La memoria della Shoah fra passato e presente
Il 27 gennaio, nel sessantasettesimo anniversario dall’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, il mondo intero celebra il Giorno della Memoria, con lo sguardo rivolto alla tragedia della Shoah, quale abisso nella storia umana. In Italia, questa ricorrenza è stata istituita dodici anni fa, con la legge 211 del 20 luglio 2000, “al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. Quest’anno le numerose iniziative previste coincidono con il venticinquesimo anniversario dalla scomparsa di Primo Levi, lo scrittore torinese che nel nostro paese ha contribuito più di altri a descrivere e decifrare la barbarie dei campi di sterminio. “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, ha scritto Levi prima della sua morte nell’aprile 1987. Ma, poi c’è stata Srebrenica. E dopo Srebrenica è legittimo domandarsi: conoscere, oltre ad essere necessario, è anche sufficiente?
Oggi, a distanza di sessantasette anni dalla liberazione di Auschwitz, la memoria della Shoah occupa un posto centrale nella coscienza contemporanea, non solo in Europa. E non potrebbe essere altrimenti. Eppure, la possibile trasformazione dell’evento storico in macchina mitologica, la sua banalizzazione, la sua sacralizzazione, rischiano di diventare uno strumento retorico nelle mani di chi manifesta apertamente un certo fastidio a confrontarsi con un evento così traumatico, di chi non esita a manipolare in parte o del tutto la narrazione dello sterminio o a negarne addirittura la sua stessa esistenza. Proprio all’interazione fra i tre abusi che oggi si contendono la gestione della memoria (la negazione, la banalizzazione, la sacralizzazione) è dedicato il libro di Valentina Pisanty, docente di semiologia all'Università di Bergamo, dal titolo Abusi di memoria uscito in questi giorni per Bruno Mondadori. Negare o minimizzare Auschwitz, quasi fosse possibile dimostrare che sei milioni di ebrei sono scomparsi dall’Europa per un destino misterioso, costituisce il nucleo centrale delle tesi negazioniste sulla Shoah, con imprevedibili ricadute sul piano etico e politico. Donatella Di Cesare, docente di filosofia all’Università La Sapienza e intellettuale di spicco dell’ebraismo romano, nel volume Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo, in libreria per i tipi del Melangolo, propone una ricostruzione dettagliata delle implicazioni di queste tesi, offrendo una mappa filosofica di questa ideologia, la cui radice risale senza dubbio alle tesi nazionalsocialiste, ma che negli ultimi due decenni ha subìto una drammatica evoluzione, finendo per contagiare anche alcune fasce dell’estrema sinistra. Di fronte a questa vera e propria strategia dell’oblio è quindi indispensabile districare l’intreccio degli usi e delle distorsioni a cui la memoria è sottoposta, con l’intento più o meno dichiarato di trasformare la Shoah in una presunta mistificazione. Certo, la memoria non può dare certezza della rappresentazione dell’avvenimento. E’ solo il risultato di quello sforzo intellettuale più o meno intenso che i Greci chiamavano anamnesis e si compie talvolta attraverso un faticoso percorso di ricerca. Ma la memoria, in particolar modo la memoria della sofferenza, è il prodotto di una scelta. La scelta di far coincidere la “ricezione” della storia con la sua “scrittura”. Solo così, in una prospettiva non banale né sacrale, le celebrazioni del 27 gennaio possono costituire un’occasione di riflessione sul senso e sulla funzione di quello che potrebbe essere definito il “travaglio della memoria”. [Fotografia di Tino Veneziano] |
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