Quando l’autore di un documento resta sconosciuto, il suo messaggio si fa rimbombante alla rara sensibilità di chi se lo ritrova tra le mani e, per una ragione arcana, non riesce ad accantonarlo tra i faldoni stracolmi di carte ingiallite da dove, occasionalmente, è saltato fuori. E’ una voce fuori dal coro, che disperata urla tutta la sua speranza di emergere dall’oblio.
E’ stata questa la sensazione che ho ricevuto quando, durante le mie amate e reiterate ricerche per polverosi archivi, tra le carte dello storico ottocentesco Mariano D’Ayala, ho ritrovato due componimenti inediti scritti da prigionieri del 1799, di cui non si conosce l’identità.
Il D’Ayala, tra i suoi appunti mai pubblicati, non ci fornisce alcuna notizia circa il luogo del ritrovamento, giusto un vago e depennato rigo all'apice della trascrizione, in cui parrebbe averli entrambi attribuiti a Ferdinando Pignatelli, ma con scarsa probabilità.
I componimenti, qui per la prima volta pubblicati, non compaiono nella biografia su Pignatelli edita dallo storico in "Vite degli Italiani benemeriti della libertà", segno del grosso dubbio circa l'identità dell'autore.
Conservando sempre una sincera ammirazione per Mariano D’Ayala, a cui senza dubbio riconosco il merito di essere stato un infaticabile ricercatore di “anime gloriose”, da una lettura un po’ più accurata del documento giungo a conclusioni diverse.
A mio avviso le opere sono palesemente attribuibili a due personalità diverse, accomunate dalla prigionia e probabilmente dallo stesso momento storico.
Nelle strofe del primo componimento, torna la costruzione poetica della canzone, il tema del vino fedele amante, l’amore per la libertà, elementi questi ricorrenti in componimenti coevi. (V. Ode alla Morte nella biografia di Giorgio Pigliacelli).
I versi evocano l’immagine di un consumato poeta che si strugge al ricordo di un amore vissuto, pur se fugace, e piange disperato per la sua sorte, che prima lo aveva reso vittorioso, e poi condannato disperato, senza amore e senza libertà.
Nell’altro componimento, invece, che ha tutto lo stile di un messaggio a futura memoria, si evince un uomo adirato e mosso da profondo rancore, ma non per la sorte avversa, non per la sua condanna a morte, accettata ed in qualche modo anche vinta, bensì per un amore non corrisposto che gli fa tanto più male.
Ed è proprio questo l’elemento che rende, a mio avviso, il Pignatelli improbabile autore, specie di quest’ultimo messaggio, dal momento che il matrimonio con Franceschina Renner, pur se avvenne per procura, quando lui era già prigioniero e condannato a morte e lei incinta di pochi mesi, suggellò un legame a cui lei fu fedele per tutta la vita.
C’è una dolce malinconia in ogni strofa del primo componimento, che canta la nostalgia di una felicità sognata e consumata in un lasso di tempo breve quanto una folata di vento.
La collera che, invece, permea le parole del secondo, è dirompente, definendo due personalità e due vissuti decisamente diversi.
Tutt’altro che malinconico nel rimembrare la tenerezza del suo “amato tesoro”, l’autore del messaggio è pervaso di una rabbia furente per un sentimento mai corrisposto, un’ira che supera il dramma stesso della condanna a morte.
In poche righe non estemporanee, ma ben meditate e mirate, compare l’urna già attesa, su cui a nulla varranno le lacrime future ed rimpianti di colei che per il passato gli ha inflitto una pena dell’anima, molto più dolorosa del martirio fisico.
In altre parole ci troviamo di fronte ad un amore trasformato in un odio così intenso che vince la morte, oltrepassandola con una lucidità ed un’accettazione raggelante.
La preziosa terra, la madre natura, tra le cui braccia il condannato già si vede avvolto, rende sacro il suo dolore e grida rispetto da ogni forma di ipocrisia.
“Che valgono agli estinti , due lacrime e due fior?” Dovevi esser pietosa / Quando t’amavo tanto /E risparmiarti il pianto / Or che inutile.
Probabilmente gli autori di entrambi i componimenti resteranno ignoti, ma almeno pubblicandoli, ho ridonato voce e vita agli ultimi pensieri di uomini che per la libertà hanno speso la vita. Sono le loro ultime memorie vergate nell'angosciante buio di una cella. Solitarie, tormentate immagini dall’anticamera della morte.
(Primo componimento)
I
E che soffrir mi resta
Or che il mio ben per te
Tutto mi tolse O Dei
La nostra crudeltà
Che barbara sventura
Che inaspettato evento
E’ stato un sogno un vento
La mia felicità
II
Dopo d’immensi affanni
Vinsi il rigor di Nice
E prigionier felice
Restai di sua beltà
Veggo la sorte irata
Cangiata in un momento
E’ stato un sogno un vento
La mia felicità
III
Chiuso in prigione oscura
Senza pronar ristoro
Privo del mio tesoro
Perdei la libertà
Piango, sospiro e fremo
Fra cento smanie e cento
E’ stato un sogno un vento
La mia felicità
IV
Vino fedele amante
Lungi da chi ti adora
E mi si vieta ancora
Il domandar pietà
Nel mio cordoglio atroce
Presso a morir mi sento;
E’ stato un sogno un vento
La mia felicità
V
Che tenerezza estreme
Provai fra quei pochi istanti
E quanti pegni, e quanti
N’ebbi di fedeltà
Tutte ha sugl’occhi, e tutto
Per mio martir rammento
E’ stato un sogno un vento
La mia felicità
VI
Spesso nel cor la speme
Risorge nel dolore
Ma a sollevarmi il core
Giammai rigor si ha
E a contristar mi viene
Per mio maggior tormento
E’ stato un sogno un vento
La mia felicità
(Secondo componimento)
I
Non t’accostar all’urna
Che il cener mio rinserra
Questa preziosa terra
E’ sacra al mio dolor
Non curo i pianti tuoi
Ricuso i tuoi giacinti
Che valgono agli estinti
Due lacrime e due fior?
II
Dovevi esser pietosa
Quando t’amavo tanto
E risparmiarti il pianto
Or che inutile è
Dunque di pianger cessa
Non sparger più giacinti
Lasciami tra gli Estinti
Stai lontano da me.