Eleonora de Fonseca Pimentel – La dignità negata

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La storia della marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel trasuda leggende, molte delle quali sorte in seno ad  una perversa fantasia borbonica atta a voler distruggere di lei, oltre che la gloriosa impresa storica, l’immagine della donna tanto odiata, non solo per il suo reato di lesa maestà, ma soprattutto perché aveva osato contravvenire con la sua scomoda  cultura  ai canoni imposti alla sua condizione d’inferiorità femminile: marito, chiesa e sacra famiglia.

Tanto si è detto e scritto al puro scopo di infangarne la memoria,  adombrando quanto di glorioso ed immortale Eleonora ci ha lasciato con il sacrificio della sua esistenza.

La storia delle mutande negate è stato l’atto più infame con cui si è cercato di punire l’intellettuale e la donna nella sua intimità più profonda, facendo sì che quel popolo di lazzari e despoti regnati assetati di sangue potessero godere fino alla fine della sua morte, facendo vilipendio di quanto vi è di più naturalmente intimo in una donna: il suo utero.

Carnefici e sanguinari i giustizieri borboni conoscevano molto bene gli effetti esercitati dall’impiccagione sul corpo di una donna. La fuoriuscita dell’utero avrebbe reso lo spettacolo ancor più esaltante.

Il tripudio era assicurato. Da lì la ragione per la quale le mutande non dovevano essere consentite in modo che tutti potessero godere la pienezza dello spettacolo offerto dal loro grande sovrano, Ferdinando e la sua degna consorte Maria Carolina.

Ebbene, nonostante questa vergognosa leggenda sia stata purtroppo tramandata e riportata per vera ad iniziare dallo storico Mariano d’Ayala (uno dei primi ricercatori dei martiri della libertà, il quale nella ricostruzione delle biografie dei martiri si servì oltre che di documenti scritti anche – e purtroppo -di testimonianze verbali poco attendibili perché avevano subìto tutto il peso della censura borbonica) fino al bellissimo romanzo storico di Enzo Striano – Il Resto di Niente - non esiste alcun documento ufficiale o cronaca del tempo  che fa emergere questo particolare. Esiste invece un richiamo simile in una cronaca  riportata dal d’Ayala, relativa all’esecuzione di Luisa Sanfelice, ultima martire della Repubblica Napoletana del 1799.

 

La cronaca testualmente cita:

Quest’oggi (11 settembre 1800, giovedì) è stata decollata D.na Luisa Molines, alias Sanfelice nel Mercato di Napoli:  vi è stato rumore al Mercato. Era stata altre volte in cappella, ma ne era uscita. Questa volta non l’ha scampata: la mannaia nel calare gli ha pigliato una spalla, per cui il boia l’ha finito di tagliare la testa con il coltello. Nel subire la morte  gli si è aperto l’utero con mestruazione. [Mariano D’Ayala, Vita degli italiani benemeriti della libertà, Roma 1883]

Nelle cronache relative all’esecuzione della Pimentel, di seguito riportate (per amore di verità è stata citata anche quella di Carlo De Nicola, filoborbonico),  ma soprattutto  nella nota emersa dai registri dei Bianchi della Giustizia (i monaci incappucciati che avevano il triste compito di accompagnare i condannati a morte, confortarli e prendere nota dei loro ultimi momenti) non c’è alcun riferimento alle mutande della marchesa, anzi, vi è inequivocabilmente e testualmente scritto:

I cadaveri di Domenico Piatti e Lupo furono sepolti nella Chiesa di S. Maria di Costantinopoli. Gli altri due di Antonio Piatti e Pimentel  si dovevano seppellire nella chiesa di S. Caterina al Mercato, ma essendo venuta una considerevole pioggia, si mandarono a prendere dalla forca  ove erano sospesi  dai becchini, e furono sepolti  nella stessa chiesa di Santa Maria ove furono sepolti  vestiti interamente come furono spiccati.

Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri della Congregazione dei Bianchi della Giustizia, Scrivano Calà,  p. 42

Martedì 20 agosto 1799 – Circa le ore 19 s’è cominciato ad eseguire la giustizia dei rei di Stato. La esecuzione si è fatta nella piazza del Mercato, ove si dice che il concorso del popolo è stato immenso, nonostante che  bruciasse al sole scoperto. La gran piazza era tutta circondata da truppa di linea e di massa, due interi reggimenti  di cavalleria, artiglieria puntata: castello chiuso e ponti alzati e nell’interno del Castello truppa di riserva. Prima si è eseguita la decollazione di  Colonna e Serra; il primo di essi era più rassegnato  ed ha porta volontariamente la testa sul tronco; il secondo era un poco più risoluto. E’ seguita indi la giustizia degli affocati, ed è incominciata dal sacerdote Pacifico, il quale si è levato dalla forca, perché Napoletano: Indi gli altri, che sono stati Monsignor Natale, Vincenzo Lupo, due fratelli Piatti, e la celebre Eleonora Pimentel, che si ricusava di salire. Ella era vestita a bruno, colla gonna stretta alle gambe. Il popolo ad ogni esecuzione dava dei gridi di viva il Re. All’uscire della Pimentel voleva gridare, ma al cenno dei Bianchi si è quietato,  al cadere però di lei le grida sono andate alle stelle, avendomi assicurato un padre dei Santi Apostoli, che si sono intese fino al loro monastero.

Carlo  de Nicola, Diario Napoletano,1798/1800, Milano 1963

Addì 20 agosto martedì 1799. Giorno memorabile. Vi è stata gran Giustizia nel Mercato di Napoli. Due sono stati decollati, ed altri affocati. Gli affocati sono stati il Vescovo di Vico D. Michele Natale, Don Nicola Pacifico, D. Vincenzo Lupo, Donna Eleonora Fonseca Pimentel, compilatrice del Monitore Napoletano, Pietro Piatti, Tesoriere della Nazione della Repubblica e suo figlio Antonio Piatti. I decollati sono stati Giuliano Colonna de’ Principi di Stigliano e Gennaro Serra dei Cassano Serra. La Eleonora Fonseca Pimentel, buona  donna e compilatrice del Monitore Napoletano andiede alla morte con intrepidezza, ed essendo nell’atto di morire, salutò alla meglio gli affocati già morti suoi compagni.

Diomede Marinelli - Memorie,  Napoli 1799, I giornali giacobini, Roma 1988

Audet viris concorrere virgo. Ma essa si spinse nella Rivoluzione come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora questa donna aveva meritata l’approvazione del Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l’adornavano. Nell’epoca della Repubblica scrisse il Monitore napoletano da cui spira il più puro e più ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un’indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo volle bevere il caffè e le sue parole furono: Forsan haec olim meminisse juvabit.

Vincenzo Cuoco -  Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli del 1799, Napoli 1995

Forsan haec olim meminisse juvabit – E forse un giorno gioverà ricordare tutto questo.

Ma ad oltre due secoli dalla sua morte  la verità fa ancora tanta fatica a riemergere da tante artificiose e spregevoli leggende.

 

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