Donne della Resistenza
Poi, quando cercò di prendere l’involto caduto a terra per provare a tirarlo nuovamente al compagno, un tedesco le si parò davanti, sparandole. Teresa Gullace era incinta di 7 mesi e aveva con sé suo figlio Umberto, di appena 13 anni. Divenne martire della violenza nazifascista, barbara, assurda, feroce. Di quelle che si abbattono su donne e bambini. Era una promessa del nuoto Carla Voltolina. Aveva già vinto diverse gare, e chissà, magari quella sarebbe stata la sua strada. Però era anche molto studiosa e si era iscritta all’università. Eppure, il destino aveva altri programmi e a causa della Seconda guerra mondiale dovette lasciare nuoto e studi. Ma era una ragazza forte e determinata, oltre che dichiaratamente antifascista. Per questo si unì alla Resistenza rifiutando però sia le armi, sia la definizione, riduttiva, di staffetta. Nel 1944 le fu chiesto di accompagnare a Milano un dirigente del partito socialista, di nome Sandro Pertini. Fu amore a prima vista nonostante i 25 anni di differenza, e dopo la guerra nel 1946 si sposarono. Ma a causa della carriera del marito e del suo grande senso etico dovette abbandonare il giornalismo. Carla, infatti, non riteneva corretto continuare a fare la giornalista, non perché ci fosse una legge che lo proibisse, ma solo perché aveva un grande senso dello Stato, e non voleva nemmeno lontanamente porre il marito in una situazione di conflitto di interessi. Anche solo potenziale. Per questo, ormai cinquantenne, tornò sui libri e si laureò in scienze politiche in psicologia, per poi lavorare come psicoterapeuta specializzata nell’ambito di tossicodipendenze e malattia mentale. Aveva raggiunto un nuovo equilibrio, familiare, personale e professionale, ma la carriera del marito, ormai anziano, la pose di nuovo di fronte all’ennesima sfida. E forse all’ennesimo sacrificio. Perché Sandro, il marito era diventato Presidente della Repubblica, non una cosa da poco. Ma lei Carla Voltolina, non ne voleva sapere di ridursi al ruolo di first lady. Così come non ne voleva sapere di trasferirsi al Quirinale. E così continuò a lavorare come volontaria lontana da Roma, a Firenze con medici che in gran parte ignoravano chi fosse suo marito. Non ambiva a un ruolo pubblico: «Il mio quirinale è una camera di ospedale con persone che soffrono». Quando le chiesero i nomi dei suoi compagni, degli altri partigiani Irma Bandiera non disse niente. Decisero allora di torturarla per farla parlare. Lo fecero per sei giorni consecutivi, ma lei ancora non parlò. Arrivati a quel punto, i nazifascisti l'accecarono. Ma anche lì, Irma non diede loro neanche un nome. Dopo tutto questo, dopo le torture a cui Irma rispose sempre con il silenzio, ebbero un'idea: la trascinarono fuori casa dei suoi genitori, devastata, dolorante a causa delle torture. La scagliarono sul marciapiede e uno dei torturatori le disse: «Ne vale la pena? Dacci qualche nome, e potrai entrare in casa. Dietro questa finestra ci sono tua madre e tuo padre». Un’ultima volta, Irma Bandiera non proferì una parola. Quel 14 agosto 1944, l’ammazzarono lì davanti, a Meloncello di Bologna, con dei colpi di pistola, davanti a casa dei suoi genitori. La ritrovarono senza gli occhi, Gabriella Degli Esposti, con il ventre aperto, la testa rasata. I tedeschi l'avevano torturata per due giorni, anche se era incinta. Volevano sapere dove fosse il marito, partigiano come lei. Era una donna forte Gabriella e grazie a lei tempo prima si era organizzata una manifestazione, a Castelfranco in Emilia. Era così forte da non essersi tirata indietro dalla lotta di liberazione neanche in stato di gravidanza. La catturarono, provarono a farla parlare. Non ci riuscirono. E per questo la uccisero il 17 dicembre, torturandola per ore. Fu uno degli assassinii più barbari. Perché quelli erano barbari della peggior specie. Devastazioni, infamie e dolore lasciarono i tedeschi in Italia, in ogni dove. E spesso con lo squallido e vigliacco aiuto di alcuni italiani, gli unici veri traditori che aiutarono i tedeschi a massacrare innocenti. Virginia Tonelli, partigiana, non parlò neppure l’ultimo giorno, quando aveva subito di tutto. La torturarono e straziarono per dieci giorni di fila, riducendola ad uno stato quasi larvale. Le inflissero sevizie, umiliazioni e atrocità di ogni tipo per farla parlare, per farle dire i nomi dei compagni ed estorcerle informazioni sui partigiani. Orfana di padre, aveva iniziato a lavorare a soli undici anni per mantenere i fratelli più piccoli. Poi, quando crebbe, si avvicinò al PCI e iniziò la sua militanza. Nel 1943, aderì subito alla lotta partigiana. Organizzava manifestazioni di donne contro l’invasore, portava la stampa clandestina da una città all’altra, raccoglieva fondi e materiale per sostenere chi stava combattendo. Fu arrestata a Trieste mentre trasportava della stampa. Dieci giorni di torture e non le cavarono niente, neppure un nome. Fu solo il silenzio. Tale fu la rabbia dei tedeschi che l’undicesimo giorno la portarono alla Risiera di San Sabba, campo di concentramento, e per il solo gusto di farlo, di vendicarsi, la bruciarono viva in un forno. Il 13 novembre 1903, una grande donna, una grande combattente, una grande italiana. Una di quelle a cui, assieme a tante persone, dobbiamo la nostra Repubblica e la nostra democrazia. Maddalena Cerasuolo aveva iniziato da semplice operaia napoletana. Provò cinque volte a raggiungere la Corsica su una motosilurante, con l’obiettivo di andare poi in Liguria a sostenere la Resistenza. Poi si fece paracadutare a Montecassino, dove fingendosi una cameriera prese informazioni sui movimenti tedeschi. Tutto questo dopo un addestramento da servizi segreti. Quando i tedeschi minacciarono di radere al suolo la città e deportare decine di migliaia di persone nei campi di lavoro, la città insorse e tra gli insorti c’era anche lei. Prima cercò le armi da dare ai partigiani, poi si stufò di portare ceste piene di bombe a mano e prese a sparare anche lei. Nelle quattro giornate di Napoli, che iniziavano proprio oggi il 27 settembre, fu lei a fare ricognizioni dietro le linee nemiche per sapere quanti fossero i tedeschi. E sì offrì anche di andare a parlamentarci, sapendo i rischi che correva. Fu così determinata che la presero i servizi segreti, dopo la liberazione della città. Nel dopoguerra, tenne viva la memoria e divenne un simbolo. Quando le dissero che i fascisti di Trento stavano organizzando un’adunata sotto il monumento del marito, corse lì e lo coprì con un velo. Erano passati 10 giorni dall’omicidio di Matteotti ed Ernesta Bittanti Battisti, vedova di Cesare Battisti, non voleva in nessun modo che i fascisti strumentalizzassero la sua memoria. Come scrissero sul giornale, ella “s'era proposta di non permettere assolutamente - anche a costo della vita - che i fascisti vi si accostassero”. Da decenni lottava per una politica diametralmente opposta a quella fascista. Con il marito scrivevano e parlavano anche di diritti delle donne, di divorzio, di abolizione della pena di morte. Fu giornalista, infermiera, insegnante, analista politica. Una delle prime venti donne a laurearsi in lettere e filosofia qui in Italia. E, nel dopoguerra, fu antifascista convintissima. Scriveva lettere a Mussolini dove lo umiliava e lo accusava di star calpestando i diritti e gli oppositori. Durante tutto il regime fu tenuta sott’occhio per la sua opposizione al fascismo. Poi, assieme al figlio Gino Battisti, fu collaboratrice della Resistenza e contribuì a liberare l’Italia. Morì il 5 ottobre del 1957. La sua epigrafe la dettò Ferruccio Parri: “Custode fiera fedele della memoria dell'eroe, combattente animosa irriducibile di tutte le battaglie della libertà”.
Leonardo Cecchi |
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Teresa voleva solo dargli del pane. Come tutte le mattine, andava davanti alla caserma nel tentativo di vedere il marito, prigioniero dei tedeschi. Quella mattina, quando cercò di chiamarlo per dargli il pane e confortarlo, i tedeschi la presero a botte con il calcio dei fucili.