Oh che bella cosa è la libertà!

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Molte persone di fiero aspetto, superbe ed intolleranti, tormentando le mie orecchie col continuo romore di grosse chiavi, mi accolsero sulla soglia delle ben ferrata e pesante porta.

Tutto era buio, tutto era notte, e tutti nelle tenebre saremmo rimasti, senza l’aiuto di tre miserabili candelette, che pochissimo lume, e grandissimo fetore spargevano. Accanto alla porta dal sinistro lato era un’angustissima scaletta, che appena permetteva il passaggio ad un uomo solo; mancava il lume e coll’aiuto delle descritte lampade si vedeano le mura di nera antichissima crosta ricoperte, e vestite.

La mancanza del fluido vitale, la ventilazione, che non può aver luogo dove non esistono porte, e non si scorgono finestre, rendevano l’aria putrida, e pesante a segno, che la mia respirazione diventò corta, anelosa e difficile. Terminava l’infame scaletta in un angustissimo passaggio, donde scappava un lume, che spesso interrotto, e da varj ostacoli impedito, ad altro non serviva, che  a mettermi sotto gli occhi la miseria, e l’orrore.

Una truppa d’infelici, che non ad individui viventi della razza umana, ma a scheletri, ad ombre, ed a fantomi perfettamente rassomigliavano, venne in folla verso di me, forse per ammirare come un raro fenomeno, o come una divinità discesa fra essi, un uomo libero, in mezzo alla servitù ed alle catene. Il vermiglio del viso aveva in costoro ceduto il luogo, allo squallore, ed alla lipidea opacità.

La sola pelle arida, e squamosa, ricopriva appena le visibili ossa. Solo rimanevano intatti gli occhi languidi, che non placidi moti inspiravano sentimenti di tenerezza, e di compassione. Pendevano intorno al corpo e non sempre nascondevano le carni di costoro, miseri cenci, avanzo di quelle vesti, che il tempo, i disagi ed il sudiciume avevano divorate.

Circondato da folto stuolo di questa desolante gente entrai in una Camera, dove tutti gli oggetti in perfettissime e dense tenebre erano avvolti, perché una moribonda, e male accesa lampada, situata in un angolo, ad altro non serviva, che ad accrescere il buio, e lo spavento.

Mentre mi trovavo immerso nello stupore, una voce sepolcrale mi chiamò dal fondo di quella infame caverna. Era infatti l’uomo, che aveva ivi chiamati i miei passi, e che per un anno intero, senza delitto alcuno, in quella nera prigione dimorando, finalmente era stato sorpreso da gravissima malattia, e sembrava vicino al suo termine.

Ajutato da’ lumi mi avvicinai, e senza poter distinguere il letto dalla muraglia, ed il colore della muraglia da quello delle carni, interrogai quel moribondo, esaminai le infelici circostanze, nelle quali si trovava, e mesto, oppresso, pensando solo alle vere impressioni, che quel luogo sul mio cuore sempre più produceva; consolando al meglio che potei, e promettendo all’Infermo tutto quell’ajuto, che nelle mie efficaci preghiere avrebbero potuto apportargli, mi incamminai per uscire da quell’orrenda buca.

Ma quale fu il mio stupore, allora quando nello attraversare il primo passaggio, dove il lume era più chiaro, sull’opposta muraglia d’un piccilo cortile mi riuscì di leggere in lettere ben grandi scritto: Oh che bella cosa è la libertà!


[Discorsi accademici del Dott. Domenico Cirillo – l’anno 1799, p.98 – Nota tratta da Il Monitore Napoletano del 1799, a cura di Mario Battaglini, Guida editore, Napoli 1999, pp. 93 -94]

 

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