Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I Borbone e la Camorra: il patto scellerato che forgiò il crimine organizzato

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La presente riflessione nasce dall’osservazione quotidiana nelle strade, nei corridoi degli atenei, nei mercati rionali, nei bar di periferia, nei vicoli, di una diffusa e persistente fascinazione verso i Borbone, celebrati come autori di un presunto “età dell’oro” meridionale, spesso da persone prive di strumenti critici adeguati a contestualizzare tali narrazioni.

Questa riflessione che si concretizza di seguito con un tentativo di costituire un promemoria semplificato, una “road map” della coscienza storica, un “richiamo vaccinale” necessario, da fare ciclicamente, per non dimenticare la differenza tra mito e realtà storica, per non abbassare definitivamente la guardia al processo di normalizzazione del malaffare, che è sempre in agguato.

Il fenomeno osservato, dopo la fase parossistica di qualche anno fa, si sta di nuovo manifestando insistentemente, ancora una volta attraverso l’uso di stemmi e, in particolar modo, della bandiera delle Due Sicilie, presentata come simbolo di un glorioso passato nazionale, mentre in realtà costituisce un emblema ingannevole, carico di valenze propagandistiche, politiche e commerciali. La bandiera del Regno delle Due Sicilie, tricolore bianco-rosso-giallo con lo stemma Borbonico al centro, concentra numerosi simboli di grandi dinastie europee -gigli di Francia, castelli di Castiglia, leoni di León, croce di Gerusalemme, pali di Aragona, etc.- e pretendevano così di accreditarsene fasti e prestigio.

 

Il potere Borbonico invece rimase, nei fatti, conservatore e profondamente arretrato e si servì della delinquenza per mantenere il controllo sociale.

La “falla” è evidente: ciò che appariva grande e legittimo mascherava un governo geneticamente incapace di incarnare nobiltà e gloria. Quel vessillo riemerge ciclicamente ad ogni “cambio generazionale”, negli stadi, nelle feste paesane, sovente anche in insospettabili circoli culturali, e si presenta come simbolo identitario e di contrapposizione al Nord.

Il nome del casato e lo stemma sono normalmente utilizzati anche come marchio commerciale, al fine di costruire artificiosamente un senso di appartenenza fondato sull’illusione di un passato glorioso, sfruttato astutamente per fidelizzare il consumatore-tifoso, generalmente privo di radici identitarie solide.   

La bandiera dei Borbone non evoca solo illegalità ma ne è espressione stessa, incarnando la complicità di un potere con la criminalità e mascherando le sue mancanze. Non è folklore, non è nostalgia ma è manipolazione della memoria e legittimazione simbolica di ciò che la legge e la storia condannano.

In questo contesto, intellettuali e docenti di ogni ordine e grado, sempre in guardia, pronti a scagliarsi, legittimamente, contro un fascio littorio appena “fuori posto”, hanno forse dimenticato di avere altrettanta responsabilità etica, politica e giuridica anche nel caso specifico dei Borbone.

Devono offrire strumenti critici, chiarire la distanza tra simbolo e realtà e restituire alle giovani generazioni la visione completa dei fatti, con particolare attenzione a quei giovani appassionati di sport campanilistici. L’insegnamento della storia è un presidio concreto della responsabilità civile e costituzionale, difesa dei principi normativi che regolano la convivenza e barriera insostituibile contro ogni mistificazione politica, nostalgica o commerciale. Questa riflessione esplora sommariamente i rapporti tra potere Borbonico e camorra, distinguendo tra mito e realtà storica, memoria e ideologia.

La fallacia del simbolo Borbonico non è mera curiosità araldica ma rappresenta invece un punto di partenza concreto, solido, per comprendere come un governo incapace di incarnare nobiltà e legalità abbia potuto legittimare, consolidare e strumentalizzare la criminalità organizzata, trasformando il controllo sociale in un’illusione di ordine e prestigio destinata a riverberarsi ben oltre il suo tempo.

 

7 settembre 1860, Napoli

Mentre Francesco II di Borbone fugge verso Gaeta senza opporre resistenza, per le strade della capitale partenopea non sono i soldati regolari a mantenere l'ordine. Sono i capi camorra, arruolati dal ministro Liborio Romano nella guardia nazionale per facilitare l'arrivo di Garibaldi.

È il momento culminante di un'alleanza tra Stato e criminalità che ha radici profonde: sessant'anni di tacita collaborazione tra la dinastia Borbonica e quella che nel 1820 si era costituita ufficialmente come "Bella Società Riformata" nella chiesa di Santa Caterina a Formiello. Questa non è la storia di una degenerazione imprevista, ma di una strategia deliberata che trasformò la camorra da fenomeno marginale a potere parallelo strutturato, creando un modello di controllo sociale che sopravvive ancora oggi.

La nascita di un sistema: dal gioco d'azzardo al controllo territoriale

La prima traccia ufficiale del termine "camorra" appare nel 1735 nella prammatica Borbonica "De Aleatoribus", che legalizzava case da gioco inclusa quella denominata "Camorra innanzi Palazzo".

Ma è tra il 1810 e il 1820, beneficiando dell’onda lunga della mancata rivoluzione del 1799, che l'organizzazione assume una forma strutturata. Nel 1820 nasce, quindi, la "Bella Società Riformata" - il nome stesso rivela l'esistenza di un'organizzazione precedente ora "riformata" - con uno statuto rigido chiamato "Frieno".

L'organizzazione si articola su dodici quartieri napoletani, ciascuno con il proprio capo società, codici d'onore precisi e riti d'iniziazione che imitano deliberatamente le usanze aristocratiche del tempo, mutuando l'idea stessa dalle confederazioni dell’élite nobiliare europea.

Non è casualità: tutta la storia europea tra 1820 e 1848 è caratterizzata da lotte contro l'assolutismo intraprese da elementi dell'aristocrazia e della borghesia riuniti in organizzazioni confederate. La camorra si inserisce in questo contesto, creando una propria "aristocrazia criminale" con gerarchie che replicano quelle del potere legittimo.

 

La strategia Borbonica: governare senza governare

I Borbone di Napoli adottarono un approccio al controllo dell'ordine pubblico radicalmente diverso da quello delle altre monarchie europee, le quali investivano in apparati statali centralizzati e costosi; i Borbone scelsero una governance "policentrica" che delegava il controllo territoriale a soggetti non statali.

Questa scelta non nasceva da debolezza, ma da calcolo pragmatico. Piuttosto che sostenere i costi di una polizia capillare, lo Stato Borbonico tollerò e utilizzò la camorra come corpo ausiliario per il controllo di mercati, quartieri popolari e perfino carceri. Un sistema che funzionava: la camorra garantiva un ordine sociale di base, incassava le proprie "tasse" parallele e manteneva la stabilità necessaria al regime.

Il punto di svolta arriva con Liborio Romano (1794-1867), l'ultimo ministro di polizia Borbonico, liberale e massone, che ha determinato la prima trattativa stato-camorra della storia. Romano organizzò e utilizzò i capi della camorra per mantenere l'ordine durante la transizione dal regno Borbonico all'arrivo di Garibaldi. Non si trattò di un episodio isolato. Le numerose relazioni di polizia dell'epoca documentano come la camorra fosse già ampiamente utilizzata prima del 1860, dimostrando che la collaborazione stato-camorra era prassi consolidata, non eccezione.

 

Il prezzo dell'efficienza: quando lo Stato diventa complice

Le conseguenze di questa strategia furono devastanti per il lungo termine. La mancata repressione sistematica permise alla camorra di radicarsi profondamente nel tessuto sociale napoletano, acquisendo una legittimità de facto che trascendeva la semplice tolleranza.

La primogenitura della camorra tra le organizzazioni mafiose italiane è dimostrata dal fatto che il termine "camorra" era già presente nella legge Pica del 1863 per la repressione del brigantaggio, mentre il termine "mafia" entrò nel Codice penale solo successivamente.

La forza della camorra non derivava solo dalla protezione statale, ma dalla sua capacità di offrire servizi che lo Stato non garantiva: mediazione nei conflitti, protezione economica, risoluzione extragiudiziale delle controversie. Nel suo statuto dominava "l'elemento solidaristico e di mutua assistenza", creando una rete di welfare criminale che suppliva alle carenze dell'apparato pubblico.

 

Il confronto europeo: l'eccezionalità Borbonica

Mentre in Europa si affermavano modelli di controllo statale centralizzato, il Regno di Napoli mantenne un sistema feudale mascherato da pragmatismo moderno. Gli Asburgo nell'impero austro-ungarico, i Borbone di Francia, perfino i piccoli stati tedeschi investivano in burocrazie professionali e forze dell'ordine regolari. I Borbone napoletani scelsero diversamente: preferirono ottimizzare la spesa pubblica delegando il controllo a soggetti privati, in una forma primitiva di "privatizzazione" dell'ordine pubblico.

Una scelta che nel breve termine garantì stabilità ed efficienza economica, ma nel lungo termine creò mostri fuori controllo.

 

L'eredità contemporanea: un modello che non muore

La camorra odierna - policentrica, ramificata, profondamente integrata nell'economia legale è l'evoluzione diretta del sistema Borbonico. Non a caso, i Savoia non smantellarono questo sistema ma lo ereditarono e utilizzarono.

Anche il nuovo Regno d'Italia, di fronte alla complessità del controllo territoriale meridionale, preferì spesso la via del compromesso con i poteri locali consolidati piuttosto che investire in una completa riorganizzazione statale dal basso.

I clan contemporanei replicano ancora oggi la logica della "Bella Società Riformata": controllo territoriale, codici d'onore, servizi para-statali, mediazione tra economia legale e illegale, messa a disposizione di funzionari "chiave" della pubblica amministrazione. Il modello Borbonico sopravvive nell'ombra di una politica che cerca ancora "soluzioni pragmatiche" ai propri limiti strutturali. Quando lo Stato non riesce a garantire sicurezza, giustizia ed opportunità economiche, emergono inevitabilmente poteri paralleli che suppliscono a queste carenze - esattamente come accadeva nel Regno delle Due Sicilie. La differenza è che oggi questi fenomeni non sono più espliciti come ai tempi di Liborio Romano, ma si manifestano attraverso zone grigie di collusione, tolleranza interessata e delega informale del controllo territoriale che emulano le strategie borboniche.

 

La responsabilità storica del potere

I Borbone non crearono la camorra, ma trasformarono la delinquenza comune, frutto della disperazione, figlia primogenita del malgoverno, da fenomeno criminale marginale in istituzione para-statale strutturata.

La loro responsabilità non sta nell'aver "causato" il crimine organizzato, ma nell'aver deliberatamente scelto di utilizzarlo come strumento di governo invece di combatterlo.

Se avessero investito nella legalità, nella giustizia e in apparati statali efficienti, la camorra non avrebbe mai acquisito la forza e la penetrazione sociale che mantiene ancora oggi. Invece, preferirono la via dell'efficienza immediata al massimo ribasso, travolgendo il popolo del Mezzogiorno con un mostruoso debito che continua a scontare dopo centosessantacinque anni.  

Non palazzi reali, non bordelli monumentali, non chiese ex voto, non favole diventate successo editoriale, il vero lascito dei Borbone, la criminalità organizzata, si sostanzia e si manifesta nella realtà odierna come un cancro di quelli che non lasciano scampo.

La lezione storica è chiara: quando il potere politico sceglie di convivere con l'illegalità per convenienza, non sta semplicemente "tollerando" un fenomeno marginale ma sta creando le condizioni perché quel fenomeno si radichi, si legittimi e diventi strutturale.

Una lezione che ogni classe dirigente, docente, intellettuale, ieri come oggi, dovrebbe meditare prima di scegliere la via del compromesso con l'illegalità.

 

Luigi Speciale

 

Bibliografia essenziale:

Fonti documentali:

Prammatica "De Aleatoribus" (1735), Archivio di Stato di Napoli.

Legge Pica (15 agosto 1863), Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia.

Carte Liborio Romano (1860), Archivio di Stato di Napoli.

 

Fonti contemporanee:

M. Monnier, La Camorra. Notizie storiche, Firenze, Barbera, 1862.

L. Romano, Memorie politiche, Milano, Giuffrè, 1992.

 

Studi moderni:

I. Sales, La camorra, le camorre, Roma, Editori Riuniti, 1993.

G. Galasso, Il Regno di Napoli, Torino, UTET, 1992.

S. Lupo, Storia della mafia, Roma, Donzelli, 1993.

 

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