legge.

XI. Nessuno può essere giudicato se non dopo essere stato ascoltato o legalmente citato.

XII. La legge non deve prescrivere che pene strettamente necessarie e proporzionate al delitto.

XIII. Ogni trattamento, che aggrava la pena determinata dalla legge, è un delitto.

XIV. Nessuna legge criminale o civile può avere alcun effetto retroattivo.

XV. Ognuno può obbligare il suo tempo e i suoi servizi, ma non può vendersi, né essere venduto: la persona non è una proprietà alienabile.

XVI. Tutte le contribuzioni sono stabilite per la utilità generale: esse devono essere ripartite tra i contribuenti in proporzione delle loro facoltà

XVII. La Sovranità risiede essenzialmente nella università dei cittadini.

XVIII. Nessun individuo, nessuna unione parziale dei cittadini può attribuirsi la sovranità.

XIX. Nessuno può senza una delegazione formale esercitare alcuna autorità, né eseguire alcuna funzione pubblica.

XX. Ogni cittadino ha un diritto eguale di concorrere, immediatamente e mediatamente, alla formazione della legge, alla nomina dei rappresentanti del popolo e dei funzionari pubblici.

XXI. Le funzioni pubbliche non possono divenire proprietà di quelli che le esercitano.

XXII. La garanzia sociale non può esistere, se la divisione dei poteri non è stabilita, e se non è assicurata la responsabilità dei funzionari pubblici.

DOVERI

Articolo I. Il mantenimento della società domanda che quelli che la compongono conoscano ed adempiano egualmente i loro doveri.

II. Tutti i doveri dell’uomo e del cittadino derivano da questi due principi scolpiti dalla natura in tutti i cuori. Non fate agli altri ciò che non vorreste che si facesse a voi. Fate agli altri il bene che vorreste ricevere voi.

III. Gli obblighi di ciascheduno verso la società consistono nel difenderla, nel servirla, nel vivere sottomesso alle leggi e rispettare quelli che ne sono gli organi.

IV. Nessuno è buon cittadino, se non è buon figlio, buon padre, buon fratello, buon amico, buon marito.

V. Nessuno è uomo da bene, se non è realmente e religiosamente osservatore delle leggi.

VI. Chi trasgredisce apertamente le leggi, si dichiara in istato di guerra colla società.

VII. Chi senza trasgredire apertamente le leggi, le elude colla astuzia o coi raggiri, offende gli interessi di tutti, si rende indegno della loro benevolenza e della loro stima.

VIII. Il mantenimento della proprietà è quello su cui riposano la coltivazione delle terre, tutte le produzioni, tutti i mezzi di travaglio e tutto l’ordine sociale.

IX. Ogni cittadino deve i suoi servizi alla patria e al mantenimento della libertà, dell’eguaglianza e della proprietà, ogni qual volta la legge lo chiama a difenderle.

ROMANA CONSTITUZIONE

Articolo I. La Repubblica Romana è una ed indivisibile.

II. L’Università dei Cittadini Romani è il Sovrano.

TITOLO PRIMO. DIVISIONE DEL TERRITORIO.

III. La Repubblica Romana è divisa in Dipartimenti. Essi sono i seguenti: il Cimino, il Circeo, il Clitunno, il Metauro, il Musone, il Tevere, il Trasimeno, il Tronto.

IV. I limiti dei dipartimenti possono essere cangiati o rettificati dai Consigli Legislativi; ma in tal caso, la superficie di un dipartimento non può eccedere 55 chilometri quadrati  (2479 miglia quadrati di Roma).

V. Ogni dipartimento è distribuito in Cantoni e in Comuni.


Appendice n. 3

Archivio di Stato di Latina - Atti notarili.

Testo dell'atto notarile sull'innalzamento dell'albero della libertà  a Sonnino

Col Nome di Dio amen

Addì otto marzo 1798

Libertà              Religione  Eguaglianza

Anno primo della Repubblica Romana una e indivisibile

Una delle prime cure presa dal Consolato rappresentante provvisoriamente il Popolo Sovrano è stata quella di far sapere fin da ieri al Popolo medesimo che si fosse adunato e riunito sott’oggi alle ore venti nella Piazza di S.Marco, qual ora e giorno giunti si è veduto in gran numero radunato in essa Piazza. Giunti all’istessa ora i Cittadini Consoli, ed altri incaricati, scortati dalla zelante Truppa Civica, in mezzo agl'incessanti ‘Evviva’, allo sparo dei mortaretti, e dei fucili di detta Truppa Civica ha maestosamente eretto stabilmente l’Albero della Libertà sopra una eminenza di muro ai pie’ dell’antica Torre, d’incontro alla Chiesa del nostro Protettore S. Marco. Esso Popolo pieno di fiducia spera che i dolci frutti di tal Augusto Albero saranno per dissipare le continue amarezze provate per l’inerzia del passato governo.

Di questo atto è stato a Noi Notari sottoscritti data la commissione speciale dalli Cittadini Consoli di stipularlo il presente giorno, affinchè sempre e in ogni tempo consti di sì felice epoca.

L’atto fatto nella Piazza di S. Marco di Sonnino, alla presenza di quasi tutto il Popolo Sovrano affollato e ridente, che con non interrotte voci di ‘Viva la Repubblica Romana, viva la Libertà ‘ se ne tornò ebbro di gioia ed allegrezza nelle rispettive loro abitazioni.

In fede sopra le quali cose

Così è Giacomo Bernardini Notaio Pubblico di Sonnino.

Nota sul saggio

Questo scritto fu predisposto per il bicentenario, anche nel timore, risultato poi fondato, di una rimozione di quella memoria a livello collettivo, portato avanti da ben precisi ambienti politici nazionali e romani non solo di ‘questo’ centro-destra, ma anche di ‘questo’centro-sinistra, per non creare problemi al Vaticano, che non ha ancora fatto i conti storici con quella esperienza (come su tante altre), col quale gli intrecci di potere erano e restano fortissimi, e si era poi alla vigilia del Giubileo del 2000.

Così tra il 1998 e il 1999 non vi è stato a Roma e a livello nazionale alcun grande momento commemorativo o di convegni di quel fondamentale evento risorgimentale, nazionale, europeo, durato più di un anno, a differenza del grande rilievo che ha avuto il bicentenario della Repubblica Napoletana del 1799, con pubblicazioni, convegni, manifestazioni pubbliche, coinvolgimento di istituzioni, fino al memorabile oratorio di Roberto De Simone ‘Eleonora’ (Pimentel Fonseca, martire di quella Repubblica) al Teatro S. Carlo di Napoli del 9 gennaio 1999.

Ma nemmeno all’interno di quelle molteplici celebrazioni napoletane è stata messa a fuoco l’esperienza romana, da cui tanto era dipesa la stessa vicenda della Repubblica Napoletana.

Sono a conoscenza solo di un convegno locale del 15-16 gennaio 1999, al quale ho assistito, che si è tenuto a Terracina (LT), organizzato dal Comune e dall’Archivio di Stato di Latina col titolo ”Campagna, Marittima e Terra di Lavoro. I giorni giacobini (1798-1799)” con relazioni degli storici locali Alonzi, Sottoriva, Ciammaruconi, Panico, Berti, De Nardis, Ployer (direttrice dell’Archivio), Giammaria, Mecocci, De Rossi, Raponi, Cecilia, Mansillo, Beranger, Tombolasi. Il distinto invito aveva una riproduzione dell’epoca con immagine femminile romana, il berretto frigio, il fascio, in alto le parole ’Libertà Religione Eguaglianza’ e sotto ’Repubblica Romana una e indivisibile’.

Il mio scritto apparve nel 1998 come undicesimo dei ’Quaderni del Movimento d’Azione Giustizia e Libertà’ di Roma, edito congiuntamente dagli editori Galzerano di Casalvelino Scalo (Salerno) e Qualecultura di Vibo Valentia. “Nel bicentenario 1798-1998 il Movimento d’Azione Giustizia e Libertà ricorda ai cittadini liberi e memori la Repubblica Romana del 1798-1799, la prima esperienza laica, liberaldemocratica, parlamentare nella storia di Roma, del Lazio, dell’Umbria, delle Marche, che abolì il potere temporale della Chiesa, senza violenza antireligiosa, nel rispetto del cattolicesimo ed emancipò gli ebrei.”

Il volumetto era arricchito di due figure dell’epoca, per le quali si scrisse la seguente illustrazione:

“La figura femminile indica la Repubblica romana, la quale, non avendo ancora una sua storia, li va ritrovare nell'età antica repubblicana: i Bruti e i Gracchi, con le loro virtù, ed  onora (foscolianamente) le urne delle loro ceneri, con due corone.

Costante è il richiamo del cappello frigio, simbolo della Libertà, presente sulla facciata del basamento delle urne, sul fascio con la scure, e al vertice dell’immagine di Bruto. Anche la  Libertà è onorata con due corone ed è protetta da due gladi, elemento richiamato anche più decisamente per Bruto, ad indicare, con il rinforzo della efficacissima espressione latina ‘Res non verba’, la necessità dell’azione e del sacrificio, anche estremo, per difendere la libertà e la repubblica e promuoverla nei fatti e non solo a parole.

Il richiamo dei Gracchi, oltre a rinforzare l’indicazione delle virtù repubblicane, segnala l’aspirazione verso quella legge agraria capace di colpire il più vistoso segno di diseguaglianza, costituito dal monopolio feudale ed ecclesiastico della terra, che fu formalmente e profondamente colpito durante la Repubblica romana con l'abolizione del feudalesimo (anche con una pubblica cerimonia di “abbruciamento del libro d'oro della Nobiltà”) e con la vendita dei beni nazionali, nelle forme e negli esiti possibili nel contesto storico di fine Settecento.

Il fascio con la scure è un ricorrente elemento iconografico della Repubblica romana, simbolo dell’autorità delle magistrature cittadine nella Roma antica, simbolo colpito a morte nell’attuale immaginario collettivo dal deformante e tragico uso novecentesco totalitario e di destra. Esso era invece un limpido riferimento simbolico repubblicano e liberaldemocratico, giacchè la libertà e la democrazia dovevano sempre definirsi sul piano delle istituzioni, delle leggi, da rafforzare e difendere. Il simbolo fu usato nell’Ottocento anche durante la Repubblica romana del 1849 e trapassò nel mondo politico post-unitario sempre collegato agli ambienti democratici, accentuando tuttavia anche gli elementi, impliciti nel suo stesso significato letterale, di unità concorde di ispirazione, di propositi, e di azione. Vi fu il ‘Fascio della Democrazia’ promosso nel 1883 da Cavallotti con le altre forze dell'Estrema Sinistra, vi furono i Fasci siciliani del 1891-1893, vi furono fasci operai, fasci repubblicani, fu presente nella tessera del P.R.I del 1914.

Un richiamo ed una riflessione ‘filologiche’ di quel simbolo possono essere uno ‘sperimentale’ esempio della deformazione e della strumentalizzazione tragiche che il fascismo ha fatto della storia d'Italia e specialmente del Risorgimento liberaldemocratico e repubblicano, producendo una ferita e un guasto profondi nell’immaginario collettivo e nel profondo della vita etico - politica del nostro popolo, non ancora risanati.”

Fonte:

G. Spadolini, L’Italia Repubblicana attraverso i simboli, Newton Compton, Roma, 1988.

Il volumetto fu presentato pubblicamente a cura del Movimento d’Azione Giustizia e Libertà in una sala del Campidoglio, presso quella piazza che aveva visto il 15 febbraio 1798 la proclamazione della Repubblica Romana. Era un modo doveroso di compiere un debito storico, di cui va dato atto alla piccola, ma gloriosa Associazione, che, nella denominazione e nello spirito storico anche risorgimentale, si ricollegava a quella triade ‘Repubblica Libertà Eguaglianza’, che erano le stelle polari di quella esperienza, come di tutte le altre esperienze repubblicane di fine Settecento, nate sull’onda della Rivoluzione Francese.

L’invito era così impostato:

Libertà                                                                                       Eguaglianza

Bicentenario della Repubblica Romana del 1798’1799 – Martedì 26 gennaio 1999 – Ore 16.30. Sala Piccola Protomoteca-Campidoglio.Roma

Mentre Napoli e il Mezzogiorno stanno onorando il bicentenario della gloriosa Repubblica Napoletana del 1799, uno strano silenzio circonda la altrettanto gloriosa Repubblica Romana del 1798-1799, che segnò il passaggio dall'ancien régime alla modernità per Roma, il Lazio, l’Umbria, le Marche.

L'iniziativa del 26 gennaio vuole spezzare questa congiura di rimozione della memoria storica e dare un contributo per riacquistare il profilo di quella fondamentale esperienza, che durò dal febbraio 1798 al novembre 1799, quindi temporalmente tre volte più di quella napoletana, di cui fu precedente storico fondamentale e promotrice per molti aspetti.

- LINEAMENTI STORICI DELLA REPUBBLICA ROMANA DEL 1798 – 1799 (Nicola Terracciano) - REPUBBLICA ROMANA E REPUBBLICA NAPOLETANA DEL 1799 (Pietro Bolognesi) - LE PRIME POSIZIONI CATTOLICO - DEMOCRATICHE NEL TRIENNIO RIVOLUZIONARIO (1796 - 1799), IN PARTICOLARE DURANTE LA REPUBBLICA ROMANA (Giuseppe Ignesti)

Ai presenti sarà distribuito il ‘Quaderno’ n. 11 del Movimento d'Azione Giustizia e Libertà, dedicato proprio alla Repubblica Romana del 1798 - 1799.

  1. Garosci - G. Parri - A. Visalberghi - A. Rosselli

La manifestazione si svolse con particolare, intensa partecipazione e resta nelle memoria di quelli che furono presenti.

L’autore fu poi invitato dalla direttrice dell’Archivio di Stato di Latina Ployer a riprendere il tema come conferenza, che si tenne a Latina nella sala dell’Archivio, il 4 aprile 2000, all’interno della II settimana della cultura ed è stata pubblicata con le altre conferenze nell’apposita pubblicazione dell’Archivio del novembre 2000.

Nel 1998 è uscito presso Mondadori uno ‘strano’ romanzo storico La Repubblica romana ha i giorni contati di Riccardo Pazzaglia, un eclettico e troppo disinvolto scrittore e giornalista, anche regista e sceneggiatore, che trapassa dalla Repubblica del 1849 a quella del 1798 in modo superficiale, scandalistico, ironico, amplificando i particolari e non afferrando, per mancanza di senso storico, le dimensioni profonde e importanti dei fatti indagati.

Non si è trattato affatto di un contributo di verità, come può capitare per opere letterarie riuscite, ma il libro è divenuto, al di là delle scherzose intenzioni dell'autore, un ulteriore allontanamento dell'immaginario collettivo del popolo romano e italiano dal vero profilo storico dell'importante esperienza storica di fine Settecento.

 

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