Come il popolo palestinese è diventato categoria astratta
A Gaza, secondo i più recenti rapporti OCHA-ONU (pubblicati tra aprile e luglio 2025), solo 18 ospedali su 36 risultano parzialmente funzionanti. Il 92% della popolazione vive in insicurezza alimentare acuta. Il 70% degli edifici residenziali è danneggiato o distrutto. Il bilancio ha superato le 67.000 vittime. Questi dati sono noti. Quello che resta sullo sfondo è la contraddizione centrale. I governi che riconoscono formalmente lo Stato palestinese continuano a fornire armi a Israele. La Russia viene sanzionata in settimane per l'invasione dell'Ucraina, Israele mai in settant'anni di occupazione. Dopo decenni di "processi di pace", la situazione peggiora invece di migliorare. Non è incompetenza diplomatica. Non è complessità del conflitto. È un sistema che sembra funzionare secondo una logica strutturale che produce, con coerenza impressionante, gli stessi effetti per cui è stato concepito, e che richiede controllo narrativo continuo per impedire che l'opinione pubblica identifichi le responsabilità dirette e le leve concrete disponibili per produrre cambiamento.
Il palestinese come astrazione: la desensibilizzazione alla morte
Sessantasettemila morti. Il numero è noto ma non produce reazione proporzionata. Non per insensibilità naturale del pubblico, ma perché settant'anni di narrazione orchestrata dai principali media occidentali hanno trasformato il palestinese da persona in categoria astratta. La morte del palestinese è diventata normale, prevedibile, conseguenza quasi naturale della sua esistenza. Come i gladiatori nell'arena romana o gli ebrei nei ghetti nazisti prima che l'orrore divenisse evidente, la loro morte ha smesso di essere scandalo per diventare statistica. Il meccanismo della desensibilizzazione è evidente nella copertura quotidiana. I palestinesi morti sono "vittime civili", "danni collaterali", "fonti di Hamas non verificabili". Non hanno nome, non hanno volto, non hanno storia individuale. Sono categoria, non persone. La narrazione li presenta come massa indistinta invece che come individui con biografie, aspirazioni, famiglie. Questa costruzione narrativa è il risultato di un allineamento sistemico tra network internazionali e media nazionali che, spesso per interessi economici ed editoriali convergenti, riproducono la prospettiva atlantista dominante. Questa astrazione serve una funzione specifica. Se il pubblico vedesse i palestinesi come individui reali, 67.000 morti produrrebbero pressione irresistibile per sanzioni immediate. Invece vengono presentati come "conseguenza tragica ma inevitabile del conflitto". La parola "conflitto" stessa è strumento di desensibilizzazione che implica reciprocità, simmetria, responsabilità condivisa, nascondendo che un popolo vive sotto occupazione militare da settant'anni. La desensibilizzazione permette al meccanismo di continuare indisturbato trasformando la percezione da emergenza che richiede azione immediata a situazione cronica con cui convivere.
Le radici del sistema
Il piano di partizione della Palestina del 1947 assegnava il 57% della terra allo Stato sionista nonostante la popolazione araba palestinese raddoppiasse quella ebraica. Gli stati arabi rifiutarono il piano e nel 1948 attaccarono il neonato stato di Israele. Alla fine della guerra, Israele continuò violando l'accordo di partizione, conquistando territori e iniziando la Nakba con l'espulsione di oltre 700.000 palestinesi. Per comprendere perché questo sistema si è mantenuto per settant'anni, è necessario contestualizzarlo nella logica imperiale che lo ha generato. La Dichiarazione Balfour del 1917, con cui il Regno Unito appoggiava la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina, non fu gesto filantropico ma strumento strategico esplicito. Londra, attraverso il mandato della Società delle Nazioni su Palestina, Transgiordania e Iraq, mirava a garantire controllo delle rotte imperiali verso l'India e accesso alle risorse energetiche emergenti. Un insediamento filoccidentale stabile e organizzato in una regione strategica ma frammentata serviva perfettamente questi interessi. La differenza cruciale rispetto alle tradizionali basi militari occidentali in Europa o Asia è che Israele non preesisteva alla funzione strategica ma venne costruito per essa, con popolazione trasferita a questo scopo in un territorio dove era minoritaria. Dopo la Seconda guerra mondiale, con il declino britannico, gli Stati Uniti ereditarono questa visione strategica senza soluzione di continuità. Durante la Guerra Fredda, Israele divenne baluardo occidentale contro l'influenza sovietica nei paesi arabi, ricevendo ingenti aiuti militari ed economici a partire dagli anni Sessanta. La risoluzione 181 dell'Assemblea Generale ONU del 1947 fornì legittimità formale internazionale, ma l'equilibrio effettivo venne determinato dalla guerra del 1948 e dal sostegno diplomatico-militare occidentale. Questa continuità di tutela di interessi strategici spiega il controllo narrativo documentato nei decenni successivi. L'alleanza strategica tra Israele e Occidente è reciprocamente vantaggiosa per le élite di entrambe le parti. L'Occidente ottiene presenza militare stabile in area cruciale per energie e commerci mentre le élite israeliane ottengono aiuti militari massicci, copertura diplomatica e legittimazione per controllo territoriale. Israele venne costruito per questa funzione strategica, e le élite israeliane hanno continuato a scegliere di mantenerla perché garantisce vantaggi che renderebbero qualsiasi alternativa contraria ai loro interessi consolidati. Il modello non è unico né complottista ma è l’espressione della logica neoconservatrice standard, come dimostra l'Ucraina post-2014 dove uno stato sovrano preesistente viene progressivamente trasformato in avamposto anti-Russia attraverso integrazione militare crescente e dipendenza strutturale da aiuti occidentali. Se l'opinione pubblica occidentale comprendesse che Israele serve prioritariamente interessi strategici dell’occidente in una delle regioni più sensibili del pianeta, identificherebbe le responsabilità dirette dei suoi stessi governanti. Il controllo narrativo serve precisamente a impedire questa comprensione.
Violenza reciproca e asimmetria costante
Tra il 1948 e il 1993 si dispiegò una sequenza di guerre, massacri e feroci atti di terrorismo narrati in modo tale da impedire soluzioni politiche reali. La Guerra dei Sei Giorni del 1967 permise a Israele di occupare Cisgiordania, Gaza, Sinai e Alture del Golan. L'occupazione venne presentata come temporanea e necessaria per la sicurezza, ma divenne permanente e funzionale all'espansione degli insediamenti. Gli anni Settanta e Ottanta videro l'escalation del terrorismo palestinese e della repressione israeliana in un ciclo reciproco funzionale al sistema. Nel 1972, otto membri del gruppo Settembre Nero presero in ostaggio undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco. Tutti gli ostaggi vennero uccisi. La copertura mediatica mondiale si concentrò sulla barbarie terrorista, mai sul contesto dell'occupazione. Israele rispose con operazioni clandestine di assassinio mirato. Nel 1982, l'invasione israeliana del Libano culminò nel massacro di Sabra e Shatila dove milizie cristiane falangiste alleate con Israele massacrarono tra 2.000 e 3.500 civili palestinesi e libanesi mentre le forze israeliane controllavano l'area. Una commissione d'inchiesta identificò Ariel Sharon come responsabile indiretto. Sharon venne rimosso dal ministero della difesa ma rimase nel governo, diventando poi primo ministro. Questa spirale servì entrambe le élite, ossia l'OLP che consolidava il controllo del popolo palestinese attraverso la lotta armata, mentre i governi israeliani giustificavano politiche sempre più dure nei territori occupati. Nel dicembre 1987 esplose la prima intifada dopo che un camion israeliano uccise quattro lavoratori palestinesi a Gaza. Il ministro della difesa Yitzhak Rabin ordinò di "spezzare le ossa" ai manifestanti. Nei sei anni successivi, oltre 1.000 palestinesi vennero uccisi contro più di 100 israeliani. Nel solo primo anno a Gaza morirono 142 palestinesi e zero israeliani. L'asimmetria era radicale ma la copertura internazionale la occultò presentando l'intifada come violenza reciproca. Oslo sembrò inizialmente promettente ma il collasso arrivò con la seconda intifada del 2000-2005. Gli attentati suicidi palestinesi uccisero oltre 1.000 israeliani mentre le operazioni militari uccisero circa 4.000 palestinesi. Il rapporto vittime scese da 10:1 a 4:1 ma il totale fu un’ecatombe. Israele costruì il muro di separazione e Sharon divenne primo ministro. Il pattern era chiaro: quando la violenza reciproca aumentava, l'asimmetria diminuiva ma le vittime totali aumentavano vertiginosamente e il sistema di controllo si rafforzava.
Oslo, la causa palestinese come business
Le forze israeliane mantenevano il controllo della maggior parte della Cisgiordania. L'apartheid idrica venne codificata negli accordi di Oslo II del 1995 con l'assegnazione a Israele dell'80% delle risorse accessibili (!). L'Autorità Nazionale Palestinese crebbe da 27.000 a oltre 140.000 funzionari. Le forze di sicurezza passarono dagli 9.000 previsti nel Cairo Agreement del 1994 a quasi 50.000 nel 1999, con un agente ogni sedici palestinesi in Cisgiordania (in Italia tra tutti i corpi di sicurezza gli addetti sono 1 per 242 abitanti in media). La corruzione permeò tutti i livelli mentre una parte significativa delle famiglie divenne dipendente da posti di lavoro dispensati dal regime. Al momento della seconda intifada del 2001, il reddito medio era caduto drasticamente e la povertà era triplicata. Gli agenti dell'Autorità Palestinese disperdevano violentemente le proteste locali contro la deviazione dell'acqua operata dai coloni, pagati con fondi internazionali destinati allo sviluppo. I principali canali informativi evitarono di investigare questa realtà, continuando a presentare l'Autorità come partner per la pace. La narrazione serviva tutti. Israele otteneva collaborazione nella repressione, l'élite palestinese accesso a risorse, i paesi occidentali la facciata per giustificare il sostegno a Israele. Gli accordi stipulavano che nessuna parte avrebbe dovuto modificare lo status della Cisgiordania e Gaza. L'espansione degli insediamenti israeliani continuò comunque. La popolazione ebraica in Cisgiordania e Gaza crebbe da 115.700 a 203.000 unità tra il 1993 e il 2000, un aumento del 76% mentre si negoziava lo Stato palestinese. Proposte successive come il vertice di Camp David del 2000 e l'offerta del Premier Olmert nel 2008 vennero presentate dalla narrazione occidentale come opportunità storiche perse dai palestinesi per loro intransigenza. Analisi documentate mostrano che nessuna proposta garantiva sovranità reale, smantellamento delle colonie o controllo effettivo su Gerusalemme Est. Le proposte lasciavano Israele con controllo militare, blocchi territoriali che impedivano continuità geografica e mantenimento degli insediamenti maggiori. Non erano offerte di autodeterminazione ma varianti dell'occupazione amministrata. Il loro rifiuto venne utilizzato per consolidare la narrazione che i palestinesi non volessero davvero la pace.
L'assassinio di Rabin
Il 4 novembre 1995, al termine di un raduno a Tel Aviv in sostegno degli Accordi di Oslo, il Primo Ministro Yitzhak Rabin venne assassinato da Yigal Amir, studente di legge israeliano e ultranazionalista che si opponeva alla cessione di territori. Prima del raduno, Rabin era stato denigrato da conservatori di destra e leader del Likud. Il capo della sicurezza interna aveva allertato Netanyahu dell'esistenza di un complotto chiedendogli di moderare la retorica delle proteste. Netanyahu rifiutò. L'assassinio non fu atto isolato ma risultato di un clima di incitamento contro un leader che, per quanto limitati fossero gli Accordi di Oslo, rappresentava una minaccia allo status quo consolidato. Eliminato Rabin, il processo perse l'unico leader israeliano con credibilità sufficiente per implementarlo. Il sistema corruttivo poteva continuare indisturbato.
Gaza tra Fatah e Hamas
Nel 2005 Israele trasformò Gaza in prigione a cielo aperto con ritiro unilaterale e blocco totale. Dal 2007 controlla cosa entra attraverso una dual use list. Quando nel 2006 Hamas vinse le elezioni con 76 seggi su 132, i grandi media presentarono il risultato come vittoria dei terroristi anziché rigetto della corruzione di Fatah. Il governo Hamas subì sanzioni immediate. Abbas tentò un colpo di stato con sostegno occidentale. Hamas espulse Fatah da Gaza nel 2007. La copertura inquadrò la divisione come conflitto tra moderati ed estremisti, nascondendo come entrambe le fazioni utilizzassero la causa per accedere a potere. La divisione serve lo status quo. Gaza come prigione che giustifica politiche di sicurezza permanenti e Cisgiordania con autorità collaborazionista. Gli Accordi di Abramo del 2020 rivelarono definitivamente la realtà operativa. Quando conveniva economicamente, i paesi arabi normalizzarono i rapporti con Israele ignorando la questione palestinese. Il paradosso dell'Arabia Saudita esemplifica il sistema. Il regno custodisce i luoghi santi dell'Islam, finanzia moschee globalmente che predicano solidarietà palestinese, ma normalizza relazioni con Israele per interessi anti-Iran. I palestinesi vengono utilizzati come causa retorica mentre vengono abbandonati nelle scelte strategiche concrete. Parallelamente, migliaia di ONG internazionali lavorano sulla "pace israelo-palestinese" generando industria multimiliardaria. Più il conflitto dura, più crescono i fondi per progetti di risoluzione, dialogo, sviluppo. Anche il settore non-profit ha interesse materiale alla perpetuazione dello status quo mascherato da sforzo per risolverlo.
7 ottobre 2023: la modulazione dell'informazione
L'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 uccise circa 1.200 israeliani, principalmente civili inclusi bambini e anziani, con modalità di estrema brutalità documentate. Oltre 240 persone vennero prese in ostaggio. Nei giorni successivi, qualsiasi critica alle azioni militari israeliane veniva etichettata come antisemitismo. I grandi network costruirono una narrazione monolitica. Israele vittima, diritto assoluto all'autodifesa, Hamas unico responsabile. Mentre le operazioni si consolidavano a Gaza, l'opinione pubblica occidentale venne mantenuta in shock emotivo che impediva analisi critica. Le vittime civili palestinesi venivano minimizzate come danni collaterali. I numeri del Ministero della Salute di Gaza venivano messi in dubbio mentre le dichiarazioni israeliane venivano accettate senza verifica. Nei mesi successivi l'informazione manteneva enfasi ossessiva su sicurezza israeliana e ostaggi mentre decine di migliaia di vittime palestinesi restavano sullo sfondo. Il linguaggio era neutro con termini come operazioni militari, obiettivi strategici, zone di combattimento. Il dibattito veniva incanalato su aiuti umanitari, condotta di Hamas, ostaggi. Mai sulla legittimità complessiva dell'operazione. Le cifre crescevano sempre accompagnate da riserve come "secondo fonti di Hamas" o "cifre non verificabili". Dopo il superamento delle decine di migliaia di vittime, con posizioni militari già consolidate, la narrazione cambiò. Il termine genocidio entrò nel dibattito ma sempre controllato come ipotesi da dibattere, accusa da verificare giuridicamente. La Corte Internazionale di Giustizia si pronunciò sul rischio plausibile di genocidio ma la copertura si concentrò sulle dispute tecniche anziché sull'urgenza di fermare le operazioni. Questa calibrazione fornì valvola di sfogo al dissenso senza produrre conseguenze politiche. I network ospitarono esperti che dibattevano definizioni giuridiche consumando tempo senza produrre azioni. Nessun grande organo d'informazione pose la domanda centrale sul perché applicare sanzioni draconiane alla Russia e nessuna sanzione equivalente a Israele.
La commedia dei riconoscimenti internazionali
Le vittime hanno superato decine di migliaia ma la narrazione si sposta sui riconoscimenti con titoli enfatici su svolta diplomatica e pressione crescente. Mentre le operazioni militari continuano, i giornali parlano di diplomazia storica. Nessuna sanzione economica, nessun embargo militare.
L'attacco al dissenso legale Quando il dissenso esce dai binari rituali, il sistema reagisce immediatamente. Ad ottobre 2025 cento trentatré cittadini italiani, tra cui accademici, avvocati, attivisti per i diritti umani, presentano denuncia formale alla Corte Penale Internazionale contro la Premier Meloni e alcuni ministri per complicità in genocidio. Utilizzano strumenti del diritto internazionale, non violenza, non manifestazioni di piazza con tafferugli e sassaiole, ma procedura legale legittima e riconosciuta. La reazione è immediata: strumentalizzazione politica, antisemitismo mascherato, oltraggio alle istituzioni, le più alte cariche che si strappano le vesti. Alcuni firmatari subiscono pressioni per ritirare la firma. I media inquadrano l'azione come provocazione invece che esercizio legittimo di diritti riconosciuti dalla convenzione sul genocidio. Il messaggio è chiaro. Manifestare va bene, denunciare formalmente alle corti internazionali no. Il dissenso può essere espresso finché resta inefficace. Quando utilizza gli strumenti giuridici che potrebbero produrre conseguenze concrete, viene delegittimato e attaccato senza respiro, ma non basta, bisogna osare di più.
La criminalizzazione del dissenso
Quando delegittimazione e pressione non bastano, il sistema passa alla criminalizzazione. Ottobre 2025. Mentre Netanyahu è sotto mandato di arresto della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, il Senato italiano discute il DDL Gasparri che equipara antisionismo ad antisemitismo mentre la critica al governo di Israele diventa reato penale. Negare il diritto di Israele ad esistere, sanzione penale.
Non è caso isolato. Diversi paesi occidentali introducono legislazione simile mentre le operazioni militari continuano. La Germania rappresenta caso particolare per ragioni storiche. Il senso di colpa verso l'Olocausto, assolutamente legittimo e necessario, viene però utilizzato per mantenere sostegno incondizionato alle politiche israeliane contemporanee. Qualsiasi critica dello stato israeliano rischia di essere equiparata ad antisemitismo, rendendo il dibattito pubblico tedesco particolarmente limitato. Il messaggio è inequivocabile. Non solo il dissenso deve restare inefficace, ma quando diventa troppo diffuso viene criminalizzato. La sequenza è completa. Prima manifestazioni rituali permesse, poi delegittimazione del dissenso legale, infine criminalizzazione della critica stessa. Del resto gli interventi di censura e di caccia al dissidente sui social media a livello globale sono pesantissimi, ma di questo scriverò a parte.
Trump 2025: l'occupazione permanente “griffata” con altro nome
Mentre i governi europei annunciano riconoscimenti, emerge il piano Trump in 20 punti per Gaza. Il documento, pubblicato dalla Casa Bianca, costituisce progetto tecnico per rendere permanente l'occupazione israeliana chiamandola governance internazionale. Il piano continua le politiche del primo mandato Trump: ambasciata a Gerusalemme, riconoscimento Golan, taglio UNRWA, mediazione Accordi Abramo. Il meccanismo è esplicito nel testo. Gaza viene governata da un comitato tecnocratico palestinese controllato da un Consiglio di pace guidato da Trump, con membri, tra cui l'ex premier britannico Tony Blair. I palestinesi gestiscono servizi quotidiani ma hanno zero potere politico. Nessuna sovranità, nessun controllo delle frontiere, nessuna politica estera. Il punto 16 del piano stabilisce che le Forze di Difesa Israeliane si ritirano progressivamente secondo standard e tappe non specificate, mantenendo presenza di sicurezza perimetrale fino a quando Gaza non sarà protetta da minacce terroristiche. Ma chi deciderà quando Gaza sarà protetta abbastanza? il governo israeliano, ovvio. Significativamente, il piano ignora completamente la Cisgiordania dove vivono tre milioni di palestinesi, lasciando intatto l'equilibrio attuale con l'autorità palestinese collaborazionista e l'espansione continua degli insediamenti. I coloni, spesso religiosi ultraortodossi con rappresentanza politica sproporzionata, molti immigrati da USA ed Europa per ideologia, sono punta di lancia di un progetto di espansione territoriale transnazionale che il piano non tocca neanche di striscio. La popolazione palestinese viene smilitarizzata completamente sotto supervisione di osservatori indipendenti nominati da Washington e partner occidentali, mentre Israele conserva tutte le capacità militari. Il punto 13 richiede distruzione di tutte le infrastrutture militari palestinesi e smantellamento definitivo delle armi. Non è negoziato tra pari ma imposizione unilaterale. Il punto 17 chiarisce che se Hamas rifiuta, il piano procede comunque nelle aree che Israele definisce libere dal terrorismo. Non esiste percorso definito verso lo Stato indipendente, quello che molti governi si sono affrettati a riconoscere a settembre. Il punto 19 afferma che potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso autodeterminazione, tutto al condizionale e dipendente da fedele attuazione del programma di riforme dell'autorità palestinese. La parola stato palestinese viene sostituita da piano di sviluppo economico di Trump e zona economica speciale con tariffe preferenziali. Gaza diventa zona economica dipendente, non stato sovrano. Questo è quello che in diritto internazionale si chiama occupazione amministrata. Israele controlla territorio e sicurezza ma delega gestione tecnica quotidiana a comitato fantoccio supervisionato da Washington. I palestinesi diventano popolazione amministrata con accesso a servizi ma senza diritti politici. Il piano trasforma l'occupazione militare in governance tecnocratica permanente. Mentre l'UE riconosce simbolicamente lo Stato palestinese, gli Stati Uniti pubblicano il manuale tecnico per la sua cancellazione definitiva. Un piano da premio Nobel per la pace.
La dipendenza strategica di Israele, il quadro generale
I media di regime presentano Israele come attore autonomo. La leadership israeliana ha scelto di mantenere il ruolo di avamposto militare occidentale in Medio Oriente, trovando in questa dipendenza strutturale vantaggi strategici che rendono il cambiamento contrario ai propri interessi. I dati mostrano che una parte significativa dell'export va verso UE e Nord America. Il paese importa il 100% del petrolio, la grande maggioranza del grano e componenti essenziali per l'industria high-tech. Senza accesso ai mercati occidentali e alle forniture energetiche, l'economia non reggerebbe a lungo. Questa alleanza serve molteplici interessi occidentali. Israele funziona come contrappeso all'Iran nella regione, giustificando presenza militare occidentale e politiche di contenimento. Controlla risorse idriche strategiche, con accesso esclusivo al fiume Giordano e alle falde della Cisgiordania. L'apartheid idrica documentata dalla Banca Mondiale, con coloni che usano piscine mentre palestinesi subiscono razionamento, dimostra come controllo dell'acqua equivalga a controllo territoriale. Inoltre, Israele è diventato laboratorio globale per tecnologie di controllo. Sistemi di sorveglianza come Pegasus della NSO Group, droni militari e cyber warfare vengono testati su Gaza e Cisgiordania, poi venduti a governi autoritari globalmente. Il conflitto permanente genera business tecnologico miliardario. Il business degli armamenti documenta gli interessi materiali concreti. Gli Stati Uniti forniscono 3,8 miliardi di dollari annui in aiuti militari garantiti. La Germania è secondo fornitore europeo con contratti che superano i 300 milioni di euro annui. Aziende come Lockheed Martin, BAE Systems, Rheinmetall e Leonardo forniscono caccia, missili, munizioni e droni in contratti multimiliardari. Queste forniture costituiscono investimento strategico che mantiene dipendenza reciproca e genera profitti consistenti per il complesso militare-industriale occidentale. Oltre quattro milioni di rifugiati palestinesi in Giordania, Libano e Siria restano esclusi da qualsiasi prospettiva di ritorno o partecipazione alle decisioni sul loro futuro. I governi israeliani hanno scelto di non perseguire pace reale perché contrasterebbe con il ruolo che garantisce vantaggi dall'alleanza occidentale. Non possono procedere con annessione completa perché creerebbe un problema demografico insostenibile. Questa realtà viene occultata presentando ogni azione come scelta sovrana di Netanyahu invece che conseguenza di scelte strategiche che servono interessi materiali precisi. Le sanzioni applicate alla Russia, ovvero embargo tecnologico, blocco transazioni SWIFT ed esclusione dai mercati europei, applicate a Israele produrrebbero risultati misurabili in poche settimane. Un'economia relativamente piccola e profondamente integrata nei mercati occidentali non può sostenere l'isolamento che reggono economie continentali autosufficienti. Questa leva esiste, è tecnicamente efficace, è storicamente documentata nel suo funzionamento contro altri stati. Non viene utilizzata. La domanda diventa quindi esclusivamente politica. Quali interessi strategici valgono un genocidio. La risposta si trova nelle forniture militari che continuano senza interruzione, negli accordi commerciali che proseguono normalmente, nei riconoscimenti simbolici che non costano nulla e non cambiano nulla sul terreno.
La logica del sistema, rapido resoconto
A fine settembre 2025 si palesa il funzionamento completo, per chi lo vuole vedere, certo. Mentre le operazioni militari continuano, i governi annunciano riconoscimenti con massima enfasi celebrando svolta storica. La realtà è che affinché uno Stato palestinese sia effettivamente costruito, il governo israeliano dovrebbe rinunciare a opporsi e gli Stati Uniti essere d'accordo. Si riconosce uno stato la cui esistenza materiale dipende dal permesso dell'oppressore. La storia dal 1948 al 2025 documenta una sequenza orchestrata. Nakba, guerre, occupazione, terrorismo, processi di pace senza pace, riconoscimenti che non riconoscono nulla. Ogni capitolo viene presentato come opportunità storica quando è continuazione dello stesso copione. Tutti i protagonisti principali hanno interesse materiale a mantenere lo status quo. Le élite palestinesi, sia la leadership di Fatah che quella di Hamas, accedono a potere e risorse attraverso il conflitto permanente mentre la fertilissima popolazione palestinese paga il prezzo in vite umane. Questa è la chiave per comprendere l'asimmetria radicale nel numero delle vittime. Le élite utilizzano la causa per consolidare controllo mentre i civili muoiono, non come strategia deliberata di sacrificio ma come conseguenza accettata del mantenimento del potere. I governi arabi utilizzano strumentalmente la causa palestinese per politica interna senza sostenere costi. La leadership israeliana, indipendentemente che sia di destra o sinistra, mantiene controllo territoriale e flussi di aiuti militari. L'Occidente, attraverso governi sia progressisti che conservatori, preserva interessi strategici. Il controllo informativo serve a impedire che l'opinione pubblica identifichi questa realtà dove destra e sinistra, pur con retoriche diverse, servono lo stesso sistema. Il sistema funziona permettendo il dissenso verbale per impedire l'azione materiale. Le manifestazioni sono autorizzate finché rimangono rituali. Il termine genocidio può essere pronunciato finché non produce embargo sulle armi. I riconoscimenti vengono annunciati finché non interrompono flussi commerciali. Non è censura diretta ma gestione sofisticata del consenso. La censura crea martiri, la gestione crea l'illusione della partecipazione democratica neutralizzando ogni minaccia. Il paradosso finale è di una semplicità cristallina. I governi occidentali riconoscono uno Stato palestinese mentre forniscono le armi che ne impediscono l'esistenza. Celebrano la sovranità finanziando l'occupazione. Dichiarano il diritto all'autodeterminazione garantendo che non possa essere esercitato. Questa contraddizione è il sistema stesso nel suo funzionamento ottimale. Funziona perché il pubblico rimane in ambiguità morale permanente, abbastanza informato da sentirsi coinvolto ma abbastanza frammentato da non connettere i dati e identificare le leve concrete. I riconoscimenti sono l'ennesimo atto teatrale. La storia dal 1948 dimostra una verità scomoda ma verificabile. Ogni volta che la pressione popolare occidentale ha minacciato concretamente gli interessi strategici, il sistema ha prodotto riconoscimenti, conferenze, processi di pace. Ogni volta che questa pressione si è dissolta in rituali inefficaci, il sistema ha continuato indisturbato. La differenza tra i due scenari non è tecnica o diplomatica. È la capacità dell'opinione pubblica occidentale di connettere tre dati verificabili. Israele dipende economicamente dall'Occidente, le sanzioni economiche funzionano rapidamente su economie integrate, nessun governo occidentale applica queste sanzioni perché preserva interessi che ben valgono 67.000 morti e molti di più. Il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione quindi non dipende solo dalla abilità manipolatorie delle sue élite corrotte, ma anche dalla capacità dell'opinione pubblica occidentale di riconoscere la propria responsabilità diretta nel mantenimento dell'occupazione. Questa connessione è l'unica cosa che il sistema non può assorbire, ritualizzare o neutralizzare. Tutto il resto appare come rappresentazione, non come soluzione.
Il paradosso a cui la maggioranza si è assuefatta
Mentre l'industria automobilistica italiana collassa, con stabilimenti chiusi e migliaia di esuberi, la CGIL proclama sciopero generale per Gaza. La stessa organizzazione che ha firmato accordi da 5 euro l'ora per i vigilantes mobilita milioni di persone per una causa geopolitica a migliaia di chilometri, manifestazioni spesso sfociate in episodi di violenza gratuita. Non è incoerenza, ma sostituzione simbolica. Privato di reale potere contrattuale, il sindacato trasferisce la propria funzione dal concreto all'etico. La questione palestinese -che dal 1947 ha generato un ecosistema economico da miliardi (ONU, UE, paesi del Golfo) alimentando ONG, apparati burocratici e carriere- diventa strumento di legittimazione identitaria. Si mobilita solo quando si supera una soglia simbolica, ovvero quando il numero di vittime garantisce visibilità mediatica e ritorno di consenso. Gaza diventa terreno sicuro per riaffermare presenza pubblica senza rischio operativo, basso costo, alta visibilità, evitando sconfitte misurabili. Affrontare Stellantis invece richiede potere reale. L'opinione pubblica, immersa in un contesto di anarchia informativa, perde capacità critica. Si mobilita per una suggestiva quanto effimera flotilla nel Mediterraneo orientale, ma resta inerte mentre la base industriale italiana viene smantellata, e con essa i progetti di vita di migliaia di donne e uomini per bene. Il paradosso raggiunge l'apice quando la stessa Gaza che serviva alla CGIL per bloccare il paese diventa, pochi giorni dopo, il merito per cui Tajani e Salvini propongono la candidatura di Trump per il premio Nobel per la pace, lo stesso pacificatore che ha proposto di alzare il livello di scontro con la Russia, con l’invio di missili da crociera al regime di Kiev, ovviamente a spese dei contribuenti europei. Pochi colgono la contraddizione, ieri Gaza era una causa per manifestare, oggi pretesto per celebrare. Gaza non è mai stata la questione reale bensì è sempre stata capitale simbolico spendibile per fini opposti. La rappresentanza diventa performance morale, sostituendo responsabilità reale con rappresentazione. L'assurdo elevato a sistema.
Luigi Speciale
Bibliografia
J.A. Massad, The Persistence of the Palestinian Question: Essays on Zionism and the Palestinians, Routledge, 2006 W. Cleveland, M. Bunton, Storia del Medio Oriente moderno, Milano, Mondadori Università, 2020. F. Coen, Israele: quarant'anni di storia, Milano, Marietti, 1987. Massad, Islam in Liberalism, The University of Chicago Press, 2022. R. Khalidi, Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, Bari, Laterza, 2021. I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi Editore, 2008. S. Roy, The Gaza Strip: The Political Economy of De-Development, Institute for Palestine Studies, 1995. C. Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Bari, Laterza, 2021. Nazioni Unite. Risoluzioni sulla Palestina e il Medio Oriente, 1947-2025.
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Nuovo Monitore Napoletano N.202 Ottobre 2025
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Settembre 2025. A New York i diplomatici celebrano il riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Francia, Belgio e altri quattro paesi europei. Titoli enfatici, conferenze stampa, dichiarazioni solenni sulla svolta storica.
Gli accordi di Oslo del 1993 rappresentano il momento in cui la causa palestinese venne trasformata in business. Il 13 settembre 1993, alla Casa Bianca, il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres e il negoziatore palestinese Mahmoud Abbas firmarono la dichiarazione di principi alla presenza del presidente Clinton, mentre i leader Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si stringevano la mano. Premi Nobel nel 1994, celebrazioni globali. La realtà sul campo documentava altro.
Il governo italiano pochi giorni fa ha annunciato una mozione condizionata a Gaza "libera da Hamas" e liberazione ostaggi. I media allineati hanno inquadrato questo annuncio come passo avanti invece che negazione di sovranità palestinese, e mentre diversi paesi europei riconoscono lo stato palestinese, continuano le forniture militari a Israele come se non ci fosse un domani.
Applicare "doppi standard" a Israele, potenzialmente reato. Il focus è università e scuole, dove il dissenso su Gaza è più forte.